venerdì 29 maggio 2015

POPS STAPLES, WILLIE NILE


POPS STAPLES (2015) Don't Lose This
 


Don’t Lose This”, pare abbia detto poco prima di morire Roebuck “Pops” Staples alla figlia Mavis, riferendosi ad un pugno di canzoni da lui scritte ed interpretate, ma ancora incomplete. Quindici anni dopo Mavis soddisfa il desiderio paterno arrangiandole, sovraincidendole e pubblicandole con l’aiuto del Wilco Jeff Tweedy a chitarra, basso e produzione e di suo figlio Spencer alla batteria. Il risultato è il noto, tipico, ammaliante blend di blues, soul e gospel ben caratterizzato dalla voce morbida e tremula del grande vecchio, e dal suono vellutato e riverberato della sua chitarra amplificata. Siamo agli opposti del rock-blues bianco, torrido e torrenziale, good to hell, alla Popa Chubby, Joe Bonamassa, Stevie Ray Vaughan. In Pops Staples il blues è inscindibile dall’educazione al gospel in chiesa, è più soul, per l’anima, piuttosto che body, per il corpo. E’ good to heaven. Non ho mai sopportato il puro blues acustico del Delta, che trovo triste e noioso, ma amo quello di Pops Staples, che culla e rasserena, anche quando è postumo.
Voto Microby: 7.7
Preferite: Friendship, Somebody Is Watching, Love On My Side


 
WILLIE NILE (2015) If I Was A River

Emblema del beautiful loser, il cantautore nato Robert Anthony Noonan a Buffalo, New York, e noto agli esordi nei primi anni ’80 come il “piccolo Springsteen” (a sottolineare la statura fisica ed i live acts infuocati), ci ha abituato a prove per lo più da singer-songwriter chitarristico elettrico ed urbano, mai meno che buone (e spesso eccellenti). Ma nei suoi albums hanno sempre trovato spazio pregevoli ballate pianistiche (chi ricorda all’esordio nel 1980 la splendida Across The River?), nell’ambito di quello che allora veniva classificato come Asbury Park Sound. Sorprendentemente il piccolo folletto elettrico, dal ciuffo rockabilly sui capelli tinti ed ancora tanta energia da vendere a 66 anni (ogni estate torna sui palchi italiani, ed è da non perdere), passa dal blue collar rock ad un disco acustico di pure ballads pianistiche (con misurati interventi di chitarra o banjo o violino) e risulta sempre sincero, appassionato, intenso come nelle struggenti ballate del vero Boss.
Voto Microby: 7.6
Preferite: Lost, The One You Used To Love, Once In A Lullaby

sabato 23 maggio 2015

Recensioni: Paul Weller, The Tallest Man on Earth, San Fermin

PAUL WELLER - Saturns pattern (2015)
Per continuare i riferimenti ai grandi del brit-rock, dopo Damon Alban e Noel Gallagher, anche Paul Weller ha intrapreso, molto prima degli altri, una ambiziosa carriera solista, per la verità non sempre ispirata. Questo è il terzo lavoro negli ultimi 5 anni (con una spinta compositiva così spiccata da fargli dimenticare anche l’apostrofo nel titolo….) e come in ogni disco scorrono gli omaggi al blues (il brano di apertura White Sky), accanto a brani acustici vagamente country (In the Car) e mix di soul e surf-rock alla Beach Boys (Saturns Pattern e Going My Way). Disco classificabile tra i più interessanti dell’ultimo periodo: evidentemente il Modfather ha ancora molto da dire.  Attendiamo con ansia di sentirlo al Vittoriale il prossimo luglio. Voto: ☆☆☆1/2


THE TALLEST MAN ON EARTH - Dark bird is home (2015)
Il piccolo grande uomo svedese (Kristian Matsson) è giunto all’album numero 4 (a 3 anni dal precedente There’s No Leaving Now), che appare subito essere il più soft ed il meno aggressivo della sua produzione. Se i primi lavori erano soprattutto lui e la sua chitarra acustica, in questo la strumentazione e gli arrangiamenti appaiono più complessi (Sagres) ma non per questo meno ipnotici e surreali. Non si perde mai la sua inflessione malinconica ma essa viene modulata melodicamente quasi nel tentativo di scrollarsi di dosso l’etichetta di Dylan svedese ispirata dal suo primo disco Shallow Grave e dal successivo The Wild Hunt del 2010. Da ascoltare: Darkness of the Dream, Sagres, Dark Bird Is Home. Un ennesimo passo in avanti. Voto: ☆☆☆



SAN FERMIN - Jackrabbit (2015)

Il loro debutto ci aveva affascinato per il loro stile indie-pop barocco, elegante ed educato, ricco di pianoforte, violoncelli, corni e cori, soprattutto in un momento in cui sentivamo la mancanza di Sufjan Stevens ed i nostri bisogni strumentali repressi erano affidati solo a Fanfarlo, The National e Leisure Society. In questo secondo album lo stile appare quasi troppo fluido, a tratti esageratamente classico, con alcuni pezzi sicuramente interessanti (The Woods, Emily, Jackrabbit) ed altri decisamente poco riusciti. Forse proprio un eccesso melodrammatico ha finito per penalizzare questo lavoro che possiamo considerare meno convincente del precedente ma pur tuttavia non povero di charme. Probabilmente ci aspettavamo troppo: per quest’anno ci godiamo il nuovo vecchio Sufjan. Voto: ☆☆☆


venerdì 22 maggio 2015

THE LEISURE SOCIETY, OTHER LIVES


THE LEISURE SOCIETY (2015) The Fine Art Of Hanging On


Al quarto album il combo guidato dalla penna e dalla chitarra del londinese Nick Hemming conferma di non sbagliare un colpo, e sebbene si sia spostato dal folk-pop di marca Fleet Foxes/Sufjan Stevens degli esordi al chamber-pop di mezzo (l'insuperato Into The Murky Water del 2011), fino al pop beatlesiano (ma di penna solo maccartiana) attuale, va sempre a collocarsi tra i migliori interpreti del genere. "La fine arte di arrangiarsi" lo fa al meglio shakerando melodie alla Paul McCartney con il salotto buono di Burt Bacharach, l'orecchiabilità dei Fanfarlo, la malinconia di Badly Drawn Boy, la freschezza di Belle and Sebastian, gli arrangiamenti di Todd Rundgren, il brio dei New Pornographers. Sembra leggera-leggera la proposta della "Società dell'ozio", ma a differenza dell'easy listening cresce ad ogni ascolto, rivela particolari inediti, arrangiamenti arditi, soluzioni inusuali: mai ostico, anzi sempre piacevole, ma con sostanza. Se ne astengano pertanto gli amanti del suono sporco, delle proposte grezze, della scrittura arrabbiata. O ne godano come una transitoria pausa di puro piacere.
Voto Microby: 8
Preferite: Outside In, Tall Black Cabins, The Fine Art of Hanging On



OTHER LIVES (2015) Rituals


Il quintetto di Stillwater (Oklahoma), al debutto nel 2009 con un album tra indie-pop e folk, e maturato nel bellissimo chamber-pop di Tamer Animals nel 2011 (uno dei miei dischi dell’anno), al terzo lavoro è sempre impermeabile alla musica americana e cerca invece una via inglese sospesa tra il pop colto degli Alt-J e quello elettronico dei Radiohead. Va detto subito, non riesce ad avvicinarsi per qualità né alle fonti di ispirazione né alle vette di spleen raggiunte col precedente disco: si conserva, è vero, il mood malinconico quasi di scuola 4AD, che tuttavia diventa a tratti languido, altre volte seduttivo, come un pop barocco sempre assai cinematico ma purtroppo un po’ lezioso. Si apprezza l’architettura spesso complessa dei brani, la raffinatezza degli arrangiamenti, ma il disco stenta ad affermarsi anche dopo parecchi ascolti. Assai godibile per chi ama canzoni vestite di suoni eleganti e sontuosi, ma i nostri hanno dimostrato di poter fare meglio.
Voto Microby: 7.5
Preferite: Easy Way Out, English Summer, Fair Weather

mercoledì 13 maggio 2015

MUMFORD & SONS, ASAF AVIDAN


MUMFORD & SONS (2015) Wilder Mind
 
Dopo i 2 eccellenti album-fotocopia del 2009 e 2012, in cui i londinesi Marcus Mumford e sodali ci avevano deliziato con la loro rivisitazione del folk-rock inglese dei ’70 ibridato col country-rock californiano ed il cantautorato folk-pop seventies, era lecito attendersi un cambiamento per capire il reale spessore di questa band, assorta a metro di paragone ed esempio per centinaia di gruppi nel mondo. L’evoluzione più probabile sembrava essere una spinta più decisa verso una nuova interpretazione del genere “americana”, viste le ottime prove fornite in questo contesto dal leader Marcus in molti progetti collaterali. Invece la scelta cade su una deriva rock ahimè per nulla originale, in cui la scrittura rimane invariata e gli arrangiamenti per chitarra acustica e banjo sostituiti dall’elettrica. Resta la tendenza ai suoni pieni ed al melodramma, già caratterizzanti il loro suono in acustico, e di scuola Arcade Fire, ed un’epica chitarristica alla U2; inoltre l’opinabile scelta di una sezione ritmica metronomica e stereotipata di marca anni ’80. I brani presi singolarmente sono dozzinali (nel senso che dozzine di gruppi suonano così) ma piacevoli, mentre nell’insieme il lavoro stanca perché si è prediletto il suono alle canzoni. Un passo falso, che lascia il sospetto che il gruppo londinese abbia già espresso il meglio di sé con l’esordio. “Ora che tutti suonano come Mumford & Sons, Mumford & Sons suonano come tutti” (All Music). Un 7.5 al prodotto (ottimamente confezionato), un 6.5 ad ispirazione e coraggio. La media fa 7; come si era sottolineato lo scorso anno a proposito degli ultimi sforzi di U2 e Pink Floyd: troppo poco per dei fuoriclasse.
Voto Microby: 7
Preferite: Believe, The Wolf, Snake Eyes
 
 

ASAF AVIDAN (2015) Gold Shadow



E’ sempre la voce l’elemento portante (e portentoso) della popstar israeliana stabilitasi in Italia: ginoide e drammatica, persa tra l’androginia di Brian Molko, la rinolalia di Amy Winehouse, la liricità di Antony e la teatralità di Marianne Faithfull. Peccato che la scrittura non valga quella delle ugole citate, nonostante Avidan cerchi una maggior varietà rispetto al passato, smarcandosi dall’ispirazione primaria (Leonard Cohen) per toccare gli anni ’60 leggeri di Melanie ed europei di Edith Piaf. Un ascolto piacevole, purtuttavia un leggero passo indietro (o forse manca l’effetto sorpresa) rispetto al precedente Different Pulses del 2012.
Voto Microby: 7.3
Preferite: Little Parcels of An Endless Time, Fair Haired Traveller, My Tunnels Are Long And Dark This Days



 

lunedì 4 maggio 2015

BLUR, TOBIAS JESSO JR.


BLUR (2015) The Magic Whip

Mai realmente sciolti, i Blur pubblicano il 2° album in studio del millennio a 12 anni del precedente Think Tank. Pur sembrando ai primi ascolti la logica prosecuzione di Everyday Robots, il primo sforzo solista di Damon Albarn nel 2014, TMW appare tuttavia anche l’evoluzione degli ultimi lavori dei Blur e delle esperienze collaterali targate The Good, The Bad & The Queen e, più marginalmente (nel mood malinconico che forse appartiene alla voce di Albarn, pura o filtrata che sia), Gorillaz. Lontane le chitarre brit-pop e l’ispirazione beatlesiana del passato, a prevalere è ora un pop psichedelico dai ritmi reiterati ed ipnotici (mai la sezione ritmica era stata così determinante) , dalle melodie dilatate e pigre, dai suoni cesellati ed eleganti che si incattiviscono occasionalmente con la spinta metodicamente abrasiva del chitarrista Graham Coxon. Influenze orientali ed archi da chamber-pop globalizzano una scrittura (che resta profondamente british) impigrita dalla tradizione sub-sahariana. Accompagna il tutto la solita, indubbia classe, per un percorso artistico che, a differenza degli eterni rivali Oasis, è sempre stato mobile, curioso, aperto a molteplici influenze. Interessante e coraggioso, ammaliante più che piacevole, TMW è un buon disco, che cresce ad ogni ascolto, ma non un capolavoro.
Voto Microby: 7.8
Preferite: Lonesome Street, Go Out, I Broadcast


TOBIAS JESSO JR. (2015) Goon

Il trentenne cantautore di pop-ballads di Vancouver sta sollevando al debutto parecchio interesse mediatico: parte per i paragoni (tutti condivisibili perché evidenti) con le ballatone di artisti dei ’70 quali Harry Nilsson, Elton John, Carole King, John Lennon, Randy Newman, e parte per l’endorsement avuto da Adele (che alcune delle canzoni saprebbe trasformarle in tormentoni spaccaclassifica). Ciò che piace di TJ Jr. è la palpabile naiveté, il tuffo senza vergogna nel pop pianistico leggero, mieloso ed appiccicoso dei primi seventies, gli arrangiamenti popolari e desueti. Ciò che convince di meno sono, a parte la classe ancora ben lontana dai paragoni e dalla mèntore, l’ispirazione patchwork, tra brani dalla melodia indubbiamente bella ed altri sottotono, e lo squilibrio tra una prima parte di ottimo livello ed una seconda appena sufficiente. Resta sotto esame, ma certo il nostro sembra sincero (come il Tom Odell del 2013, che gli è decisamente superiore), non un prodotto costruito a tavolino.
Voto Microby: 7.4
Preferite: How Could You Babe, Without You, The Wait


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