domenica 27 ottobre 2013

Lou Reed, RIP



Il mio, il nostro cuore sanguina. Lou Reed uno dei più importanti ed influenti rocker della storia è morto oggi, a 71 anni, probabilmente per gli esiti di un trapianto di fegato avvenuto la scorsa settimana.  Con i suoi Velvet Underground ha rappresentato un'epoca ispirando la pop-art grazie all'endorsement di Andy Warhol e della sua factory. Il disco con la banana ha rappresentato una pietra miliare della musica rock della seconda metà degli anni '60, così come Sgt Pepper o Blonde on Blonde. A Brescia abbiamo avuto la fortuna di vederlo ancora un'ultima volta in concerto, un paio di anni fa: era stanco, sembrava malato, ma era ancora lui, graffiante ed eccessivo, selvaggio ma luminoso.

venerdì 25 ottobre 2013

MINIRECENSIONI: Elvis Costello & The Roots, The James Hunter Six, Tired Pony, Piers Faccini, Placebo

  • ELVIS COSTELLO & THE ROOTS (2013) Wise Up Ghost and Other Songs 
  • Iniziata quasi per gioco, la collaborazione tra ?uestlove, drummer e leader degli hip-hoppers (di Philadelphia) The Roots, ed il geniale artista inglese ha partorito un lavoro moderno ed ispirato che ben sposa la sensibilità di entrambe le parti. Così il pop costelliano incontra il soul di Marvin Gaye, sbianca l’hip-hop con screziature reggae/dub dei Roots ma resta ritmico ed urbano grazie a tastiere elettriche saltellanti, basso pulsante e contrappunti di fiati misurati ma colorati. Non il capolavoro prodotto dalla collaborazione con Burt Bacharach, ma certamente al livello, pur su versanti differenti, di quella con Paul McCartney. 7.6/10

  • THE JAMES HUNTER SIX (2013) Minute By Minute 
  • Da 20 anni questo inglese bianco dell’Essex gira il mondo col suo sestetto incidendo sporadicamente uno dei migliori soul/R&B del pianeta, incurante che possa essere tacciato di retro-soul, dal momento che il suo amore per Jackie Wilson, Sam Cooke, Percy Sledge è sfacciato, i suoi brani originali profumano di fine anni ’50-inizio ’60, ed ogni nota è calda ma impeccabilmente scritta ed eseguita su partiture che non ammettono libertà, che si tratti dei fiati o della chitarra acustica o semiamplificata. Esattamente come allora. Ma è l’unico limite. Un Charles Bradley bianco. 7.7/10
  • TIRED PONY (2013) The Ghost of The Mountain 
  • Supergruppo transoceanico, nato dall’amore per la musica americana di Gary Lightbody, nordirlandese operativo in Scozia dove è cantante/leader del gruppo pop di successo Snow Patrol, nei Tired Pony sodale di Peter Buck, chitarrista dei R.E.M., di Richard Colburn, batterista dei Belle & Sebastian, e di vari ospiti. L’ibrido americana/pop riesce, seppur ad un livello inferiore rispetto all’esordio del 2010, in un’atmosfera elettroacustica meditativa e crepuscolare, dalle parti di un Bright Eyes in serata pop. 7.5/10
  • PIERS FACCINI (2013) Between Dogs & Wolves 
  • Forse consapevole delle proprie radici geneticamente multiple, PF opera una deviazione dal proprio songwriting meditativo anglosassone (scuola-Damien Rice) verso il cantautorato francese di impronta folk dei primi ’70 (Pierre Bensusan, Dan Ar Bras) e quello d’autore italiano intimista del medesimo periodo (Alloisio, Claudio Lolli). Purtroppo con scarsa convinzione ed arrangiamenti (in cui di solito eccelle) timidi e parchi. Pur apprezzando la bontà delle canzoni, resta un’occasione persa a metà. 7.2/10
  • PLACEBO (2013) Loud Like Love 
  • Da vent’anni sulle scene, al 7° album di cui i primi 3 amati dalla critica (che esaltava la splendida voce di Brian Molko, la distanza dal brit-pop nonostante le chitarre affilate, le sfumature glam e la potenza live nonostante si trattasse di un trio) ed i successivi snobbati dalla stessa in concomitanza col successo commerciale, il gruppo londinese non è riuscito ad ottenere la visibilità planetaria degli accostabili Muse ma ha sempre mantenuto un buon (mai eccellente) livello qualitativo. La cura del disturbo bipolare di Molko se da una parte non ha giovato all’ispirazione musicale e lirica della band, l’ha tuttavia preservata dallo scioglimento. Quest’ultimo disco è carino, meglio dei due precedenti, ma non aggiunge nulla a quanto noto né alla scena musicale odierna. 7.2/10

mercoledì 9 ottobre 2013

BIG: Jack Johnson, John Mayer, The Rides, Travis, Editors

  • JACK JOHNSON (2013) From Here To Now To You 
  • La vicenda musicale di JJ mi ricorda da sempre quella di Jimmy Buffett (dai ’70 ad oggi): come quest’ultimo da musicista, scrittore, ristoratore e discografico di successo promuoveva lo stile di vita rilassato e felice della Florida, JJ da musicista, surfista professionista, ecologista, discografico e cineamatore riflette nella musica l’easy life delle natìe Hawaii. Entrambi lo fanno con grande informalità, mischiando JB il country con i Caraibi e ridefinendo JJ il sound del Surf (non più il pop corale dei Beach Boys ma un cantautorato acustico saltellante, allegro, sereno, che dà sempre “good vibrations”). Non cambia in quest’ultima prova, e gli si potrebbe rimproverare di rifare sempre lo stesso (gran bel) disco. Ma come ti migliora l’umore stampandoti un sorriso quando ti svegli al mattino con la sua voce carezzevole e la sua chitarrina swingante! 7.8/10

  • JOHN MAYER (2013) Paradise Valley 
  • L’americano non abbandona le sonorità prevalentemente acustiche e la passione per le radici country-rock della provincia che lo avevano riproposto in stato di grazia con il precedente Born and Raised dello scorso anno. L’attuale potrebbe chiamarsi Volume 2, perché pari sono i riferimenti stilistici, l’ispirazione, gli arrangiamenti. E la splendida chitarra bluesy con la voce da soul bianco amplificano i consueti paragoni, anch’essi alla pari, con il Clapton più pop-soul, solare, leggero, di classe superiore. 7.7/10
  • THE RIDES (2013) Can’t Get Enough 
  • The Rides è il supertrio costituito da Stephen Stills, chitarrista ed anima blues di CSN&Y, da Kenny Wayne Shepherd, uno dei chitarristi elettrici più talentuosi dell’ultima generazione di bluesman bianchi, e da Barry Goldberg, tastierista degli Electric Flag e session man ubiquitario col suo piano ed hammond sui dischi e palchi degli ultimi 40 anni. A partire dall’album cui rimanda chiaramente Can’t Get Enough, quel Super Session che nel 1968 aveva sbalordito con un rock-blues libero da schemi, meravigliosamente suonato dal supertrio di allora Stephen Stills, Al Kooper e Mike Bloomfield. Oggi a tastiere e cori seventies si accostano riffs hard-rock, spunti rock’n’roll e perfino punk, ma soprattutto fraseggi blues tra chitarra/voce più limpide e tecniche di KWS e quelle più sporche ed umorali di SS, per un lavoro che in summa risulta coeso, spontaneo, di buona ispirazione e scrittura, ed of course ottimamente suonato. 7.6/10
  • TRAVIS (2013) Where You Stand 
  • Tre notevoli dischi all’esordio (il mio preferito è The Invisible Band del 2001), il successo e poi l’ansia da prestazione, che ha prodotto i tre successivi, insipidi lavori. Dopo 5 anni il quartetto scozzese capitanato da Fran Healey torna per dirci che è ancora capace di melodie brillanti, di arrangiamenti raffinati e di una scrittura che, pur non essendo più quella dei giorni migliori, è stata di riferimento a più di un gruppo pop di successo. 7.4/10
  • EDITORS (2013) The Weight Of Your Love 
  • Sostituito il chitarrista Chris Urbanowicz (dimissionario per divergenze artistiche), Tom Smith e sodali non cambiano la matrice dark wave che ha dato loro notorietà (come risposta inglese agli americani Interpol) ma, in assenza dell’ispirazione dei primi due albums e dopo la scialba virata elettronica del terzo (tipo Depeche Mode annacquati), cercano di arricchirla con aperture più romantiche (nella scrittura, nell’ uso di archi e strumenti acustici) e mainstream (U2-style), pur rimanendo saldamente ancorati alle sonorità eighties. Ci riescono in parte. 7.2/10

mercoledì 2 ottobre 2013

DONNE: Nadine Shah, Goldfrapp, Julia Holter, Chelsea Wolfe, Julianna Barwick

Un breve itinerario attraverso gli albums di alcune delle donne più coccolate dalla critica musicale estiva, nonostante artefici di musica non propriamente solare e vacanziera. Tra luci ed ombre.

  • NADINE SHAH (2013) Love Your Dum And Mad 
  • Esordio dicotomico per l’inglese di origini pakistano/norvegesi: ad una prima parte indecisa tra il seguire la ieraticità di Patti Smith, la teatralità di Marianne Faithfull, lo spleen di Carla Bozulich o la commercialità di Florence & The Machine, segue una seconda in cui la voce sempre profonda, declamatoria e con un vibrato da studi classici si accompagna esclusivamente al pianoforte, come ammirasse Agnes Obel o Ane Brun. In entrambi i casi, con buoni risultati e grandi ed ancora poco espresse potenzialità. 7.7/10

  • GOLDFRAPP (2013) Tales of Us 
  • Al sesto album il duo inglese Alison Goldfrapp + Will Gregory spariglia ancora le carte, dopo aver giocato quelle di un trip-hop elegantissimo (l’insuperato esordio del 2000  Felt Mountain), ma anche di un’electro-clash per masse e di una dance glam-trash dozzinale, proponendo ora il loro disco più intimistico, acustico, fratello timido e malinconico del riuscito Seventh Tree del 2007. Fin troppo in punta di piedi, verrebbe da aggiungere, mentre si apprezzano morbidi arpeggi di chitarra, un pianismo minimale, degli archi raffinati e la solita voce sensuale ed eterea di Alison. 7.4/10
  • JULIA HOLTER (2013) Loud City Song 
  • La ventinovenne polistrumentista e cantante losangelena sorprende con una difficile, eterea e riuscita fusione di avantgarde e melodie pop, elettronica lieve ed inserti jazzati, intellettualismo algido alla Laurie Anderson e timbro cristallino alla Joni Mitchell, fiati ed archi alla These New Puritans e chiari richiami dark in stile 4AD. 7.4/10
 
  • CHELSEA WOLFE (2013) Pain Is Beauty 
  • La californiana è la migliore erede attuale, con l’austriaca Anja Plaschg (alias Soap & Skin), della musica dark/decadente/neogotica al femminile partita con Nico (sarà una coincidenza che il suo primo album solista del 1967 sia titolato Chelsea Girl?) ed evoluta attraverso Siouxsie & The Banshees, Lydia Lunch, Cocteau Twins, Dead Can Dance, Carla Bozulich: insieme noir, ieratica, minacciosa, desolata, ossianica, depressogena. Per gli amanti del genere, una garanzia. Ma si richiede maggiore originalità rispetto ai modelli. 7.2/10
  • JULIANNA BARWICK (2013) Nepenthe 
  • Originaria della Louisiana ma con base artistica a Brooklyn, l’americana disegna paesaggi sonori con il solo utilizzo della propria voce angelica, utilizzata in multipli loops sovrapposti. Solo al 3° album arricchiti da delicati accompagnamenti di pianoforte, archi ed elettronica, per un suono che si colloca tra l’avantgarde/ambient e la new age, tra Sigur Ros ed Enya, i Cocteau Twins e Brian Eno. Celestiale o noioso, a seconda dell’ascoltatore e del suo stato d’animo. 7/10

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