martedì 28 marzo 2017

LAURA MARLING, VALERIE JUNE


LAURA MARLING (2017) Semper femina


Varium et mutabile semper femina…” è il verso dall’Eneide di Virgilio che ha ispirato il titolo del sesto album della cantautrice inglese, dedicato ad una personale esplorazione del mondo femminile. Folksinger la cui discografia la colloca finora ai massimi livelli nella considerazione dei critici tra le colleghe di tutto il mondo, e certamente al primo posto (in coabitazione con P.J. Harvey) tra quelle inglesi. Anche in quest’ultimo album dimostra una maturità artistica invidiabile ma già acquisita da tempo, nonostante gli attuali 27 anni. Semper femina ha un baricentro solido non solo nelle liriche, ma anche musicale: abbandonate le asperità garagiste del precedente Short Movie, il nuovo lavoro è centrato sulla forma-canzone, acustico e mai così raffinato, inglese (leggi il Nick Drake con gli archi), chamber-pop (vedi Agnes Obel), e con gli arpeggi di chitarra e la solita voce limpida e vibrata che rimandano immediatamente a Joni Mitchell. L’album necessita di molti ascolti per essere apprezzato in tutte le sue sfumature, ed ogni singolo brano ci appare buono, se non eccellente: tuttavia si ha sempre l’impressione di un disco concepito con il cuore ma realizzato prevalentemente con la testa. Una sottile patina di controllo cerebrale delle emozioni che ancora una volta non permette all’artista di regalarci il capolavoro possibile, che siamo certi prima o poi partorirà.
Voto Microby: 8
Preferite: Wild Fire, Don’t Pass Me By, Soothing  



VALERIE JUNE (2017) The Order of Time


Talentuosa, bellissima e col physique du role per diventare una stella del mainstream, la polistrumentista del Tennessee non guarda a Billboard ma ripropone la variopinta tavolozza musicale dell'eccellente album del 2013 Pushin' Against A Stone: tutti i colori del sud degli Stati Uniti (principalmente folk, ma anche country, blues, soul) come vivesse negli anni '30, intrisi di negritudine dolente e sofferta come ci hanno abituato le voci rassegnate del blues maliano. Non ci sono vie di mezzo: ad un ascolto superficiale la June appare lamentosa e ripetitiva, ad uno attento affiorano senza prepotenza tutte le influenze bianche e nere di oltre mezzo secolo di storia musicale americana, dalle dodici battute nei campi di cotone al ritmo del rock'n'roll. Non si va oltre perchè un salto nel pop, o nell'alt-R&B, o nel nu-soul rappresenterebbe il presente cui la rivisitazione storica di Valerie June non è attualmente interessata. Il rischio è che resti materia per pochi appassionati, ma ben vengano anche ascoltatori solo curiosi.
Voto Microby: 7.5
Preferite: Slip Slide On By, Love You Once Made, The Front Door






martedì 21 marzo 2017

BLACK JOE LEWIS, DEAD MAN WINTER


BLACK JOE LEWIS (2017) Backlash




Matt Collar di All Music Guide introduce Black Joe Lewis & The Honeybears in questo modo: “An Austin-based band that mixes funky, ‘60s-style R&B, stomping electric blues, and garage aggression in equal parts”. Andrea Trevaini del Buscadero precisa (ma sottostimando l’influenza garage): “1/5 di James Brown, 1/5 di Swamp Dogg, 1/5 di Screamin’ Jay Hawkins, 1/5 di Andre Williams, 1/5 di R.L. Burnside”. Concordo con entrambi anche se, continuando il gioco del cocktail, al posto di Andre Williams ci metterei la forza selvaggia del blues di George Thorogood (peraltro citato da Trevaini) ma non dimenticherei la sporcizia delle garage-bands bianche di fine ’60 e l’hard-blues di Jimi Hendrix, Yardbirds, Bad Company, Thin Lizzy, Mountain, Steppenwolf. Per un parallelo più recente, azzarderei che se Jon Spencer Blues Explosion propone garage sound dalla forte impronta blues, Black Joe Lewis propone R&B con importante attitudine garage (ed è l'influenza che maggiormente distingue il texano da tutti gli altri soulmen). Peccato che dopo due albums strepitosi come Scandalous (2011) ed Electric Slave (2013) il nostro non riesca a ripetersi: solo compositivamente, perché formalmente è sempre brutto, sporco e cattivo, ma di una rabbia stavolta poco controllata se non a tratti eccessiva e monomorfa. Ma chi cerca energia troverà pane per i suoi denti.
Voto Microby: 7.5
Preferite: Global, Nature's Natural, Maroon



DEAD MAN WINTER (2017) Furnace


Se è piuttosto comune per gli artisti in genere trasporre in opera i sentimenti successivi alla rottura di un rapporto d'amore, e capaci spesso nella disperazione di produrre capolavori, questa sembra la regola per i musicisti. E così anche Dave Simonett, il leader della band (di Duluth, Minnesota, città natale di Bob Dylan) folk/alt-country Trampled by Turtles (ma che per la produzione personale sceglie il moniker Dead Man Winter, con Furnace arrivato al terzo album) è giunto il momento del break-up record. Che è di matrice country-rock come lo poteva essere The Band meno elettrica o i primi Wilco meno alternative, con una voce dolente che mi ricorda quella di Danny McNamara dei brit-poppers Embrace, ma la cui atmosfera generale non è solo sofferta, ma anche positiva e variopinta. Nulla di nuovo, ma tutto buono.
Voto Microby: 7.5
Preferite: Red Wing Blue Wing, Danger, Destroyer





martedì 14 marzo 2017

MILES MOSLEY


MILES MOSLEY (2017) Uprising




La transizione dalla presidenza Obama a quella di Trump e la Brexit sembrano aver rinvigorito l’ispirazione della musica black in entrambe le sponde dell’oceano: in Inghilterra lo splendido secondo album soul di Michael Kiwanuka ed i dischi d'esordio di matrice alt-R&B per Sampha e rap per Loyle Carner; negli USA le pregevoli conferme alt-R&B di Frank Ocean e Solange, la sorpresa (anche nelle vendite) alt-jazz di Kamasi Washington e lo stimolante debutto da solista di Miles Mosley testimoniano una scena attualmente più vivace, colta ed innovativa di quella white (inglese ed americana). Mosley esordisce in proprio a 36 anni dopo numerosi dischi da cantante e polistrumentista (ma è uno dei contrabbassisti più apprezzati al mondo) dei West Coast Get Down, collettivo aperto di Los Angeles che ha contribuito a fondare e che lo accompagna in “Uprising” (arruolato lo stesso Kamasi al sax che ricambia il ruolo di bassista di Mosley nell’acclamato “The Epic”). Del suo stile si dice che è come se Jimi Hendrix suonasse il contrabbasso nella band di Prince. Ma anche queste due grandi figure non caratterizzano la scelta compositiva e degli arrangiamenti di Mosley. Le radici del nostro vanno cercate in tutta la musica nera, dal jazz orchestrale al funk/R&B di James Brown, dal ritmo elettrizzante del nigeriano Keziah Jones al tropismo radiofonico di Lenny Kravitz, dall’heavy soul di Cody ChesnuTT al funky dei Temptations, dalla versatilità di Ben Harper al blues bastardo ed elettrico di Gary Clark Jr. e Fantastic Negrito. Nonostante sia stato session man prezioso nei dischi di Lauryn Hill, Mos Def, Kendrick Lamar, Gnarls Barkley, Joni Mitchell, Jeff Beck, nelle sue composizioni il nu-soul, il rap, l’alt-R&B e la musica bianca hanno un ruolo modesto. Profusione di fiati e consistenti (a volte eccessivi) arrangiamenti per archi sottolineano un'enfasi cinematografica che tuttavia non stanca con i ripetuti ascolti, grazie anche a deliziosi contrappunti pianistici ed alla varietà delle costruzioni melodiche (di matrice mista black & white europea). Rimane qualcosa da limare, ma in “Uprising” l'entusiasmo e l'energia sono contagiosi. Col tempo scopriremo se è nata una nuova stella.
Voto Microby: 8.5
Preferite: Abraham, Reap A Soul, More Than This

lunedì 13 marzo 2017

Recensioni: CeCe Winans, The Band of Heathens

CeCe WINANS - Let Them Fall in Love (2017)
CeCe Winans, all’anagrafe Priscilla Marie Winans, è in assoluto una delle stelle del gospel contemporaneo ed ha una storia personale di 3 Grammy e svariati milioni di dischi venduti, insieme ai suoi fratelli e di altri 9 Grammy con ulteriori 12 milioni dischi nella sua carriera solista. Quest’ultimo disco si apre con una fantastica He’s Never Failed me Yet, con una splendida voce che ricorda Whitney Houston o la prima Dionne Warwick e continua con numerose altre gemme di impronta prevalentemente R&B o soul. Gli arrangiamenti dei vari brani ricordano i grandi del passato: Ray Charles e Aretha Franklin sopra tutti, ma non nascondono influenze più rockeggianti alla Joe Cocker (la splendida Lowly), o country-folk rimandando a Carly Simon o Joni Mitchell (Never Have to be Alone).
In assoluto uno dei migliori dischi di gospel-soul degli ultimi anni: la prova che è possibile reinterpretare un genere apparentemente di nicchia, per molti già morto e sepolto e utile solo nel periodo prenatalizio. Da ascoltare: He's Never Failed me Yet, Hey Devil!, Lowly. Voto: ☆☆☆☆1/2.



THE BAND OF HEATHENS - Duende (2017)


Al quinto disco in studio (+ tre live), pubblicato dopo 4 anni dal precedente Sunday Morning Record, la band di Austin rappresenta sicuramente una delle migliori realtà country-rock degli ultimi anni. Come nei lavori precedenti la contaminazione, sempre più regola di grandi e piccoli autori, fa spazio al southern rock, funky-soul alla Sly and the Family Stone e perfino ad un pizzico di boogie. Indispensabile per chi ama il genere “Americana”, per chi apprezza Wilco e The Band e si sente orfano di Eagles e compagnia. Da ascoltare: Last Minute Man, Trouble Came Early. Voto: ☆☆☆1/2


martedì 7 marzo 2017

RHIANNON GIDDENS


RHIANNON GIDDENS (2017) Freedom Highway




Due anni fa, in occasione del bel debutto da solista della folksinger americana (l'album di covers Tomorrow Is My Turn), scrivevamo " resta l'interrogativo su quale siano le sue reali capacità di autrice, assodato che quelle da interprete sono notevoli". La risposta arriva pronta e sfiora il capolavoro. Secondo molti amici che non amano i suoni old time e per tutti gli hipsters del pianeta la musica composta ed interpretata da Rhiannon Giddens è "vecchia e scontata", quando invece è "antica e tradizionale". Dal folk dei pionieri al country dei coloni, dal blues del delta agli spirituals dei campi di cotone, dal jazz della Preservation Hall di New Orleans al ritmo in levare dei Caraibi, la nostra dà un saggio di rivisitazione delle radici americane, bianche e nere, con composizioni originali che resteranno nel tempo. "You can take my body, you can take my bones, you can take my blood, but not my soul" (At The Purchaser's Option). Per chi ama la musica eterna. Astenersi modaioli azzimati.
Voto Microby: 8.5
Preferite: Better Get It Right The First Time, Birmingham Sunday, At The Purchaser's Option



lunedì 6 marzo 2017

JENS LEKMAN, THE PROPER ORNAMENTS


JENS LEKMAN (2017) Life Will See You Now





Il cantautore popster di Goteborg ci aveva abituato bene: un indie-pop orecchiabile tra i più intelligenti in circolazione, testi ironici ed originali, misurato nelle uscite (l’attuale è il quarto album in 13 anni). Ma stavolta per la prima volta toppa: cade in piedi, ma cade. La scrittura è sempre di qualità, ma gli arrangiamenti scelgono un abito che calza a stento le melodie: ritmiche disco anni ’80, calypso, samba, sound buono per jingles o per le radio di 30 anni fa, che tuttavia abbandona la leggerezza indie ma catchy con cui lo svedese ci aveva deliziato in passato. Peccato: carino ma prescindibile.
Voto Microby: 6.5
Preferite: Hotwire The Ferris Wheel, How Can I Tell Him?, To Know Your Mission






PROPER ORNAMENTS (2017) Foxhole




Seconda uscita per la band londinese e subito la critica inglese li omaggia come “the next big thing”. Alle mie orecchie una bella ridimensionata sarebbe opportuna: qui siamo di fronte ad un morbido pop revivalista che sa di Byrds e Beach Boys sotto benzodiazepine, o di Cowboy Junkies più superficialmente pop, o di John Lennon pre-pennichella post-prandiale. Ma è triste (forse solo per me, autobiograficamente?) pensare che i suoni di mezzo secolo fa (forse non a caso i nostri introducono il lavoro con il brano migliore del lotto, guarda caso titolato “Back Pages”) siano applauditi come novità. Almeno i critici musicali la storia la dovrebbero conoscere.
Voto Microby: 6.8
Preferite: Back Pages, Memories, Bridge By A Tunnel



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