giovedì 30 giugno 2011

Clarence Clemons 1942-2011


Un melanoma si era portato via Federici tre anni fa, ed ora se ne è andato, a 69 anni, anche "The Big Man", sicuramente uno dei pilastri della E-Street band soprattutto nel periodo del massimo fulgore del Boss: chi può dimenticare i suoi assoli in Born to Run, soprattutto nel brano omonimo ma anche in Thunder Road e Jungleland, ed in Darkness on the edge of town nel classico Badlands. In The River Clemons mette la sua impronta in The ties that bind, Sherry Darling ed Indipendence Day; in Born in the USA è da brividi il suo assolo in Bobby Jean ed in I'm Goin' Down. Clemons incontrò Springsteen dopo aver suonato (Clemons) ad Asbury Park in un piccolo club: lui racconta di essergli andato incontro e di averlo quasi intimidito con la sua immensa presenza fisica (era alto 1.98 cm!) dicendogli "voglio suonare con te". Springsteen sembra che gli rispose "sicuro, qualsiasi cosa tu vuoi!": la sintonia musicale fu immediata e fu così che Clemons entrò nel sogno di Springsteen ad anche nella storia del rock. Clemons era rimasto con la band fino ad oggi ma si dedicò anche a molti altre cose: ha recitato, debuttando nel film di Scorsese del 1977 "New York New York" con Robert De Niro, e successivamente in altri film e serie televisive. Le sue collaborazioni musicali sono state molteplici: Jackson Browne, Aretha Franklin e Jerry Garcia sono i primi nomi che mi vengono in mente (l'ultimo è stato con Lady Gaga ma è meglio far finta di niente...).
Certo, negli ultimi anni era triste vederlo molto affaticato e con, non una ma due marce, in meno rispetto a Springsteen. In realtà nell'ultimo concerto cui ho assistito (Udine 2009) mi era sembrato un pò più in forma e si era meritato la solita presentazione del Boss: "ecco a voi "The master of the Universe"! Se avete la pazienza di leggervi lo statement di Springsteen sul suo sito brucespringsteen.net, ci si può rendere conto di come Clemons avesse i suoi alti e bassi e di come il boss, vero amico e compagno di tanti anni, fosse il primo a conoscerli ed accettarli e, con queste parole, cerca di consolare i suoi figli (4) e la moglie (la 5°) e ricordarlo per quello che era, come solo un vero amico può fare: "Those of us who shared Clarence's life, shared with him his love and his confusion. Though "C" mellowed with age, he was always a wild and unpredictable ride. Today I see his sons Nicky, Chuck, Christopher and Jarod sitting here and I see in them the reflection of a lot of C's qualities. I see his light, his darkness, his sweetness, his roughness, his gentleness, his anger, his brilliance, his handsomeness, and his goodness. But, as you boys know your pop was a not a day at the beach. "C" lived a life where he did what he wanted to do and he let the chips, human and otherwise, fall where they may. Like a lot of us your pop was capable of great magic and also of making quite an amazing mess. This was just the nature of your daddy and my beautiful friend. Clarence's unconditional love, which was very real, came with a lot of conditions. Your pop was a major project and always a work in progress. "C" never approached anything linearly, life never proceeded in a straight line. He never went A... B.... C.... D. It was always A... J.... C.... Z... Q... I....! That was the way Clarence lived and made his way through the world. I know that can lead to a lot of confusion and hurt, but your father also carried a lot of love with him, and I know he loved each of you very very dearly.". Nel suo ricordo il Boss rievoca i tempi in cui affrontavano i lunghi viaggi del tour in cui Clemons appariva quasi proteggerlo con la sua immensa figura e poi di quando (con una punta di disappunto) suo figlio Sam ha cominciato piano piano a prenderlo come modello assumendone il modo di vestire e addirittura preferire di recarsi ai concerti assieme a Clemons invece che con suo padre. Ma soprattutto è commovente quando afferma "Clarence doesn't leave the E Street Band when he dies. He leaves when we die.", "Clarence non ha lasciato la band quando è morto. La lascerà quando tutti noi moriremo": è così anche per noi. Ora ascoltatevi il suo assolo e piangete per lui.



Bon Iver - Bon Iver

Ho sempre un pò diffidato dei cantautori barbuti, un pò tristi e con chitarra acustica e proprio per questo Bon Iver non l'ho mai preso molto in considerazione. Confesso che è anche merito di Peter Gabriel che riprese la sua Flume nel suo ultimo album di cover "Scratch my back" e del recente viaggio a Londra con relativa visita a HMV ed acquisto del suo sorprendente debutto del 2008 "For Emma, Forever ago" in rigorosa offerta speciale, che mi sono accostato con interesse a Justin Vernon (il suo vero nome, l'altro è la storpiatura inglese del francese Bon Hiver, buon inverno...). Ora che è uscito il suo nuovissimo album ne sono rimasto ipnotizzato. Un disco indubbiamente lento, per certi versi anche un pò cupo: devi concentrarti molto per intercettarne, con notevole fatica, qualche parola di testo. Difficile anche scorgere dei riferimenti: un misto del country-rock acustico e solitario anni '70, del soft-rock anni '80 e della psichedelia anni '90. Un disco assolutamente analogico, con molta attenzione rivolta al tessuto musicale e con profondo lavoro sulla pedal-steel, tastiere, sax, corde, ecc. ecc. Dalle prime note di Perth con una una melodia semplice e sinuosa che sfocia poi in una esplosione musicale stile Crazy Horse, all'ultimo brano Beth/Rest in cui ci sembra di rivivere i tempi di Stevie Winwood e del suo Higher Ground, ci sono tutta una serie di arrangiamenti che vanno da tastiere classicheggianti alla Satie a fiati stile Dave Letterman show.
Appena in tempo per la classifica dei migliori del primo semestre, Justin Vernon ha indubbiamente partorito un disco memorabile.
Voto: ☆☆☆1/2 (intenso)

martedì 28 giugno 2011

John Mayall in concerto, Brescia 26 giugno 2011


77 anni e pare un ragazzino. Una voce ancora squillante (è incredibile: è sempre la stessa voce che si può ascoltare nei primi album, senza un cedimento o un'esitazione) ed un'armonica impeccabile come ai vecchi tempi di Turning Point. Il padre, o meglio dire, il nonno del rockblues europeo (grazie a lui hanno iniziato Eric Clapton, Peter Green, Jack Bruce o Mick Taylor), si è presentato sul palco senza i mitici Bluesbreakers (da cui si è separato da 2-3 anni) ma con una band di tutto rispetto: Rocky Athas alla chitarra (un texano che suona con i piedi ben piantati nel profondo sud, con uno stile decisamente più southern rock rispetto a Buddy Whittington del Bluesbreakers), Greg Rzab al basso e Jay Devenport alla batteria. La band ha costruito un supporto sonoro di grande impatto, in cui Mayall appare stare alla meraviglia e grazie alla quale ha potuto ancora deliziarci con alcuni brani tratti dall'ultimo album del 2009 ma soprattutto con i suoi vecchi cavalli di battaglia. Da ricordare: l'apertura con Another Man, brano del 1966, la bellissima e classica Chicago Line, e poi ancora Movin out Movin on, Nothin' to do with love, Have you heard about my baby, Playing with a losing hand, Tough times ahead, la lunghissima e trascinante Room to move e, per finire, Hideaway.
"The king of blues" come viene presentato all'inizio del concerto, è ancora in forma e mi sembra tutt'altro che desideroso di ritirarsi da rock star come altri artisti nostrani. Gran bella performance: lunga vita!

sabato 25 giugno 2011

THE LEISURE SOCIETY (2011) Into The Murky Water

Che sia in atto un revival del folk inglese, come era avvenuto nei seventies dei (tra gli altri) Fairport Convention/Pentangle/Steeleye Span, è indubbio. Non solo per la quantità dei lavori pubblicati dedicati al genere, ma per la qualità media dei medesimi e per l’attenzione che bands di spessore americane, vedi Fleet Foxes e Grizzly Bear per esempio, dedicano alla musica inglese di derivazione popolare.

Tuttavia mentre il folk anglo-scoto-irlandese dei ’70 riscopriva le ricche patrie radici contaminandole con la musica popolare americana, il country per i bianchi ed il blues per i neri, attualmente la contaminazione è bilaterale tra le due sponde dell’oceano, ed il collante è l’attuale musica pop-olare.

Così risultano interessanti ma più “datati” gruppi folk-rock (come l’ottimo ultimo Trembling Bells) che guardano al power flower/acid rock californiano di fine sixties, che non gruppi come i The Leisure Society che licenziano un folk-pop bucolico ma raffinato, arioso e vivace, vario ma non disomogeneo. I riferimenti si possono chiamare Mumford & Sons e Fleet Foxes, ma anche Sufjan Stevens ed Andrew Bird, Midlake e Divine Comedy, in un trionfo acustico elegantissimo di chitarre pizzicate, violini, violoncelli, flauti e cori che fa pensare ad un chamber pop impregnato di campagna inglese, di cinema anni ’60, di quartetti d’archi, di dixieland e di minuetti, e soprattutto del sole e della spensieratezza di Brighton, dove il collettivo guidato dal chitarrista londinese Nick Hemming è di stanza. Veramente difficile estrapolare alcuni brani, preferendoli ad altri, essendo tutti sopra la media. Come per i Fleet Foxes, una seconda prova di grande classe e maturità.

Preferite: Into The Murky Water, Dust On The Dancefloor, Better Written Off

Voto Microby: 9/10

mercoledì 22 giugno 2011

CHAD VANGAALEN (2011) Diaper Island

Piace molto più ai critici americani che a quelli europei il canadese Chad Vangaalen: prolifico (nove albums in sette anni) ma schivo, invece di rimpolpare la schiera degli epigoni di Nick Drake si approccia al songwriting come una PJ Harvey dei primi lavori.
Si astengano pertanto gli amanti di suoni puliti ed arrangiamenti raffinati: in Diaper Island l’attitudine è proto-punk, e l’esecuzione ha una forte predisposizione al garage-sound. Essenziale, quasi grezzo (si badi bene, non rozzo), si avvale di una chitarra dagli accordi semplici e timbriche metalliche, con una voce spesso in secondo piano, quasi sgraziata, e con abbondante utilizzo di riverberi/effetti eco. Così che più che Elliott Smith il nostro ricorda a tratti il Robyn Hitchcock più psichedelico (Peace On The Rise), il John Lennon più acido (Can You Believe It?), lo Stephen Malkmus più ruvido, i Pixies più stralunati ed addirittura i Cure meno levigati (Replace Me). Bizzarro e nevrotico, non di facile ascolto, ma senza dubbio poco classificabile, se non proprio originale.

Preferite: Burning Photographs, Replace Me, Blonde Hash

Voto Microby: 6.8/10

venerdì 17 giugno 2011

CASS McCOMBS (2011) Wit’s End

Esauritosi il New Acoustic Movement, che ha riportato sul mercato mondiale le sonorità alla Simon & Garfunkel e l’attenzione ai songwriters armati solo di chitarra acustica e voce, l’ultima sfumatura in ordine temporale sembra essere la sostituzione dei delicati arpeggi di chitarra (non abbandonati, solo messi su un piano comprimario) con le note altrettanto dolenti e malinconiche del pianoforte (spesso alternato al più rarefatto wurlitzer). Così, come il recente morbido Jay-Jay Johanson che ha molti punti di contatto con il disco di cui stiamo trattando, lo statunitense Cass McCombs infila una serie di ballate soffuse, accompagnate da un piano liquido e da una voce da ninna nanna, che nelle tonalità basse insegue (a larga distanza) la lezione del Leonard Cohen di Ten New Songs (The Lonely Doll, A Knock Upon The Door), e nel falsetto ricorda The Band (County Line). Alla lunga però il lavoro, pur raffinato ed elegante, risulta ripetitivo, più utile se utilizzato al mattino come sveglia…per continuare a dormire (però sereni…).
Sullo stesso genere rivolgersi piuttosto, tra gli altri, a Ed Harcourt, Maximilian Hecker, Aqualung, Josh Ritter, Piers Faccini, Martin Grech, Scott Matthew, Thomas Dybdahl, e mi fermo…

Preferite: County Line, The Lonely Doll

Voto Microby: 6.6/10

sabato 11 giugno 2011

Warren Haynes - Man in motion

Sempre per rimanere in tema di artisti che hanno il R&B ed il soul nel sangue, Warren Haynes non è di sicuro Wilson Pickett ma di certo pochi come lui amano mescolare il sound di Memphis con il blues "nero" di B.B King. Del resto il personaggio ha profonde radici musicali: è stato membro dei Dead, degli Allmann Brothers e, attualmente, dei Gov't Mule; ha poi collaborato con Dave Matthews, Blues Traveler, John Lee Hooker, Taj Mahal e molti altri.
In questo lavoro, realizzato guarda caso per la Stax records (etichetta culto del R&B), Haynes ha buttato la sua passione per tutto ciò che ama di più: la sua impronta vocale e chitarristica autenticamente blues si trasfigura in ispirazioni soul, a tratti addirittura funk, quasi che il suo estro di dovesse in qualche modo liberare dai cliché delle band di cui ha fatto o fa parte e di cui comunque condivide in gran parte le atmosfere rock-blues. Un disegno del tutto opposto, per esempio, a quello di Gregg Allman, che con il suo ultimo lavoro ha guardato nel passato più ortodosso, con alterni risultati.
Sicuramente non un album di blues "sporco" o di "energico" southern rock, ma un lavoro emozionale e sincero, un lavoro "in movimento", "in motion" appunto.
Migliori brani: Sick of my shadow (con l'ottima performance del sax di Ron Holloway), Hattiesburg Hustle (con un assolo di chitarra che ti cuoce a fuoco lento), A friend to you, Take a bullet.

Voto: ☆☆☆☆ (elegante)

Booker T Jones - The road from Memphis

Chi tra noi non ha nella sua playlist la mitica "Green Onion"? Icona del Memphis sound, punto fermo dalla Stax records (con i suoi MG's faceva da house band ad artisti del calibro di Otis Redding, Wilson Pickett o Sam & Dave) ed autentico maestro dell'organo Hammond, il 66enne Booker T è tornato con un nuovo lavoro solista e per l'occasione, come per il precedente del 2008 (Potato Hole) in cui si era fatto affiancare dai nostri beneamati Drive By Truckers e perfino da Neil Young, anche stavolta il supporto è di assoluto spessore. Innanzitutto i Roots, già felicemente coinvolti nel disco di John Legend, sempre presenti a macinare R&B sullo sfondo ma poi anche Jim James (My Morning Jacket), Matt Berninger (The National), Sharon Jones e perfino Lou Reed mettono il loro bel contributo a questa nuova uscita.
Un disco quasi esclusivamente strumentale, così come nei gusti e nelle caratteristiche dell'autore da sempre maestro assoluto dell'organo, ma che in realtà ho apprezzato moltissimo nei brani cantati e soprattutto nell'unico con la sua voce: brano che, guarda caso, si chiama "Down in Memphis", quasi che volesse sottolineare con assoluta chiarezza chi è il re del Memphis sound. Altri brani da segnalare: Representing Memphis (con il duo Sharon Jones-Matt Beringer) ed il funk di Progress (alla voce Jim James).
Voto: ☆☆☆1/2 (consistente)

THOMAS DYBDAHL (2011) Songs

Il danese Thomas Dybdahl è uno dei migliori interpreti della ormai fittissima schiera di songwriters dal tono intimistico, arrangiamenti delicati, voce sussurrata, testi malinconici che discendono direttamente da Nick Drake ed hanno ritrovato audience dopo il recente successo (di critica ma anche di mercato) di Damien Rice ed Elliott Smith.Tuttavia al quinto disco (tutti belli ma…tutti uguali) è lecito chiedere al nostro (ed ai suoi colleghi, vedi i recenti William Fitzsimmons, Cass McCombs, Daniel Martin Moore, John Vanderslice, Maximilian Hecker solo per citare alcuni maschi) un’evoluzione dal solito linguaggio, altrimenti si torna al vecchio adagio “comprato uno, comprati tutti”.Detto questo, per chi non conoscesse Thomas Dybdahl anche la sua ultima fatica è meritevole, è di spessore compositivo ed esecutivo, raffinata ed elegante ma non melliflua. Esattamente come i suoi albums precedenti…

Preferite: All Is Not Lost, From Grace, Don’t Lose Yourself

Voto Microby: 7.3/10

martedì 7 giugno 2011

THE UNTHANKS (2011) Last

Parlare di folk a proposito della produzione musicale delle sorelle Rachel e Becky Unthank è decisamente riduttivo, dal momento che se lo spunto iniziale è sì rappresentato dal ricco substrato popolare/contemporaneo del Northumberland, la sua interpretazione è sempre atemporale, in un mood malinconico sospeso tra rigorose e delicate partiture di pianoforte, archi ed ottoni. Quasi non si avverte una sezione ritmica, sempre lieve, chè la ricca musicalità si sostiene da sola, a seguire le trame canore a 1-2 voci pulite, eleganti e melanconiche.

Così non aspettatevi jigs o reels, né violini in libertà, ma piuttosto una colonna sonora contemporanea suonata da un sestetto d’archi e fiati che muove dal folk di Canny Hobbie Elliott per arrivare all’avanguardia di Close The Coalhouse Door passando per la rilettura colta di Starless dei King Crimson.

Al quarto album, le sorelle Unthank sono ormai un punto di riferimento imprescindibile per il folk anglo-scoto-irlandese, ma azzarderei anche per la musica contemporanea europea che voglia guardare al passato per essere…attuale.

Preferite: Gan To The Kye, The Gallowgate Lad, Queen of Hearts

Voto Microby: 8.6/10

domenica 5 giugno 2011

JESSE SYKES & THE SWEET HEREAFTER (2011) Marble Son

Lodevole, coraggioso e nel contempo coerente il percorso di trasformazione, album dopo album (siamo giunti al quarto: tutti raccomandabili), di Jesse Sykes e del fido chitarrista Phil Wandscher, ex Whiskeytown: da un country-rock ispirato ma poco distante dalle varie Lucinda Williams o Patty Griffin (Reckless Burn, 2002), a riferimento per l’alt.country (Oh, My Girl, 2004), a campioni dell’americana (Like, Love, Lust And…, 2007), con l’attuale Marble Son approdano alla psichedelia West Coast dei sixties, e con ottimi risultati. Più spazio quindi alla chitarra elettrica di Wandscher, brani più dilatati, solo tracce di alt.country (inteso più alla Walkabouts/Chris Eckman che alla Jayhawks/Wilco), e via ad inseguire gli alfieri dell’acid rock della Bay Area, su tutti Jefferson Airplane/Big Brother & The Holding Company come stelle di riferimento (emblematiche in tal senso già l’iniziale Hushed By Devotion o una Ceilings High il cui attacco ricorda Piece of My Heart). Manca certo la rabbia di Grace Slick/Janis Joplin, chè la voce di Jesse Sykes ricorda più una Marianne Faithfull senza aplomb inglese o, anche nella miscela timbrica voce/musica, la grande Toni Childs (Be It Me Or Be It Done, Wooden Roses), e pertanto il clima generale è più da quiete prima della tempesta che da tempesta vera e propria. Non mancano ballate folk trasognate (Marble Son, Come To Mary), in un lavoro che sarà molto apprezzato anche dai nostalgici del Paisley Underground meno acido (più Dream Syndicate insomma che Green On Red/Rain Parade).

Preferite: Hushed By Devotion, Pleasuring The Divine, Your Own Kind

Voto Microby: 7.8/10

sabato 4 giugno 2011

Eric Clapton + Steve Winwood in concerto, Royal Albert Hall, 29 maggio 2011


Biglietti Ryan Air a 50 euro (comprati 7 mesi fa illudendoci magari di vederci anche una finale di Champions League targata rossonera...) ed un weekend passato tra Guinness, HMV, e lunghe camminate in città. Ma soprattutto il pellegrinaggio alla Royal Albert Hall, il tempio della musica, sede dei concerti più leggendari d'Inghilterra: una volta nella vita bisognava pure andarci (beh, perchè una volta sola...magari si potrebbe ripetere). Il teatro ha 8000 posti, tutti esauriti da tempo per questo concerto, e gode fama di un'acustica perfetta: quale migliore occasione di un concerto del grande "slowhand" e del suo vecchio amico e sodale Steve Winwood.
La band è di grande supporto: il magnifico tastierista Chris Stainton, il preciso Willie Weeks al basso ed il monumento Steve Gadd alla batteria farebbero la fortuna di chiunque. La scaletta comprende pezzi d'antiquariato di Spencer Davis Group, Traffic, Derek & the Dominoes, Cream e ovviamente Blind Faith, unico gruppo condiviso da Clapton e Winwood in quasi 50 anni di carriera. Si parte con Had to Cry Today e poi via via Low Down (cover di JJ Cale), After Midnight, Presence of the Lord e Can't find my way home (da svenire..) con Glad che si fonde con Well all right e apre poi alla magnifica Mr Fantasy con pubblico in tripudio. Poi la passione di Clapton per il blues con Crossroads, Hoochie Coochie Man, Key to the highway, That's no way to get along, tirati con la sua celeberrima Fender azzurro cielo e l'acustica e commovente Still got the blues (in omaggio a Gary Moore). Grande entusiasmo su un'anomala Layla e Georgia on my mind, ma soprattutto fantastico è l'omaggio a Jimi Hendrix con una Voodoo Chile che fa resuscitare i morti (ed anche lui, ne sono sicuro, avrà sorriso lassù nel Paradiso del rock) e Cocaine, tanto per celebrare la serata con il suo classico più classico. Winwood si dimostra sempre il gran mogol dell'Hammond e con la sua base armonica alza di una spanna il livello musicale e tocca il cuore di chi, come il sottoscritto, ha sempre amato alla follia lui e tutte le sue esperienze, dai Traffic allo Spencer Davis Group. Forse solo la scelta di Gimme Some Lovin' un pò messa lì senza ordine ed avulsa dai pezzi seguenti ed una While you see a chance, grande successo di Winwood, non proprio coinvolgente ed accompagnata non in modo impeccabile da Eric, hanno rappresentato l'unica imperfezione del concerto.
Un concerto comunque impeccabile e di assoluto valore artistico e musicale, con pochi fronzoli sul palco, ma con grande carica emotiva per chi assisteva, perso nel tempo e con il cuore in paradiso...

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