venerdì 22 settembre 2017

Recensioni al volo: Nick Heyward, Peter Perrett

NICK HEYWARD - Woodland Echoes (2017)

Trentasette anni dopo il primo lavoro con gli Haircut 100 e 18 anni dopo l’ultimo disco da solo, NH scrive ancora con la consueta semplicità rilassata, quasi bucolica. I suoi attuali riferimenti principali sono Badly Drown Boy, Roddy Frame e Paul McCartney (“Love is The Key to The sea”), Beautiful South e Crowded House, anche se, sia pur raramente, si spinge verso brani power pop ad influenza quasi indie modello XTC. Un buon album pop classico per questi primi pomeriggi di autunno. Da ascoltare: Love is the Key by the Sea, I Got a Lot, For Always. Voto: ☆☆☆1/2





PETER PERRETT - How the West Was Won (2017)

Disco del mese per Mojo, Uncut e Record Collector, è l’inatteso “comeback” di PP, già leader degli Only Ones, gruppo rock classico in auge tra la fine degli anni ’70 e l’alba degli anni ‘80, quando l’Inghilterra venne travolta da New Wave e Punk. Il gruppo era una specie di mix di Television, Velvet Underground e Replacements con accenni glam sul genere Mott The Hoople. 
Perrett ripropone le atmosfere sonore di quegli anni, mitigate nei loro istinti più eccessivi ma senza rinunciare ai toni melodrammatici e psichedelici alla Television o Soft Boys.

Il risultato è un disco molto interessante con predilezione verso la ballata rock con le sue tradizionali componenti: melodie, riff chitarristici, accelerazioni di ritmo, distorsioni vibranti. Sicuramente un disco fuori tempo ma che, come spesso accade, spazza via il concetto di “trend” musicale per farci ripensare alla qualità ed all’arte. Da ascoltare: Sweet Endeavour, How The West Was Won, Troika. Voto: ☆☆☆☆

martedì 19 settembre 2017

Sky Music: A tribute to Terje Rypdal (2017)



Il 23 agosto Terje Rypdal ha compiuto 70 anni, peraltro portati malissimo. Nel 2007, quando lo sentii suonare dal vivo per la terza e temo ultima volta, era già messo malissimo. Si esibì da seduto e un mio ex studente, che nel frattempo aveva trovato la sua strada come fotografo, mi disse che durante le prove, alle quali aveva potuto partecipare, non fece che tirar fuori dalla tasca della giacca una fiaschetta per berne compulsivamente il contenuto. La trasformazione fisica attribuibile all’alcol è evidentissima passando in rassegna le fotografie che lo ritraggono: il bel marcantonio degli anni ’70 ha lasciato il posto a un gigante imbolsito che si muove a fatica.
Proprio il 23 agosto la norvegese Rune Grammofon ha aggiunto al proprio notevole catalogo (Biosphere, Arve Henriksen, Food, Alog, Espen Eriksen) un tributo al titanico chitarrista e compositore norvegese,k dove a una band guidata dal tastierista Ståle Storløkken (con Rypdal in Vossabrygg e Crime Scene) e chiamata per l’occasione Sky Music (Skywards era il titolo di un disco del 1997) si aggiungono le performance soliste di Bill Frisell, Nels Cline e David Torn. Davanti a nomi del genere devono essere fatte subito due considerazioni: la prima è che la chitarra di Rypdal, con suo quel suono così liquido capace di vulcanizzazioni improvvise, ha una sua “voce” riconoscibilissima. Nonostante la straordinarietà delle sue composizioni, dunque, affidare brani come Ørnen, Avskjed e What comes after a musicisti dal suono altrettanto distinguibile e dalla personalità ciclopica significa tentare un’arditissima operazione. Mutatis mutandis, è come se Mozart si fosse messo a suonare Bach. La seconda considerazione è legata a ciò che è riuscita a fare la band Sky Music, affidando il ruolo centrale al chitarrismo muscolare di Raoul Björkenheim (già leader dei Krakatau, ma qualcuno lo ricorderà anche al fianco del compianto Edward Vesala in Lumi), che esaspera la dimensione metal delle composizioni di Rypdal. Quanto al repertorio, ricordando che la produzione del nostro si suddivide equamente tra un jazz-rock ad alto livello di contaminazione e partiture sinfoniche e orchestrali, è solo dal primo versante che viene selezionato (comprensibilmente e per dare coerenza all’intera operazione) il materiale suonato, con una netta predilezione per il Rypdal degli anni ’70, senza dubbio il decennio più creativo della sua carriera (il suo ultimo miracolo, a mio personalissimo giudizio, è il sinfonico Lux aeterna, vecchio ormai di tre lustri). È da quella straordinaria stagione che provengono brani come Over Birkerot, Silver Bird Heads For The Sun, What Comes After, Though Enough, Rolling Stone, Avskjed e Sunrise. Qualcosina viene anche lasciata alla creatività degli altri musicisti che partecipano al tributo, tra i quali spiccano i nomi di Jim O’Rourke, Henry Kaiser e del violoncellista Erik Friedlander. A loro e a tutti gli altri si deve un tributo comunque necessario a uno dei musicisti che più hanno contribuito a ridisegnare il concetto di musica jazz, dilatandone i confini verso territori inesplorati che hanno finito per fare scuola.

mercoledì 13 settembre 2017

SEAN ROWE, A.J. CROCE


SEAN ROWE (2017) New Lore



Il musicista e naturalista di origine newyorchese si è trasferito a Las Vegas dal suo eremitaggio silvestre per incidere il quinto album, ma per opposto le sue composizioni sono diventate più intime e scarne piuttosto che pop e mainstream. La sua voce “baritonasale” (un incrocio tra Barry White e Brad Roberts, cantante dei Crash Test Dummies) domina la scena, esaltata volutamente da arrangiamenti asciutti e strumenti sottratti piuttosto che aggiunti. Più coeso rispetto ai precedenti lavori (per alcuni inferiore proprio perché troppo monocromatico), ha senz’altro il difetto di proporre buone canzoni che faticano a decollare verso l’eccellenza, ma anche il pregio di uno stile immediatamente identificabile. Alla fine si tratta di un lodevole songwriting bianco screziato di soul, scritto ed eseguito più con la testa che col cuore, una versione semplificata ma efficace di Michael Kiwanuka, Van Morrison, Micah P. Hinson, Johnny Cash degli “American Recordings”, e che piacerà senz’altro a chi apprezza il genere ed i mèntori. Pur restando inferiore al suo “The Salesman and The Shark” del 2012.
Voto Microby: 7.7
Preferite: The Salmon, I Can't Make A Living From Holding You, Gas Station Rose
 


A.J. CROCE (2017) Just Like Medicine
Il figlio del compianto Jim è al nono album in studio dall’esordio a 22 anni nel 1993: non sarà quest’ultimo a decretarne il successo commerciale, mai sfiorato, ma ne confermerà la cifra stilistica, immutata negli anni ed apprezzata dallo zoccolo duro di fans. Nulla di originale, ma tutto pregevolmente tradizionale: l’amore per il soul di Ray Charles che impregna il songwriting da piano bar, a volte più bohèmien altre più jazzy, con chiare influenze del R’n’B di New Orleans, ma che oltre ad Allen Toussaint abbraccia l’anima di Van Morrison e l’ironia di Randy Newman, senza dimenticare la solarità californiana con la quale è cresciuto musicalmente (il Croce’s Restaurant and Jazz Bar nel Gaslamp Quarter di San Diego, di proprietà della vedova di Jim Croce, fino a pochi anni fa è stata una venue concertistica di culto per musicisti e turisti, dove Adrian James era ovviamente di casa). Just Like Medicine è qualitativamente una più che buona occasione per approcciarsi al nostro eroe.
Voto Microby: 7.7
Preferite: The Other Side of Love, Cures Like Just Medicine, Move On


sabato 2 settembre 2017

ALGIERS, STEVEN WILSON


ALGIERS (2017) The Underside of Power



Già sorprendende al debutto due anni orsono, il trio (ora quartetto) di polistrumentisti di passaporto misto UK/USA colpisce ulteriormente per la maturità raggiunta solo al sophomore album. La rabbia organizzata dei Clash di London Calling e le linee melodiche e ritmiche di quelli di Sandinista shakerate con l'elettronica del nuovo millennio e l'appeal radiofonico dei primi Bloc Party. L'evoluzione che questi ultimi e la Mark Lanegan Band non sono mai riusciti (finora) a completare: se ammettiamo, dolenti, che il rock inteso comunemente ha chiuso i battenti (passando a "genere" classico, non più contemporaneo) a fine anni '90, gli Algiers propongono quello che potrebbe essere considerato il rock dei tempi attuali, con liriche di allerta sociale supportate dal groove del rock'n'roll, l'urgenza del punk, la danzabilità black, l'attenzione ai beat elettronici e agli hooks radiofonici, senza perdere un grammo di aggressività (controllata). Un ascolto non facile ma che sorprende per potenza ed intelligenza. Da seguire attentamente (e possibilmente gustare in concerto, che si suppone infuocato).
Voto Microby: 8
Preferite: Cry of The Martyrs, M.me Rieux, Walk Like A Panther


STEVEN WILSON (2017) To The Bone

Un incipit alla "Time" di pinkfloydiana memoria (la titletrack) inganna il fan che si attende l'ennesima eccellente prova in stile prog, da parte dell'artista certamente guida assoluta nella riattualizzazione del genere progressive che tanto contrassegnò gli anni '70. In realtà, nonostante la dichiarazione dell'artista di aver voluto con il presente album omaggiare le sue influenze più pop anni '80 (Tears For Fears, Peter Gabriel, Kate Bush tra le altre), il risultato finale è un ibrido tra prog e pop-rock, pur pendendo verso quest'ultima sponda. Tolti un paio di episodi fuori contesto (il fuorviante singolo "Permanating", che ha fatto storcere il naso a molti fans storici, ed il poppettino di "Song of I" con Sophie Hunger ospite alla voce) l'album si fa comunque apprezzare per la consueta grande capacità di allestimento dei suoni e degli arrangiamenti, pur essendo meno ispirato del solito nella scrittura. Non una svolta (Wilson è da sempre camaleontico nella sua curiosità musicale) nè uno dei suoi lavori migliori (come sostenuto soprattutto dalla stampa americana), ma un disco di buone canzoni vestite con abiti meno eleganti e più aggressivi del solito, da parte di un fuoriclasse nella gestione dei suoni.
Voto Microby: 7.5
Preferite: Nowhere Now, To The Bone, The Same Asylum As Before


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