sabato 24 novembre 2012

The Beauty Room : II (2102)

Quando Fabius me li fece ascoltare qualche anno fa, fu una specie di rivelazione mistica. Da allora, a cadenza periodica andavo a cercare un seguito a quel magnifico album ma niente da fare: pensavo ormai non esistessero più e fossero scomparsi un qualche angolo di paradiso musicale, cui sicuramente sono destinati. Ecco invece il nuovo lavoro di questo insolito ensemble: un produttore e DJ tecno-elettronico (Kirk Degiorgio) dall'enorme spirito creativo ed un vocalist (Jinadu) geniale tessitore di armonie e melodie. Chi li ascolta si sente proiettato in un altro mondo, un mondo in cui il West Coast sound di CSNY si fonde con i controtempi degli Steely Dan, e dove Duncan Sheik duetta con Jamiroquai. Sto esagerando? Probabilmente. Ma è impossibile non emozionarsi di fronte a qualcosa di unico ed inafferrabile, in grado di stupirti e commuoverti.  Da mettere in playlist: "But for now", "Shadows falling", "One man show". Voto ★★★1/2  (le cinque stelle vanno al lavoro del 2006, omonimo, assolutamente da avere).

venerdì 23 novembre 2012

MINIRECENSIONI: Donald Fagen, John Hiatt, Jason Mraz, Bonnie Raitt, Lucero

DONALD FAGEN (2012) Sunken Condos (Ritorno in grande spolvero per l’artefice, con Walter Brecker, di una formula musicale inimitabile ed immediatamente riconoscibile, un blend perfetto di pop, jazz, soul, rock e fusion che ha prodotto in passato numerosi capolavori col marchio Steely Dan ed almeno uno con l’esordio solistico The Nightfly del 1982. Ebbene Sunken Condos rappresenta il lavoro migliore di Fagen dal 1982, reunion della band-madre compresa, per scrittura, esecuzione, produzione e la solita cura meticolosa dei dettagli) 8/10

JOHN HIATT (2012) Mystic Pinball (In 38 anni e 21 albums in studio le coordinate musicali dell’americano non sono mai granchè cambiate –50% rock, 20% country, 20% blues, 10% soul, percentuale più-percentuale meno a seconda del periodo storico—così come la qualità sempre medio-alta del prodotto finale. Non fa eccezione l’ultimo lavoro, brillante sia nelle appassionate ballate tra The Band e Springsteen sia nei rock grintosi tra Little Feat e Rolling Stones) 7.7/10

JASON MRAZ (2012) Love Is A Four Letter Word (Mr.A-Z si conferma un big seller negli USA, nonostante sia poco conosciuto da noi. Ed è un peccato, perché il suo pop screziato di blue-eyed soul, di reggae, di folk-rock è intelligente, orecchiabile e raffinato, moderno ma evergreen, come di chi prima di incidere ha mandato a memoria la lezione di Billy Joel, Paul Simon, Loggins & Messina, Bruce Hornsby, Hall & Oates) 7.7/10

BONNIE RAITT (2012) Slipstream (La 62enne slide-guitarist americana presenta uno dei più ispirati albums della sua 40ennale carriera, anche se la ricetta non cambia: brani country-rock-blues, al solito per lo più non autografi,  prevalentemente elettrici, ottimamente suonati dalla sua live band con comparsate di Bill Frisell all’elettrica e Joe Henry alla produzione) 7.8/10

LUCERO (2012) Women And Work (Inconsueta ma riuscita la trasformazione che ha portato la band di Memphis dall’iniziale energia punk dedicata ad un alt.country di qualità, all’attuale ibridazione col soul/gospel di casa. E così ora abbiamo un country come lo intendevano Blasters e Beat Farmers, shakerato con un blue collar rock springsteeniano che suona come i Gaslight Anthem con i fiati Stax, o Southside Johnny in vacanza al sud. Energico, caldo, maschio) 7.9/10

martedì 20 novembre 2012

NEIL YOUNG & CRAZY HORSE (2012) Psychedelic Pill

Dopo il trascurabile Americana, puro divertissement da sala prove di pochi mesi orsono, il canadese transgenerazionale propone la fatica vera, peraltro in doppio CD, sempre in compagnia dei Crazy Horse. Ed è un ritorno alla grande, nella migliore tradizione della simbiosi di Young con Sampedro, Talbot e Molina: un suono sporco, torbido, elettrico, lo-fi, come non ascoltavamo (se non a sprazzi, ma col contagocce nell’ultimo decennio, vedi l’apprezzabile Chrome Dreams II) da una ventina di anni, ai tempi di Freedom/Ragged Glory/Weld.
“Si parte con un arpeggio alla chitarra acustica e poi una sventagliata di elettricità per 27 minuti” (cito Steven Noble), quelli di Driftin’ Back, paradigma di un album che rappresenta anche “a way of separating the men from the boys” (cito Stephen Thomas Erlewine su AMG): quale l’adolescente che oggi ascolterebbe in poltrona o cuffia le derapate lisergiche di un 67enne per i 27’ di Driftin’ Back o i 18’ di Ramada Inn o Walk Like A Giant? O quale radio/MTV/YT proporrebbe jams così lunghe? 88 minuti totali (il primo album in studio doppio da sempre per il canadese) per soli 9 brani, che non risultano mai compiaciuti rétro o piacevolmente passatisti, ma piuttosto senza tempo (ma con una dimora ben collocata, l’America).
Dai tempi di Hendrix pochi hanno saputo, come Young, far cantare una chitarra elettrica in modo drammatico ma non mélo, struggente ma non piagnucoloso, dolente ma non rassegnato, ferito ma non moribondo.  In Psychedelic Pill non troviamo la rabbia giovane e pugnace di Southern Man, Cortez The Killer o Like A Hurricane, ma piuttosto una consapevolezza matura, tesa ma mai arresa, ancora sognante (psichedelica) piuttosto che disperata.
Parliamo chiaro (alla generazione dei padri): nei ’70 Psychedelic Pill sarebbe stato un lavoro imperdibile, ora non lo è solo perché figlio dei capolavori di allora. Ora non possiamo più permetterci un’ora e mezza in poltrona per un disco: concediamocelo in auto, con il volume a palla!

Preferite: She’s Always Dancing, Ramada Inn, Walk Like A Giant

Voto Microby: 8.2/10

sabato 10 novembre 2012

MUMFORD & SONS (2012) Babel

Alfieri nella vecchia Europa del ritorno in auge –qualitativo e commerciale—del folk-rock inglese dei seventies (vedi Fairport Convention e Magna Carta) sposato alle armonizzazioni vocali del country-rock californiano (vedi CSN&Y) ed al songwriting di qualità di entrambe le sponde dell’oceano (vedi Simon & Garfunkel e Cat Stevens), ruolo nel nuovo continente assunto con gran classe dai Fleet Foxes, i londinesi a differenza di questi ultimi rinunciano, si spera solo momentaneamente, ad un’ulteriore evoluzione stilistica, limitandosi a proporre in tal senso una copia dell’eccellente esordio: quindi belle armonie corali, plettri con funzione ritmica, epica a stento contenuta, e la voce appassionata di Marcus Mumford.
La mancanza di coraggio è la sola pecca insieme all’utilizzo del banjo in chiave ritmica, brillante ma alla fine sempre uguale a se stesso, ed alla tendenza all’arcadefireizzazione del suono –ma d’altra parte il produttore scelto è Markus Dravs, già artefice dei suoni di The Suburbs del gruppo canadese.
La tendenza ai suoni pieni che sfociano nel melodramma fa prediligere la fruizione di pochi brani per volta, piuttosto che d’insieme, ma in entrambi i casi l’album tende a crescere con gli ascolti.
Qualitativamente Mumford e sodali sono ancora fermi ai blocchi di partenza, ma non dimentichiamo che Sigh No More era stato disco dell’anno in molte playlists del 2009, la mia compresa, quindi occorre forse permettere loro di farci conoscere tutto il materiale partorito in quello stato di grazia.
Al momento abbiamo tra le mani una sorta di copia dell’esordio, ma beninteso si tratta di una gran bella copia. Al solito, il terzo album ci dirà se siamo di fronte a dei fuoriclasse o solo ad un’ottima band.

Preferite: I Will Wait, Babel, Lover of The Light

Voto Microby: 8.2/10

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