lunedì 28 settembre 2015

GARY CLARK JR., LAST DAYS OF APRIL, THE STAVES


GARY CLARK JR. (2015) The Story of Sonny Boy Slim

Jimmie Vaughan ed Eric Clapton avevano detto di lui, incantati dalle sue doti di chitarrista elettrico, che rappresentava il futuro del blues. Per nulla interessato all’idea di diventare l’ennesima icona della chitarra blues, e da sempre affascinato da tutta la cultura musicale black, il texano di colore ha invece percorso la sua strada, fatta di tradizione blues, soul, gospel ma anche di modernità rock, R’n’B e hip-hop. Chi non apprezza l’immobilità delle 12 battute del blues canonico né la staticità ritmica dell’hip-hop, chi non distingue il blues del delta del Mississippi da quello di Chicago, chi ritiene troppo leccato il nu-soul e troppo algido l’alt-R’n’B, chi trova noioso John Lee Hooker, troppo nero Muddy Waters, troppo bianco John Mayall, troppo soul Robert Cray, troppo rock Warren Haynes, troppo pop Eric Clapton, troppo blues Buddy Guy, troppo sporco Jimi Hendrix, troppo pulito Mark Knopfler, troppo mainstream Lenny Kravitz, troppo moderno Prince troverà pane per i suoi denti. The Story of Sonny Boy Slim è un buon disco, a tratti (la prima parte) eccellente, ma non un capolavoro; Gary Clark Jr. ha già fatto di meglio con Blak and Blu (2012) e l’infuocato Live dello scorso anno. Il texano non rappresenta in sé il futuro del blues, ma certamente indica la strada perché il blues del futuro possa vivere di contaminazioni aderendo al melting pot culturale dell’attualità.
Voto Microby: 7.6
Preferite: Grinder, The Healing, Hold On
 

LAST DAYS OF APRIL (2015) Sea Of Clouds


La band svedese, dopo un esordio post-hardcore ed un percorso tra emo ed indie rock, arriva al 9° album a percorrere i territori alt-country/americana già esaltati da Jayhawks e Wilco (peraltro la voce di Karl Larsson richiama a volte quella di Jeff Tweedy ed altre quella di Marc Olson), con qualche puntata di scuola Byrds. Le chitarre languide e calde la fanno da padrona, in particolare la pedal steel guitar di Lars Taberman, ma anche gli squisiti quadretti pop, dall’umore nostalgico, si fanno ricordare. Musica derivativa americana nel continente sbagliato, ma nelle mani giuste per farsi apprezzare.
Voto Microby: 7.4
Preferite: The Thunder & The Storm, The Artist, Every Boy’s Dream
 
 
THE STAVES (2015) If I Was


Secondo lavoro per le tre sorelle inglesi Emily, Jessica e Camilla Staveley-Taylor, prodotto da Justin Vernon-Bon Iver dopo che l’esordio aveva visto alla consolle un’altra leggenda, Glyn Johns. Tanto investimento giustifica due buoni lavori di folk revival inglese nel solco tracciato dalle più dotate conterranee e coeve The Unthanks e Smoke Fairies, ma anche accenni alla Joni Mitchell del Laurel Canyon come per un’altra grande attuale della terra d’Albione, Laura Marling. Quindi accordi di chitarra acustica, armonie vocali a tre, misurato sostegno ritmico e delicati interventi di archi, fiati e tastiere; contenute le aperture elettriche, segno tuttavia di una possibile evoluzione verso Smoke Fairies e First Aid Kit. Buone, ma non ancora delle fuoriclasse.
Voto Microby: 7.4
Preferite: Blood I Bled, Black & White, Steady

 





lunedì 21 settembre 2015

DESTROYER, JASON ISBELL


DESTROYER (2015) Poison Season

Il primo brano appare un felice incontro tra i primi Tom Waits ed Elliott Murphy, ma presenta punti di contatto con Woodkid e San Fermin. Il secondo ha un attacco alla Springsteen (col sax alla Clemons), ma il suono è d’emblée ipersaturo alla Heroes di David Bowie, con la voce che rammenta Peter Perrett (Only Ones). Il canadese Dan Bejar (mente pensante, tra gli innumerevoli progetti, dei The New Pornographers) deve soffrire di horror vacui, dal momento che tende a riempire ogni spazio vuoto con sovrabbondanza di strumentazione, prevalentemente orchestrale, percussiva e fiatistica (splendidi i fraseggi sax/tromba). Ma lo fa dannatamente bene, con arrangiamenti complessi ad accompagnare storie di vita quotidiana (urbana e notturna) a New York City, più declamate (Leonard Cohen e Lou Reed docent) che cantate. Unico, veniale limite è il timbro vocale caldo, limitato tuttavia in estensione e versatilità. A seconda di chi lo ascolterà, il prodotto finale potrà essere considerato romantico o retorico, coinvolgente o verboso, fantasioso o ridondante. Di certo affascinerà chi ama gli artisti sovracitati. Splendido esempio di chamber pop notturno dall’attitudine jazz, a basso tasso alcolico, da rientro a casa alle prime luci dell’alba, Poison Season lascia a chi scrive l’unico rammarico di aver conosciuto l’attività solistica del musicista di Vancouver solo dopo ben 10 album e 19 anni. Imperdonabile.
Voto Microby: 8.5
Preferite: Times Square, The River, Dream Lover
 
 
JASON ISBELL (2015) Something More Than Free

Otto anni e sette album dopo la dipartita dai Drive-By Truckers, nel chitarrista e singer-songwriter dell’Alabama non resta traccia del southern-soul-rock distintivo della band madre. Il suo da solista è sempre stato un percorso di ricerca all’interno del genere “americana”, bianco ed elettroacustico, più vicino alla strada indicata da Hank Willians, Johnny Cash, Steve Earle ma contaminato dall’alt-country di Uncle Tupelo, Wilco, Jayhawks, fino all’ultimo Warren Haynes con i Railroad Earth. E non ha mai prodotto un disco meno che buono. Non fa eccezione quest’ultimo, ricco di brani intimi, da loner/loser, ma anche di appassionate cavalcate chitarristiche.
Voto Microby: 7.6
Preferite: Children of Children, Hudson Commodore, The Life You Chose

sabato 19 settembre 2015

Neil Young - i 25 migliori brani

Per completare la chiacchierata, come promesso, ecco la mia personalissima lista dei migliori 25 pezzi di Neil Young (in rigoroso ordine di uscita). Nell'attesa che, come auspica giustamente Microby, infili qualche nuovo grande disco.
Broken Arrow (Buffalo Springfield Again, 1967). I Buffalo Springfield furono l'inizio della carriera di NY. Questo è un brano geniale ed imprevedibile, con intermezzi musicali apparentemente incongrui. Ma l'insieme è bellissimo.
Cowgirl in the Sand (Everybody Knows This is Nowhere, 1969). Ballata ipnotica e seducente, riproposta anche nel mitico 4 Way street con CSN. Ti fa venire voglia di andare a comprare un capellone da cowboy.
Down by the River (Everybody Knows This is Nowhere, 1969). NY dice di averla composta mentre delirava per la febbre alta (insieme a Cinnamon Girl e Cowgirl).
Don't Let It Bring You Down (After the Gold Rush, 1970) "The dead man lying by the side of the road with the daylight in his eyes", un testo di terribile attualità.
Southern Man (After the Gold Rush, 1970) Mamma mia che energia. Un grande classico, contro il razzismo del sud degli Stati Uniti.  I Lynyrd Skynyrd, per risposta scrissero "Sweet Home Alabama" con il testo che diceva "I hope Neil Young will remember, the Southern man don't need him around anymore".
Only Love Can Break Your Heart (After the Gold Rush, 1970). Una ballata molto semplice che dice una cosa inquietante: quando ti innamori di qualcuno finisci per distruggerlo o esserne distrutto.
After the Gold Rush (After the Gold Rush, 1970). Il pianoforte al centro di tutto,  per una splendida lenta ballata,  espressione più classica del suo stile intimista. quasi a introdurre già il disco successivo, Harvest.
Ohio (CSNY single, 1970). La canzone di protesta per eccellenza, scritta in memoria dei quattro studenti della Kent State University uccisi nel loro campus durante una protesta. Erano gli anni dell'invasione USA in Cambogia. Le radio ufficiali non la trasmettono ma grazie a quelle indipendenti diventa un grande successo.
I am a Child (Live at the Cellar Door, 1970). Presente anche nella compilation Decade ed in Live Rust del 1979, trasuda innocenza e disperazione, quasi che NY voglia comunicarci qualcosa che noi non riusciamo a comprendere. Un pezzo acustico fenomenale.
A Man Needs a Maid (Live at Massey Hall 1971). Brano chiave di Harvest, è ancora più bello in questa versione dal vivo, stripped, senza orchestra, uscita a 40 anni di distanza attingendo all'immenso catalogo di registrazioni live di NY.
Helpless (CSNY Deja Vu, 1971). Quando si ascolta quest'album si percepisce chiaramente il cambio di marcia in termini di qualità (già peraltro immensa) ogni qualvolta NY diventa il protagonista. Una canzone autobiografica, dolcissima ed evocativa.
Old Man (Harvest 1972). E' la canzone che David Crosby predilige tra quelle del suo vecchio amico Neil, e questo dice tutto. Dedicata al custode del suo ranch, è una riflessione sulla differenza tra la vita di un giovane e quella di un vecchio.
Heart of Gold (Harvest, 1972). Unico brano in carriera ad arrivare al 1° posto in classifica (per una sola settimana, poi rimpiazzata da "Horse with no name" degli America). Bob Dylan l'ha sempre mal vista perché affermava fosse un brano troppo simile al suo stile, quasi la sentisse come un plagio.
Harvest (Harvest, 1972). La canzone che più di tutte ti riportano indietro nel tempo, facendoti ricordare come era diverso il mondo quando eravamo più giovani. Il suo capolavoro acustico, la canzone country-rock per definizione.
The Needle and the Damage Done (Harvest, 1972).  Una riflessione sulla autodistruzione umana, un brano sulla dipendenza dall'eroina, ispirata dal suo amico Danny Whitten, chitarrista e voce dei Crazy Horse, poi morto per overdose, appena prima della tournée di promozione di Harvest. Non essendo in grado di iniziare il tour, il giorno prima della sua morte NY l'aveva imbarcato su un aereo dandogli 50 dollari per eventuali necessità, che Whitten spese per l'ultima dose, quella mortale. NY non se lo perdonò mai.
Ambulance Blues (On The Beach, 1974). Lunga (9 minuti) e coinvolgente ballata folk acustica, con quei versi indimenticabili ("Who can tell you, you're just pissin' in the wind. ...").
On The Beach (On The Beach, 1974). Sette minuti di malinconia con Graham Nash al piano.
Cortez The Killer (Zuma, 1975). E' uno dei manifesti del movimento hippy degli anni '70. Amore, solitudine. Stare dalla parte dei deboli (gli aztechi contro i conquistatori) come allegoria dell'amore perduto.
Long May you Run (Long May you Run, 1976). L'augurio che si fa ad un amico, che in quel caso era poi la sua Pontiac del '53.
Like a Hurricane (American Stars 'n Bars, 1977). Bellissima e potente, una ballata elettrica di 8 minuti, con epiche schitarrate psichedeliche e voce allucinata.
Hey Hey, My My (Rust Never Sleeps, 1979). Il brano è presente in due versioni nel disco, acustica ed elettrica. Nonostante la mia propensione per l'acustico non vi è dubbio alcuno che l'elettrica sia assolutamente travolgente. Nel brano, ma solo nella versione acustica vi è il verso "It's better to burn out than to fade away", scritto poi da Kurt Cobain prima di togliersi la vita.
Rockin' in the Free World (Freedom, 1989). Dopo una serie di dischi improponibili, con Freedom NY sembra rialzare un po' la testa e questo brano è entrato nella playlist attuale dei suoi concerti.  Un brano molto attuale anche questo: è contro il fondamentalismo  e contro tutto ciò che fomenta lo scontro di civiltà. "It's probably better we just keep on rockin' in the free world"; decisamente meglio continuare a fare musica in un mondo libero!
From Hank to Hendrix (Harvest Moon, 1992). Stupenda anche e soprattutto nella versione Unplugged.
Philadelphia (Philadelphia, 1993). Originariamente pensato come brano di apertura della colonna sonora dell'omonimo film di Jonathan Demme, fu spostato invece ai titoli di coda per completare il climax del film e mandare a casa gli spettatori tutti commossi. Ripreso recentemente da Peter Gabriel.
Ordinary People (Chrome Dreams II, 2007).  Diciotto minuti di rock-blues ipnotico.

giovedì 3 settembre 2015

JOSH ROUSE, ALBERT HAMMOND JR., RICHARD THOMPSON


JOSH ROUSE (2015) The Embers of Time




Al netto del differente tasso di genio musicale, l’artista americano (ma girovago sia in patria che nella ricollocazione in Spagna dell’ultimo decennio) è sempre stato considerato un Paul Simon dai toni più soft (sia nei testi più intimi che negli arrangiamenti sempre debitori del soft-rock e del soft-country dei ’70). Caduto nella depressione negli ultimi 2 lustri, invece di proporre i capolavori da tutti attesi, vista la sua natura introspettiva associata all’esplosione commerciale dei cantautori malinconici, ha invece appannato l’ispirazione. Torna ora ripulito dalla psicoterapia, e pur parlando di difficoltà relazionali, sconfitte, lutti, riesce a farlo con grazia, serenità, esaltando la riscossa anziché la stasi. Culla, abbraccia, coccola e, pur non toccando i vertici di Dressed Up Like Nebraska, 1972 e Nashville, pubblica ora un album senza un brano debole (ed anzi con alcuni gioiellini) che lo porta fuori dalle sacche involutive del recente passato.
Voto Microby: 7.6
Preferite: New Young, Some Days I’m Golden All Night, Time
 
 
ALBERT HAMMOND JR (2015) Momentary Masters

Al terzo album il figlio del cantautore californiano Albert Hammond (chi non ricorda almeno It Never Rains In Southern California?) dimostra di non essere solo figlio d’arte o solo chitarrista degli Strokes, ma di possedere qualità di scrittura pop (purtroppo poco utilizzata dalla band newyorkese) ed uno stile chitarristico asciutto ma lirico, ritmico ma con melodie più beatlesiane che garage come quelle del gruppo erroneamente identificato solo nel leader Julian Casablancas. Gli Strokes si sentono eccome, ma il taglio moderno ed urbano delle canzoni è per lo più figlio di Talking Heads ed Undertones, di Tom Tom Club ed Adrian Belew. Ed è assai piacevole, certamente più delle ultime produzioni degli Strokes.
Voto Microby: 7.4
Preferite: Losing Touch, Coming To Getcha, Born Slippy
 
 
RICHARD THOMPSON (2015) Still



Prodotto da Jeff Tweedy ed eseguito in trio con i fidati Taras Prodaniuk e Michael Jerome alla sezione ritmica, Still non si colloca tra i migliori lavori dell’inglese dal grandioso passato con i Fairport Convention, ma anche dalla luminosa carriera solista. Certo quando le canzoni (nessuna brutta, ma nemmeno memorabile) cedono il passo alla riconoscibilissima chitarra del nostro (acustica ma soprattutto elettrica), la qualità spicca il volo. Il tono complessivo è virato al rock, ma la brace è sempre folk. Decisamente meglio i brani vivaci rispetto a quelli più pacati.
Voto Microby: 7.2
 
Preferite: No Peace-No End, Patty Don’t You Put Me Down, She Never Could Resist A Winding Road


 




 

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