venerdì 25 novembre 2016

AGNES OBEL, MORELAND & ARBUCKLE, STEVE GUNN


AGNES OBEL (2016) Citizen of Glass




Un album ogni 3 anni per la danese che al precedente disco ho definito (e confermo il giudizio) la miglior interprete femminile del cosiddetto chamber pop: a piano e voce si accompagnano gli strumenti classici da camera (viola, violoncello, violino, arpa, chitarra e sporadiche percussioni). Invece di seguire la via più facile del pop (l’esordio era stato di platino nei paesi del nord Europa), la nostra ha accentuato l’austerità derivante dagli studi classici, e pubblica un lavoro che non accetta deroghe all’ascolto esclusivo e molto attento. Si viene ripagati da canzoni che rimarranno nel tempo pur partendo dalla polifonia corale elisabettiana. A tratti mi ricorda un’interprete olandese che avevo molto apprezzato negli anni ’80 e ’90, Mathilde Santing, nei suoi lavori più scarni e meno adesi agli arrangiamenti del tempo. L’ascoltatore che non avesse in mente tali presupposti considererebbe probabilmente pedante, noioso e perfino artefatto Citizen of Glass. La pazienza premia con un gioiellino.
Voto Microby: 8
Preferite: Familiar, Golden Green, Trojan Horses



MORELAND & ARBUCKLE (2016) Promised Land Or Bust



Il British Blues Revival esportato negli USA e nel mondo negli anni ’60 da Alexis Korner e John Mayall rivive, ben sporcato col Delta Blues ed il Boogie, nella chitarra ruvida (più hard-garage che virtuosistica, come siamo abituati ad ascoltare in quasi tutto il rock-blues recente) di Aaron Moreland e nell’armonica infuocata del vocalist Dustin Arbuckle, che non imita (come la massa) il timbro vocale dei neri ma canta da bianco che ha il blues nell’anima. Il duo del Kansas è completato dal batterista Kendall Newby, membro effettivo del trio, e da alcuni ospiti. Non si ascolta questo album per stupirsi degli assoli (come per Joe Bonamassa, ad esempio), ma per fare il pieno di energia, che trasuda da tutte le note, come fosse una registrazione in presa diretta. Un rock-blues antico, che trae ispirazione da entrambe le sponde dell’oceano e dei due generi, il rock ed il blues, e per questo piacerà sia a chi ama John Mayall ed i Cream sia a chi va matto per Black Keys o Jon Spencer Blues Explosion.
Voto Microby: 7.8
Preferite: Mean And Evil, Take Me With You (When You Go), When The Lights Are Burning Low



STEVE GUNN (2016) Eyes On The Lines



Il giovane chitarrista fingerstyle, dopo le esperienze da session man con Michael Chapman e Jack Rose e come membro dei Violators, la backing band di Kurt Vile, ha lentamente mollato gli ormeggi ed ora, alla terza esperienza da solista, pare pronto ad esprimersi anche in forma di scrittore di canzoni e cantante. Perfettibili entrambi, nonostante la qualità sia già attualmente buona. Certo la matrice psichedelica fine anni ’60 la fa da padrona, così ci si compiace di ascoltare dei fraseggi di chitarra, per lo più elettrica o semiamplificata, che sembrano appartenuti ai Grateful Dead più concisi o ai Velvet Underground più liquidi e melodici. Con la speranza che possa esplorare anche territori musicali più personali.
Voto Microby: 7.5
Preferite: Conditions Wild, Ancient Jules, Heavy Sails

 
 

giovedì 17 novembre 2016

Leonard Cohen - I 10 pezzi migliori


L'aveva preannunciata lui stesso. Nel suo ultimo album troppi erano i riferimenti alla morte per non introdurcela con la sua solita poesia e passione.
Ripensando alla sua carriera ecco una lista di 10 brani da ricordare.


1. Hallelujah (Various Positions, 1984). Sicuramente il suo brano più popolare, grazie alle numerose cover (su tutte quella di John Cale e Rufus Wainwright, ma soprattutto quella magnifica ed inarrivabile di Jeff Buckley). Non ebbe un gran successo, all'inizio;  ad oggi se ne contano almeno 300 cover. Unico aspetto positivo di questi tristi giorni è che no, la canzone non era di Jeff Buckley. 
2. Going Home (Old Ideas, 2012). Dopo otto anni di silenzio Cohen torna sul palco e pubblica un nuovo disco, scarnificando al massimo la sua musica. In questo brano, solo delicatamente sfiorato da archi e tastiere Cohen ricorda il Dylan di Time Out of Mind. La rivista Rolling Stone l'ha inserita tra le venti migliori canzoni del 2012.
3. So Long, Marianne (Songs of Leonard Cohen, 1967) Dedicata a Marianne Ihlen, incontrata ed amata di nascosto (era sposata ad uno scrittore norvegese) e scomparsa anch'ella quest'anno.
4. Suzanne (Songs of Leonard Cohen, 1967). Fu il suo singolo di esordio e, insieme ad Hallelujah, sicuramente la sua canzone più famosa.  Anche questa, come la precedente, era dedicata ad una donna, Suzanne Verdal, che Cohen conobbe a Montreal e poi perse di vista. Una decina di anni fa un programma televisivo americano indagò sulla sua identità e scoprì che lei viveva in un'automobile a Venice Beach in California: al giornalista disse che con Cohen non c'era stato niente. L'hanno ripresa in tantissimi, Fabrizio De Andrè (nel 1972), Francesco De Gregori (nel 1970) e Nick Cave (sicuramente il suo discepolo più fedele) tra gli altri.
5. Bird on a wire (Songs from a Room, 1969). Scritta su un'isola greca dove aveva soggiornato per 7 anni facendo vita da bohémienne (insieme a Marianne Ihlen) è una sorta di apologia alla solitudine ed alla libertà. Anche grazie al successo di questo brano, insieme a quelli del precedente lavoro, Cohen viene invitato al festival dell'isola di Wight del 1970, ottenendo una popolarità planetaria.
6. Famous Blue Raincoats (Songs of Love and Hate, 1971). Racconta la storia di un triangolo amoroso tra il narratore, una donna di nome Jane ed un altro uomo, definito con rancore "mio fratello, il mio assassino".
7. Chelsea Hotel no. 2 (New skin for the old Ceremony, 1974). Una delletante canzoni dedicate al famoso hotel di downtown Manhattan, che negli anni ha ospitato praticamente tutti i più grandi della musica (Patti Smith, Bob Dylan, Jimi Hendrix, Joni Mitchell, Nico, Janis Joplin e Leonard Cohen stesso). In questo brano celebra la sua breve relazione con Janis Joplin ("mi dicesti che preferivi gli uomini belli, ma per me avresti fatto un'eccezione"), incontrata per caso in un ascensore dell'hotel.
8. Tower of Song (I'm Your Man, 1988). Autobiografica ed autoironica ("I was born like this / I had no choice /I was born with the gift of a golden voice"). Il testo di questo brano fu letto in occasione dell'inserimento nella Rock'n'roll Hall of Fame nel suo discorso di ringraziamento.
9. First we Take Manhattan (I'm Your Man, 1988). Testo agghiacciante e ritmi elettronici (eravamo negli anni del synth-pop): sempre attuale visti i riferimenti al fascino delle posizioni estreme ed aggressive. Bella la cover di Joe Cocker.
10. On That Day (Dear Heather, 2004). Canzone sull'11 settembre in risposta a ciò che si sentiva in giro: "qualcuno dice che ce lo siamo meritati, per i nostri peccati contro Dio, o i crimini contro l'umanità. Non so, io mi limito a tenere duro, dal giorno in cui ferirono New York. Qualcuno dice che ci odiamo da sempre, per le nostre donne svelate, per i nostri schiavi e il nostro oro. Non so, io mi limito a tenere duro. Ma voi ditemi una cosa, e io non vi giudicherò: siete impazziti o vi siete arruolati, quel giorno? Quel giorno che ferirono New York?"

lunedì 14 novembre 2016

THE DIVINE COMEDY, THE JAYHAWKS, SOPHIA



THE DIVINE COMEDY (2016) Foreverland


Così come a scuola per La Divina Commedia, da sempre per il gruppo a conduzione egemone da parte del nordirlandese Neil Hannon non esistono mezze misure: lo si ama o lo si odia. Nella vita personaggio dandy ed avulso dalla realtà, anche artisticamente il suo pop orchestrale è atemporale: melodico, romantico, enfatico, da feuilleton rosa fin dagli esordi nel 1990. Incurante del grunge, del brit-pop, del synth-pop, dell’hip-hop, del trip-hop, del new acoustic movement che imperavano nella contingenza, Hannon è sempre andato dritto per la sua strada inanellando una serie di eccellenti album (seppur non adesi al momento musicale, come un vaso cinese in un contesto Bauhaus), con uno stile riconoscibilissimo e unico. Anche quest’ultimo sforzo, buono seppur non fra i suoi migliori (i miei preferiti restano Casanova del 19996 e Regeneration del 2001) piacerà a chi apprezza Rufus Wainwright, Adam Green, Richard Hawley, Pulp e sarà rigettato da chi ama suoni freddi, o moderni, o essenziali, o grezzi. Chi lo segue non lo perda in concerto a Brescia il 10 febbraio 2017 nel suo contesto ideale, il Teatro Grande.
Voto Microby: 7.7
Preferite: To The Rescue, Napoleon Complex, Catherine The Great



THE JAYHAWKS (2016) Paging Mr. Proust



La definitiva fuoriuscita di Marc Olson da uno dei gruppi seminali dell'alt-country ha scompaginato l'assetto musicale dei Jayhawks, da sempre brillantemente in equilibrio tra folk, country e pop, tra Byrds, Beatles e tradizione rurale americana. Il re-styling ha prodotto un lavoro indeciso (come la copertina) tra vecchio e nuovo, in cui l'anima predominante resta quella melodica e beatlesiana dell'attuale leader unico, Gary Louris, tuttavia in molte canzoni tale attitudine è sporcata da un suono elettrico alla Neil Young con i Crazy Horse. Progetto interessante nelle intenzioni e affatto estraneo al background della band, tuttavia quel che manca è l'amalgama tra le due opposte direzioni, chè i brani in sè godono di buona scrittura ed esecuzione. Ma dai fuoriclasse è lecito pretendere di più. Disegno da sviluppare, completare, colorare meglio.
Voto Microby: 7.4
Preferite: Quiet Corners & Empty Spaces, Lovers of The Sun, The Devil Is In Her Eyes



SOPHIA (2016) As We Make Our Way – Unknown Harbours



La band, da considerare a tutti gli effetti il moniker di Robin Proper-Sheppard dopo lo scioglimento dei God Machine, sembrava dissolta dopo 7 anni di silenzio seguìti ad un penultimo album il cui titolo appare ora come programmatico (There Are No Goodbyes). E invece eccoci con un nuovo lavoro che dispiega le varie anime di RPS: dalle note malinconiche della voce profonda e colloquiale che lo accomuna da sempre a Tindersticks e Smiths più romantici, allo shoegaze amato in gioventù, al pop jingle-jangle, all'indie-rock più raffinato. Troppe influenze per una carne sul fuoco che non è figlia dell'ispirazione dei tempi migliori, per un risultato finale che è di piacevole ascolto ma non raccomandabile se paragonato ad una discografia passata che è di qualità superiore.
Voto Microby: 7
Preferite: California, Don't Ask, The Drifter


















 
 

Canzoni del cumenda - pezzi caldi novembre 2016

Ricevo e giro una nuova lista di brani "caldi" proposti da El Cumenda. Come sempre un elenco di brani molto stimolanti e interessanti (con ben 4 italiani)!

1. Skye & Ross - How to fly
2. Glenn Hughes - Nothing's the same
3. Giorgia - Per non pensarti
4. Jacob Collier - In my room
5. Barock Project - My silent sea
6. Wow - Aria
7. Norah Jones - Carry on
8. Amos Lee - New Love
9. Flo - Vulìo
10. Airbag - Disconnected



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