lunedì 31 dicembre 2018

TOM ODELL


TOM ODELL (2018) Jubilee Road
Un eccellente debutto nel 2013 a soli 22 anni rovinosamente compromesso da un sophomore album dozzinale (ma ben accolto da critica e mercato USA) facevano temere l’ennesima meteora. Invece il terzo lavoro del ventottenne inglese col DNA ricco di soul e le orecchie impreziosite dalla lezione di Coldplay, Leonard Cohen, Jeff Buckley ed Elton John non delude chi lo attendeva al varco con critica curiosità. Un passo di lato, anziché indietro, che avendo perso l’innocenza (ma anche l’ingenuità) degli esordi non lo allontana dal mainstream pur conservando l’ispirazione ed il grande senso melodico del primo album, e tra i maestri lo posiziona a metà strada tra l’Elton John di "Goodbye Yellow Brick Road" e l’appeal radiofonico soft-rock di Bruce Hornsby, tra il pianismo sincopato del primo e quello brillante del secondo. Pochi altri strumenti (oltre alla sezione ritmica, occasionali spunti di chitarra e fiati con funzione di sostegno e di sax con ruolo da solista) completano un suono nel complesso ricco ed a tratti, quando i cori si fanno pregnanti come da lezione gospel-soul, perfino enfatico. Non mancano quindi né testa, né anima né cuore ad un artista che temevamo seguisse il sentiero da "pop for the masses" di qualità come James Blunt, o che sposasse la causa dell’alternative R&B, molto cara al mercato americano. Avremmo perso un artista innamorato del pop-soul dei seventies in grado di ammaliare con la formula di allora i 50-60enni di oggi ma anche di far breccia nel cuore degli adolescenti non hip-hop dipendenti.
Voto Microby: 7.7
Preferite: Queen od Diamonds, If You Wanna Love Somebody, Jubilee Road

WEST FARGO


WEST FARGO (2018) Cose preziose

A due anni dal bell’esordio “Strade” (2016), in scia geografica e stilistica ai Timoria dei ’90, col difetto di essere fuori tempo massimo per essere apprezzato secondo il merito, la band camuna pubblica il secondo album dopo un rimpasto dei musicisti. Sostituiti infatti i già bravi Andrea Lo Furno (chitarra elettrica) e Luca Finazzi (batteria), il tasso tecnico acquista ulteriore solidità nel ritmo (Matteo Zelaschi) e qualità con la solista di Roberto Roncalli, ma anche maggior coesione e brillantezza con l’innesto delle tastiere di Pierluigi Capretti. Soprattutto gli ultimi due nuovi membri dell’attuale quintetto danno una forma più classic-rock (segnatamente seventies) ad uno scheletro che al debutto guardava più al rock chitarristico post-new wave dei ’90. La chitarra elettrica aumenta sensibilmente il tiro rock (a tratti d’impronta hard rock), mentre le tastiere vintage ammorbidiscono la trama con un tocco seventies che richiama il prog: ironia della sorte, il metaforico concept di “Strade” non aveva nulla di progressive, mentre il non-concept di “Cose preziose” ha più di un addentellato musicale (nei suoni, più che nella costruzione dei brani) a gruppi hard rock dei ’70 con influenze prog, come gli americani Kansas e Rush o, in patria, il comasco Biglietto per l’Inferno. Buona la disposizione melodica, d’impatto i riff di chitarra e trascinanti oltre che tecnicamente eccellenti gli assolo di Roncalli, al solito notevole ed emozionante l’estensione vocale di Davide Balzarini (che ha migliorato anche la qualità dei testi), ed da applausi l’artwork (di Nick Neim, al secolo Nicola Fedriga) ed il packaging in cartoncino con miniposter e liriche accluse. Poche purtroppo le speranze di fare breccia nel mercato discografico, allineato attualmente con altri generi e stili, nonostante l’utilizzo della lingua italiana (tanto che il gruppo ha in progetto un viraggio all’inglese, più adatto alla ricetta musicale). Dal vivo i nostri sono potenti e coinvolgenti, da non perdere in tale dimensione anche nei progetti collaterali (il bassista Domenico Ducoli è membro anche dei Ducolis, garage/punk’n’roll band di tutti Ducoli, tra i quali anche il musicista irregolare ben noto in valle Alessandro Ducoli, presente come ospite in "Cose preziose" in un brano --Il primo giorno senza te-- assai diverso dal contesto e che meglio sarebbe considerare come bonus track). Ma non trascurino l’ascolto gli appassionati di rock chitarristico italiano che parte dai ’70 ed arriva ai ’90.
Voto Microby: 7.5
Preferite: Il fuggitivo, Big Sandy Creek, Selene

giovedì 20 dicembre 2018

MUSE


MUSE (2018) Simulation Theory



Diciamolo subito: l’ottavo lavoro in studio del trio britannico è un bel disco. E’ vero che al primo ascolto quella di trovarsi davanti ad una kitcherie è molto più che un’impressione, ed al critico snob-rock quella di gettare il disco tra la paccottiglia risulta molto più che un’intenzione. Alcune caratteristiche nella scelta degli arrangiamenti appaiono in effetti (volutamente?) fuorvianti: la chitarra dobro di “Propaganda” non trasforma il brano in un blues, così come il clangore metallico dell’elettrica in “Break It To Me” non ne fa un manifesto industrial, e lo scratch nel medesimo brano non è un esempio di hip-hop, né la ritmica martellante di tutto l’album si sposa con il dance-floor (semmai si gemella con i Queen di “Radio Ga Ga”); ed è altrettanto sbagliato pensare che Simulation Theory sia un lavoro di progressive-rock solo perché è un concept-album (sulla realtà virtuale, la vita nel tempo dei social media, secondo i musicisti stessi “l’idea che la fantasia possa diventare realtà, che le simulazioni siano ormai parte della nostra vita quotidiana”, concetti in parte ispirati dalla serie TV “Black Mirror”). In realtà il fulcro dell’ultima fatica dei Muse è il synth-pop anni ‘80 creativamente sposato con il glam e l’epica melodrammatica che li contraddistingue, e shakerato con la passione prog (a braccetto con l’inalterata espressività visionaria della band) ed il recente flirt con l’elettronica che ha caratterizzato (in modo meno brillante) gli ultimi album. Il tutto condito con l’attrazione cinematica sci-fi che si può ricondurre alle colonne sonore del maestro John Carpenter e ad un’estetica che richiama sfacciatamente “Tron” e che manderà in sollucchero gli appassionati del genere, risultando invece una pacchianata per gli altri. Dimentichino i fans della prima ora le poderose asprezze chitarristiche e le ardite architetture ritmiche della band. La totale mancanza di ironia suggella un’opera che può apparire greve e che invece è, a mio parere, meritevole di assoluto rispetto perché Matthew Bellamy e sodali hanno dimostrato da sempre sincerità e non calcolo, talento e non solo (abilissimo) mestiere. Molti i singoli potenziali, al solito eccessivi ed insieme romantici, tra i più potenti ed incisivi usciti dalla penna della band del Devon, e ben coesi con un corpus che non è solo di sostegno. Anche per il sottoscritto, non esattamente un estimatore delle note sintetiche degli eighties, un ascolto piacevole e coinvolgente.
Voto Microby: 7.8
Preferite: The Dark Side, Get Up And Fight, Something Human

martedì 11 dicembre 2018

MUMFORD & SONS


MUMFORD & SONS (2018) Delta


Dopo il primo ascolto del quarto album della band londinese è stato forte l’impulso di riporre Marcus Mumford & sodali nell’ampia cartella degli “ex gruppi preferiti”. Ma qualche buona idea in fase di scrittura la si intuiva, e quantomeno non soffocata dagli arrangiamenti innodici e massificati del precedente, deludente “Wilder Mind” (2015). La curiosità ma soprattutto l’affetto e la stima per una band che con i primi due lavori aveva rivitalizzato con sapienza e passione l’incartato folk-rock inglese (che aveva beneficiato dei precedenti aggiornamenti ormai 30 anni addietro, con Moving Hearts prima e The Pogues dopo), in questo prendendosi per mano con gli altrettanto geniali Fleet Foxes, nel solco della tradizione sull’altra sponda dell’oceano, mi hanno convinto a riascoltare il disco, che da buon sleeper ora fatica a staccarsi dal mio lettore. Perché la penna è di ottima qualità, se si eccettua qualche scivolone (su tutti gli insipidi electronic-driven “Darkness Invisible” e “Picture You”, e la melassa di archi del secondo singolo “If I Say”, accompagnata dal non proprio ungarettiano verso “se dico che ti amo, allora ti amo” ribadito una trentina di volte, giusto per chi fosse in astinenza da Gigi D’Alessio) ed una regia che talvolta strizza l’occhio agli ultimi Coldplay ed Ed Sheeran. E soprattutto si apprezza, sebbene di strada da fare ne resti ancora parecchia, un progetto di fusione della musica folk con il pop-rock da arena degli anni ’80 (d’altronde è forse questa la musica pop-olare contemporanea) finora riuscito commercialmente a gruppi qualitativamente minori quali per esempio Of Monsters And Men, The Head And The Heart, The Lumineers. Non è la riuscita crasi tra la grande tradizione del folk anglo-scoto-irlandese col folk-rock americano operata dai Fairport Convention nei ’70, né col rock tout-court dei Moving Hearts e col punk dei Pogues negli ’80, ma a mio parere la strada imboccata è originale sebbene non proprio a fuoco. Non aiutano gli arrangiamenti promossi da Paul Epworth, già produttore di Adele, Paul McCartney, U2 e dei Coldplay nel poco riuscito “Ghost Stories” (2014), guarda caso caratterizzato dalla medesima mancanza di coesione e dalle incertezze formali (mascherate da intimità) di “Delta”. A tratti si ha in effetti la non piacevole sensazione che i Mumfords suonino come i Coldplay che cercano di suonare come gli U2. Omologati. Con la differenza da cercare nelle radici: folk, pop e rock rispettivamente, e nell’ispirazione del momento. Impietosa al riguardo la critica (ma i Mumfords sono da sempre più amati dal pubblico che dai giornalisti), sebbene ampiamente divisa con giudizi che vanno dal capolavoro alla stroncatura: “Delta is their best album yet, spiritual solace wrapped in secular anthems” (The Telegraph, UK: 10/10); “There is a pulse, but it’s soft and turned electronic. There is emotion, but it’s been intentionally encased in a digital cocoon, one that turns Delta into soft, shimmering background music” (AllMusic, USA: 2,5/5); “Delta brings back the banjo and the big choruses, but is doing too much of everything” (Spin, USA: 6/10). Complessivamente Metacritic assegna all’album un deludente 56/100, risultato della media di 14 recensioni. A mio giudizio troppo severe, forse in considerazione delle aspettative nei confronti di un gruppo che ha dimostrato finora di possedere ben più frecce all’arco rispetto alla media. Perchè a mio parere il prodotto finale è assolutamente piacevole all’ascolto, celebra le nozze discretamente riuscite tra il banjo e l’elettronica, come in ogni matrimonio ci fa assistere ad alcune cadute di tono ma anche a spunti ispirati, manca totalmente di sense of humour, nel contempo ribadendo la tendenza all’epica già propria del DNA dei nostri, e che assai verosimilmente si trasformerà in anthemica nelle arene, dimensione ormai acquisita e meritata come dimostrano i sistematici worldwide sold-out dei concerti del quartetto di Londra.
Voto Microby: 7.7
Preferite: Guiding Light, Woman, Slip Away

giovedì 6 dicembre 2018

THE MEN


THE MEN (2018) Drift

Chi conosce i The Men punk/hardcore degli esordi li dimentichi, così come chi li ha apprezzati nella versione blue collar rock/garage ’60 di Tomorrow’s Hits (2014). Conservi invece la chiosa della recensione di quell’album sul nostro blog: “tutto suona come una calda e riuscita dichiarazione d’amore al rock del passato”. Perché Mark Perro e sodali imbastiscono una sorta di compilation autografa dei disparati generi musicali che evidentemente hanno nelle corde. Così i nove brani in scaletta vestono nell’ordine gli abiti 1. Post-punk/No wave alla Gang of Four/James Chance 2. Pop alla 10CC/Todd Rundgren 3. Krautrock alla Gong 4. Folk-rock acido westcoastiano alla Hot Tuna/Jefferson Airplane 5. Acoustic ballad da Laurel Canyon 6. Proto-punk alla Stooges 7. Raga lisergici alla It’s A Beautiful Day 8. Psych-rock desertico tra Giant Sand e Friends of Dean Martinez 9. Cantautorato alla Tim Buckley. Confusi? La band di Brooklyn non sembra, perché la qualità media dei brani è davvero buona, e se manca la coesione (per nulla inseguita dal gruppo) si acquista in varietà: come le musicassette di autori vari che, tanto tempo fa e distanti dalla logica delle hits, registravamo per gli amici o per ascoltarle in auto. Chi è cresciuto musicalmente tra gli anni ’60 e gli ’80 apprezzerà.
Voto Microby: 7.5
Preferite: Rose On Top of The World, Secret Light, Killed Someone

lunedì 26 novembre 2018

ELVIS COSTELLO


ELVIS COSTELLO & The Imposters (2018) Look Now



Da almeno due decenni è quantomeno fuorviante considerare Elvis Costello (al secolo Declan Patrick MacManus, classe 1954) un artista pop-rock. Così come fuori luogo era stato classificarlo un riottoso rocker ad inizio carriera (già al secondo album apparivano risibili gli stickers in copertina che lo bollavano come punk, lui artisticamente più vicino a un Buddy Holly o perfino un Serge Gainsbourg che a icone punk come Joe Strummer e Johnny Rotten/Lydon). Il dipanarsi della carriera lo ha chiaramente consacrato come una delle più brillanti penne della canzone d'autore dell'ultimo mezzo secolo. Certo più imparentato con il pop di classe che con il rock, il jazz, la musica classica, persino l'operistica, tutti generi che pure l'inglese ha frequentato con interessanti ma mai indimenticabili risultati. Il fan che l'ha seguito con continuità (mi metto tra costoro) ha apprezzato un carniere di qualità mediamente buona, con alcuni capolavori ma anche una manciata di lavori trascurabili, sebbene mai banali. L'ascoltatore che si sia avvicinato solo occasionalmente all'artista non potrà ignorare almeno un capolavoro per decennio (This Year's Model-1978, Imperial Bedroom-1982, Painted From Memory-1998 con Burt Bacarach, The River In Reverse-2006 con Allen Toussaint), seppur diverso per ingredienti, ricetta, forma e palato. Chi l'avesse dimenticato nel nuovo millennio può provare a riscoprirlo con il nuovo album, il suo più miratamente "pop costelliano" da due decadi: ora come agli esordi assai lontano dai suoni di moda, e come allora votato all'evergreen per brillantezza di scrittura ed esecuzione (ora più pianistica ed orchestrale piuttosto che chitarristica come in gioventù). Chi non ha mai sopportato il suo timbro vocale rinolalico ed il suo vibrato da crooner/chansonnier (più dalle parti di Frank Sinatra che di Michael Bublè, per un doveroso distinguo) se ne starà alla larga anche ora. Eppure mentre il punk-rock è diventato storia, Elvis Costello la storia continua a scriverla.
Voto Microby: 8
Preferite: Under Lime, He's Given Me Things, Suspect My Tears

mercoledì 21 novembre 2018

THE MARCUS KING BAND


THE MARCUS KING BAND (2018) Carolina Confessions



Ci fosse stato il bisogno di una conferma, dopo la benedizione del sophomore album prodotto da Warren Haynes che aveva anche salutato l'allora ventenne chitarrista come proprio degno erede, questa arriva puntuale con un altrettanto valido terzo album. Prodotto stavolta da Dave Cobb che cerca di imbrigliare questo cavallo di razza, riuscendo a razionalizzare la forza d'urto e le molteplici influenze musicali convogliandole in un southern rock maggiormente centrato sul blues ed il soul (con il vescovo Solomon Burke ideale spiritual guidance), l'album trattiene le (belle ed originali per il genere) contaminazioni bianche ad alcuni passaggi ed arrangiamenti strumentali, lasciando che la band del ventiduenne rossocrinito e sovrappeso chitarrista le esprima in toto dal vivo (dimensione in cui si apprezzano il suono vintage e le derive jazz-rock alla Mahavishnu Orchestra, certi sentieri psichedelici alla Santana di Caravanserai, il tocco del tastierista DeShawn Alexander più che evocativo di Joe Zawinul, ed alcune soluzioni da orchestra zappiana; per non parlare degli assolo seventies dei musicisti). Sia in studio che sul palco il suono appare spesso troppo pieno, con eccesso di stratificazioni strumentali (soprattutto di fiati e cori), ma il peccato è veniale perchè si intuisce che non si tratta di coprire poche idee con sovrabbondanza di suoni, ma che il nostro ha molto da dire , ed entusiasmo ed età non lo aiutano nella sintesi. Voce e chitarra spettacolari, pieno possesso della tradizione musicale americana sia bianca che nera (in particolare sudista, ca va sans dire): non solo Marcus King è il migliore giovane chitarrista dai tempi dell'allora imberbe Derek Trucks (come ebbe a dire Warren Haynes), ma possiamo anche sostenere che Gregg Allman ha trovato il suo erede.
Voto Microby: 8.3
Preferite: Where I'm Headed, Confessions, Autumn Rains

domenica 18 novembre 2018

Recensioni al volo: Raul Midon, David Crosby


RAUL MIDON - If You Really Want (2018)

Polistrumentista/cantautore americano, cieco dalla nascita, il New York Times dice di lui : "a one-man band who turns a guitar into an orchestra and his voice into a chorus”.  Nato nel 1966 nel New Mexico, da genitori di origine afro-americana ed argentina, ha alle spalle collaborazioni con Stevie Wonder (che ha anche partecipato al suo disco del 2005 “State of Mind”), Herbie Hancock, India Aire, Jason Mraz e Marcus Miller. Le influenze messicane e sudamericane hanno preso il sopravvento, rendendo la sua musica una perfetta fusion di latin beat, jazz e R&B. In questo suo decimo lavoro è affiancato dalla Metropole Orchestra di Vince Mendoza, una specie di corazzata di ritmi latini con fiati a volontà ed energia illimitata. Un ottimo album per conoscerlo ed andare a ritroso nella sua carriera. Rimandi: Al Jarreau, Donny Hathaway, Stevie Wonder, Jose Feliciano. Da ascoltare: Everyone Deserves a Second Chance, Sunshine (I Can Fly), Ride on a Rainbow. Voto: 1/2



DAVID CROSBY - Here If You Listen (2018)

Tre dischi da solista tra il 1971 ed il 1993, ed ora quattro lavori in quattro anni.  Evidentemente l’ispirazione si deve essere accresciuta con l’età perchè a 77 anni suonati riesce ancora ad incantare con le sue armonie oniriche e i suoi accordi sincopati, che da sempre sono il suo marchio di fabbrica. Non mancano poi il suono della sua chitarra acustica e le meticolose parti vocali corali, con quella sensazione di continuo “déjà vu”. Anche un paio di brani riesumati dal passato (“1967” e “1974”) e la bellissima versione di Woodstock di Joni Mitchell (con la voce di Michelle Willis che ricorda proprio l’originale) sembrano volere piantare le radici della sua saggezza poetica verso un orizzonte fatto di brillantezza e speranza.  Da ascoltare: Your Own Ride, Woodstock. Voto:


venerdì 2 novembre 2018

ERIC CHURCH, AARON LEE TASJAN, LEON BRIDGES


ERIC CHURCH (2018) Desperate Man

A dispetto del titolo, il sesto album del cantautore del North Carolina non suona depresso, meno che meno disperato. Anzi la varietà degli stili affrontati, dal country al blues, dal rock alle soul ballads, e la precedente collaborazione con Ray Wylie Hubbard forniscono un’impronta vivace e decisa alle canzoni che, pur non reggendo il paragone con il suo capolavoro “Mr. Misunderstood” (2015), soddisferanno pienamente gli amanti dell’outlaw country così come del contemporary country. Anche in un lavoro buono ma non imprescindibile, il nostro si dimostra artista di serie A, meritevole di sedersi a fianco di Ryan Adams e Zac Brown.
Voto Microby: 7.7

Preferite: Heart Like A Wheel, Some of It, Desperate Man


AARON LEE TASJAN (2018) Karma For Cheap
Terzo album per il singer-songwriter e chitarrista dell’Ohio, sideman per numerose e musicalmente differenti bands (dai Drivin’n’Cryin’ alle New York Dolls), così come eclettica è la produzione personale: dal country-rock ad un blues contaminato, fino all’attuale pop-rock che guarda ugualmente agli anni ’60 come ai ’70, riuscendo a fondere il nucleo centrale beatlesiano tanto con Roy Orbison quanto con il David Bowie glam. Più complesso di quanto appaia al primo ascolto, ed in tal senso ricco di intelligenti sorprese, risulta alla fine piacevolmente demodè, ed a suo modo originale.
Voto Microby: 7.5
Preferite: If Not Now When, The Truth Is So Hard To Believe, Strange Shadows


LEON BRIDGES (2018) Good Thing

Sophomore album per il texano Todd Michael Bridges, dopo il successo commerciale di Coming Home nel 2015. E conferma di un talento soul che si nutre con umiltà della lezione melodica di Sam Cooke, attraversa con sicurezza il funk di Prince e si appropria con naturalezza del nu-soul di Frank Ocean. Con le doti per scoprire nuove vie per la musica black ma anche il fiuto per le classifiche di vendita. Vediamo che strada prenderà (al momento interlocutoria).

Voto Microby: 7.2
Preferite: Bad Bad News, Be Ain't Worth The Hand, If It Feels Good







mercoledì 24 ottobre 2018

JOHN WESLEY HARDING


JOHN WESLEY HARDING (2018) Greatest Other People's Hits

Wesley Stace, in arte John Wesley Harding ovviamente in onore di Bob Dylan, gode di stima unanime e trasversale di colleghi e critici qualunque branca della vita professionale affronti: romanziere, singer-songwriter, conduttore radiofonico, docente universitario, giornalista (per The New York Times e The Washington Post). Per quanto ci riguarda, la sua attività di cantautore ora più folk (con in mente Dylan) ora più pop (con Elvis Costello come stella polare) è sempre stata di buon/ottimo livello, e tale si conferma anche in questa semi-raccolta (molti brani non sono inediti) prevalentemente in studio e parzialmente dal vivo che propone diciassette covers di brani di autori più o meno noti interpretati dall’artista inglese (dell’East Sussex, ma di stanza negli USA) nel corso degli ultimi 25 anni. Curiosamente non fanno parte del lotto interpretazioni del suo idolo, Bob Dylan, mentre troviamo tra gli altri due brani ripresi da Bruce Springsteen (anche ospite in "Wreck On The Highway" dal vivo nel 1994), due da Lou Reed (che duetta col nostro in "Satellite of Love"), ma anche una splendida "Benedictus" degli Strawbs, un’asciutta e riuscita "Like A Prayer" di Madonna, e poi Pete Seeger, Phil Ochs, Serge Gainsbourg, Rocky Erickson, con l’unica "Wah Wah" di George Harrison un po’ sopra le righe. Il tutto è presentato con garbato trasporto, come da carattere del nostro, e con l’unica pecca di un’eccessiva eterogeneità di generi (dal folk al rock sixties, dal pop al soul, dal cantautorato urbano al country), quasi scontata in una tavolozza così variegata di autori ed epoche, e spalmata in un quarto di secolo di attività di JWH. Ma è questione di lana caprina, perché ogni brano tocca le corde corrispondenti a un tributo sincero.
Voto Microby: 7.8

Preferite: Benedictus, If You Have Ghosts, Jackson Cage

martedì 16 ottobre 2018

TREETOP FLYERS


TREETOP FLYERS (2018) Treetop Flyers

Emerso sul mercato musicale professionistico nel 2011, in qualità di vincitore del titolo di “emergent talent” al Glastonbury Festival, il quintetto londinese guidato dalla scrittura e dalla voce vellutata e spiccatamente soulful di Reid Morrison aveva già ricevuto il plauso del nostro blog con l’album d’esordio (The Mountain Moves, 2013). Ai tempi il loro folk-rock di genere decisamente “americana” faceva pensare alla California, e faceva scrivere al recensore “come se gli America incontrassero i Black Crowes con spruzzate di Alabama Shakes e Fleet Foxes”. Un sophomore album nel 2016 (Palomino, solo discreto soprattutto perché poco a fuoco, tra tentazioni pop, rock e soul poco risolte) faceva temere di aver già perso per strada l’ennesima band promettente. Invece eccoli tornare con prepotente qualità col nuovo, omonimo lavoro. What happens if you mix West Coast Americana, folk sensibilities, a soulful tenderness and a poppy sheen? The Treetop Flyers third album” (Clash Magazine). Totalmente calati tra gli anni ’60 ed i ’70, ad eccezione della lunga Art of Deception in cui sono debitori della psichedelia gentile del Laurel Canyon, per il resto della scaletta la stella polare è il Van Morrison dei primi ’70, con il folk-rock piegato ad un eccellente soul atemporale, in debito con l’irlandese ma anche con Otis Redding e, complice la voce, con Sam Cooke. In mezzo, e perfettamente amalgamate, ci stanno screziature Grateful Dead, Blodwyn Pig, Peter Green. Un album meno radio-friendly dei due che l’hanno preceduto, lontano dai brani pop orecchiabili che pure la band ha dimostrato di avere in carniere, ma di grande e morbidissima compattezza soul, dalla qualità evergreen che cresce con gli ascolti e rimarrà nel tempo.
Voto Microby: 8

Preferite: Needle, Sweet Greens & Blues, Kooky Clothes

giovedì 4 ottobre 2018

BIG RED MACHINE


BIG RED MACHINE (2018) Big Red Machine



Dobbiamo accettare, anche se tuttora pare siano in pochi a gioirne, che Bon Iver di "For Emma, Forever Ago" (2008) e The National di "Boxer" (2007) siano capitoli musicali archiviati. Il canadese Justin Vernon, aka Bon Iver, già nel precedente "22, A Million" (2016) aveva improvvisamente abbandonato il cantautorato acustico, intimo e bucolico in favore di un'elettronica straniante, ostica ai primi ascolti ma ricca di sfumature ed infine affascinante. I due gemelli Aaron e Bryce Dessner, anima dei newyorkesi The National, da qualche anno palesano interesse e tessono collaborazioni con artisti di musica elettronica, jazz, avantgarde e colonne sonore. Non era però scontato (anzi è stato del tutto casuale: l'incontro/confronto ad una kermesse musicale con la presenza di entrambi) che i due corpi musicali partorissero un lavoro collaborativo, sotto il nom de plume Big Red Machine. Album nettamente spostato sulle più recenti coordinate del barbuto cantautore canadese (sua d'altra parte la quasi totalità della scrittura, così come la voce, nel tipico falsetto e/o filtrata/distorta dal vocoder), ma cui la tessitura delle chitarre di Aaron Dessner dona profondità, mistero, fascino secondo (fatte le debite proporzioni) la lezione del Robert Fripp dei '70-'80. Andiamo al dunque: chi ha disprezzato (perchè tedioso) il Bon Iver elettronico non reggerà tre brani dell'album che sto recensendo; chi lo ha apprezzato amerà ancora di più i Big Red Machine, che ne rappresentano la naturale e migliore evoluzione: figli riconoscenti (ed ancora in parte acerbi ma dagli sviluppi promettenti) dei Radiohead meno commerciali, e nipoti ben educati dall'elettronica di Laurie Anderson, dalle sperimentazioni di Robert Fripp e Peter Gabriel, ma soprattutto dalle collaborazioni tra Brian Eno e David Byrne. Un lavoro a suo modo singolare e moderno, inadatto a chi alla musica chiede solo entertainment, ma nemmeno esclusivo piacere di critici snob e Pitchfork generation. Io lo trovo ipnotico, non ipnoinducente.

Voto Microby: 7.8

Preferite: Lyla, Forest Green, I Won't Run From It


lunedì 1 ottobre 2018

DEATH CAB FOR CUTIE, LUMP


DEATH CAB FOR CUTIE (2018) Thank You For Today

Nono album in vent’anni per la formazione americana guidata da Ben Gibbard, paradigma e vertice dell’indie-pop da serie televisiva per teenagers, e primo disco dalla dipartita di Chris Walla, il cui suono di chitarra limpido e vellutato da sempre caratterizza la band, e che pertanto viene riproposto più o meno fedelmente dalla coppia di sostituti Dave Depper/Zac Rae. Il risultato è leggermente migliore del precedente Kintsugi (2015), ma assai lontano dalle vette del passato (su tutti Transatlanticism del 2003 e Plans del 2005): l’impressione è che ormai i DCFC siano schiavi del marchio di fabbrica che li contraddistingue (“trying so hard to play it cool” canta Gibbard in “60 & Punk”) e non riescano più ad andare oltre la carezzevole nostalgia esistenziale che non è mai stata nè realmente dark né semplicemente pop. Oggi sembrano un mix elegante tra i Fleetwood Mac anni ’80 e una versione pacata e malinconica dei Placebo (complice la voce nasale di Gibbard), quasi da “emo” il giorno di festa (per modo di dire...). Piacevole ma poco vitale.
Voto Microby: 7.3

Preferite: Your Hurricane, 60 & Punk, Northern Lights

LUMP (2018) LUMP

Come recita il brano di chiusura dell’album, LUMP è il prodotto della collaborazione della fuoriclasse inglese Laura Marling (che dona testi e canto) con il polistrumentista Mike Lindsay degli albionici Tunng (che contribuisce con la scrittura della musica e la sua realizzazione). Il risultato, tra l’humus folk della Marling e le tentazioni sperimentali dei Tunng, è pura folk-tronica (se se ne vuole un esempio), o elettronica bucolica ed eterea. Dal duo ci si poteva tuttavia aspettare più coraggio e maggiore qualità, perché LUMP resta a metà del guado senza indicare nuove vie di espressione musicale né brillare per scrittura ed esecuzione. Non è dato sapere se il progetto resterà isolato. Vi fosse un seguito, avrebbe senso se baciato da maggiore ispirazione. Sul medesimo genere, meglio piuttosto godersi il recente debutto dei Big Red Machine, altra e ben più riuscita collaborazione (tra Justin Vernon aka Bon Iver e Aaron Dessner dei The National).
Voto Microby: 7.2
Preferite: Curse of The Contemporary, Late To The Flight
 



venerdì 21 settembre 2018

UMPHREY'S McGEE


UMPHREY'S McGEE (2018) It's Not Us

Pressochè sconosciuto da noi (anche per me si tratta del primo album che ascolto) il gruppo formatosi a Notre Dame, Indiana, ed attivo a Chicago è ben noto nel circuito delle jam bands statunitensi, nonostante i musicisti dichiarino le maggiori influenze musicali in ambito progressive, segnatamente quello inglese di King Crimson, Yes e Pink Floyd, e nel pop-rock classico di Beatles, Led Zeppelin e Police (sempre british). L’ascolto di It’s Not Us, loro ventesimo album tra studio e live (l’esordio discografico di quello che attualmente è un sestetto risale al 1998) non pare proprio confermare quanto scritto: è certo vero che questa strana band già bizzarra nel nome (che deriva dal cugino del chitarrista Brendan Bayliss) pare un mostro partorito dalla crasi di due generi, il prog e la jam band, improbabilmente accostabili (il minimo, ma proprio minimo, comun denominatore sta nelle lunghe digressioni strumentali, tuttavia certosinamente architettate nel prog ed invece frutto dell’improvvisazione figlia del blues-jazz nelle jam bands). Ma di britannico non trovo proprio nulla: il prog è casomai derivativo di quello americano a firma Journey, Kansas, Rush, e il predominante suono da jam band è altrettanto a stelle e strisce, più versante Phish e Spin Doctors (shakerati con i Gov’t Mule più funk-rock e solide radici zappiane) che Grateful Dead/Allman Brothers Band. Dato per scontato che la perizia tecnica sia imprescindibile nei due generi (ed è da applauso anche quella degli Umphrey’s McGee, con nota di merito per batteria e chitarra elettrica), il disco piace a seconda di cosa si intenda ascoltare: se qualcosa di nuovo, l’invito è di rivolgersi altrove; ma se si è appassionati dei generi citati o irriducibili nostalgici dei suoni seventies, l’album offre parecchi spunti di interesse e permette di proiettare la mente e le orecchie verso fantasie “live” desuete ma di grande coinvolgimento emotivo (come ha insegnato appunto il fenomeno delle jam bands). PS: è di questi giorni la pubblicazione dell’album “It’s You”, dalla band dichiarata prosecuzione logica (anche nel titolo) del presente lavoro.
Voto Microby: 7.5

Preferite: Speak Up, You & You Alone, Remind Me

mercoledì 12 settembre 2018

THE MAGPIE SALUTE, THE CORAL


THE MAGPIE SALUTE (2018) High Water I

L’eredità dei Black Crowes si mantiene viva, dopo lo scioglimento ufficiale della band di Atlanta nel 2015, grazie all’eccellente attività prima solistica e poi con The Magpie Salute del chitarrista Rich Robinson, dal momento che il fratello Chris ha preso la strada della psichedelia a stelle e strisce ’60-’70 con i suoi Chris Robinson Brotherhood. Il punto debole del nuovo percorso, cioè la mancanza di un lead vocalist all’altezza di Chris, è stato egregiamente risolto con l’attuale ingresso nella band (che oltre a Rich conta altri due ex corvi neri, il chitarrista Marc Ford ed il bassista Sven Pipien) dell’inglese John Hogg, di scuola rock e timbro tra Robert Plant e Rod Stewart. Complice l’impronta vocale, la potenza Led Zeppelin e la libertà di esecuzione identificano Led Zeppelin e Rolling Stones come le due influenze predominanti del secondo lavoro dei MS, cui il background southern soul-blues dona il caldo accento americano tipico dei Black Crowes. Il lavoro, cui la specifica “I” presuppone un secondo capitolo probabilmente disponibile il prossimo anno, è tuttavia di buona ma non eccellente qualità, dal momento che nonostante l’ottima esecuzione e la varietà stilistica la scrittura era preferibile nei precedenti sforzi di Rich Robinson & Co, e seppur privo di punti deboli High Water I risulta altrettanto latitante di canzoni memorabili.
Voto Microby: 7.5

Preferite: Color Blind, Send Me An Omen, Walk On Water

THE CORAL (2018) Move Through The Dawn

Probabilmente complice la produzione di Jeff Lynne, l’originale pop-rock psichedelico sixties-oriented della band di Liverpool, nel precedente capitolo compattato in un rock chitarristico piuttosto lontano dal loro marchio di fabbrica, si ammorbidisce ora con suoni di tastiere vintage ed armonie vocali curate, tanto da ricordare a volte The Monkees/The Beach Boys, altre America/Traveling Wilburys, altre ancora Inspiral Carpets/The Charlatans, senza perdere in omogeneità, ma anche senza la brillantezza degli album migliori. Una conferma per chi li conosce, non un suono nuovo per chi li approcciasse per la prima volta.
Voto Microby: 7.5
Preferite: Sweat Release, Eyes Like Pearls, Love Or Solution



giovedì 30 agosto 2018

TONY MOLINA, DAWES


TONY MOLINA (2018) Kill The Lights

Si può riuscire a galleggiare nel mercato discografico pubblicando un album di 10 canzoni per un totale di 14’26”, dopo uno iato di 5 anni dal debutto (ovviamente in linea: 12 brani per una durata totale di 11’20”)? Difficile dal punto di vista economico, perché da quello artistico il californiano Tony Molina conquista per la seconda volta l’attenzione della critica con dieci caramelle di power-pop acustico (altra singolarità visto i trascorsi in varie hardcore bands) in bilico tra Byrds, John Lennon, La’s e Teenage Fanclub, ma con disposizione indie lo-fi e durata conformi a dei Guided By Voices da record: eppure in 1’30” di durata media dei brani il nostro riesce a farci stare strofa, ritornello, assolo e chiusura. Bozzetti a loro modo curati, più che demo, con idee e senso della melodia che altri svilupperebbero almeno per 3’-4’ minuti canonici: ma evidentemente a Molina interessa più aderire all’essenza della composizione artistica. Gli orpelli li lascia al mercato. Una sorta di nouvelle cuisine pop che pesca a piene mani tra gli anni ’60 e i ’90. Non solo curioso. Valido.
Voto Microby: 7.7
Preferite: Nothing I Can Say, Jasper’s Theme, Now That She’s Gone


DAWES (2018) Passwords
Può lasciare perplessi la metamorfosi musicale della band di North Hills, CA, dall’iniziale folk-rock rootsy con forti influenze westcoastiane al viraggio verso il soft-rock sempre di impronta californiana (culminato nel comunque pregevole All Your Favorite Bands del 2015), all’attuale soft-pop/easy listening datato ’70-’80 che, con melodie orecchiabili e zuccherine, le voci modulate, la sezione ritmica in punta di piedi, le chitarre ed il pianoforte a citare l’Eric Clapton ed il Bruce Hornsby più nazionalpopolari, gli archi melliflui, ricorda un frullato dei più melodici Air Supply, Foreigner e Fleetwood Mac. Peccato per gli arrangiamenti, perché le qualità compositive sono immutate ed i testi del leader Taylor Goldsmith sono sempre intelligenti e poetici, purtroppo stemperati dalla melassa. Partiti con in testa The Band e C.S.&N., ora i Dawes sono pericolosamente vicini a Christopher Cross, ai cui fans piacerà molto questo ultimo loro sforzo.
Voto Microby: 7
Preferite: Crack The Case, Living In The Future, Time Flies Either Way



venerdì 24 agosto 2018

Recensioni al volo: David Myhr, Bird Streets

DAVID MYHR - Lucky Day (2018)

Ennesimo cantautore della sempre più interessante scena svedese, DM, docente della scuola di musica dell’Università della sua città, è un vero e proprio maestro di retrò-pop con quel piano sempre creativo e quel sound semiacustico, morbido e melodico al punto giusto. Nel 2012 aveva pubblicato Soundshine, primo album da solista dopo aver lavorato quasi 20 anni con i Merrymakers, e universalmente indicato come uno dei migliori album power pop dell’anno (quell’album era il prodotto della sua tesi di dottorato!). Con questo album, registrato a Nashville (e si sente), DM conferma la sua grande capacità di compositore ed arrangiatore: chitarre acustiche, armoniche a bocca, mandolini, pedal steel, accordi jazzati, armonie Beatlesiane dai colori freschi e vivaci, quasi fosse alla perenne ricerca della canzone pop perfetta. Richiami: Roddy Frame (Atzec Camera), Jeff Lynne (ELO), Gerry Rafferty, Chris Difford (Squeeze), 10cc, George Harrison (del periodo dei Traveling Wilburys). Da ascoltare: Jealous Sun, Every Day It Rains, The Only Thing I Really Need is You. Voto: 1/2


BIRD STREETS - Bird streets (2018) 

Restando sul genere power pop, il songwriter John Brodeur è uno dei più interessanti esponenti della scena indie-rock di New York. Il suo primo lavoro, Tiger Pop del 2000, ispirato ai lavori degli XTC, l’ha fatto introdurre nel giro indie della East Coast ed è stato seguito poi da album dall’impronta più lo-fi nel 2009 (Get Through) e nel 2013 (Little Hopes). In questo suo progetto, affiancato da Jason Falkner (più noto come chitarra solista e polistrumentista della band di Beck ma anche come co-produttore di Paul McCartney e Noel Gallagher), John Brodeur vira verso un power-pop introspettivo, ricco di citazioni classiche senza essere stucchevolmente nostalgico. Come afferma egli stesso il disco “ is a product of a new yorker trying to write California songs”. Disco molto interessante per un autore di sicura prospettiva.
Richiami: Cake, Phish, Steely Dan, Joe Pernice, REM.

Da ascoltare: Betting On the Sun, Stop To Breathe, Heal.  Voto:

martedì 21 agosto 2018

JIM JAMES


JIM JAMES (2018) Uniform Distortion

Discontinuo, disomogeneo, disturbante, dispersivo, disarmante, distimico: tutto quello che significa il prefisso dis- rappresenta bene il musicista leader dal 1998 dei My Morning Jacket (di cui ascoltare almeno “Z” del 2005), dal 2013 titolare di una carriera in proprio dalla qualità ovviamente disordinata, e da sempre di una pletora delle più svariate collaborazioni. Con i MMJ ha suonato americana, pop, psichedelia, alt-country, jazz, rock, elettronica, soul mistico dalle influenze orientali. Non da meno da solista, migrando dal cantautorato acustico stripped-down all’elettronica spirituale, dalle sperimentazioni musicali al più frequente lo-fi indie rock, con l’unico comun denominatore di una propensione, nei testi e nell’espressione musicale, per la filosofia e la metafisica. In tal senso la migliore espressione artistica (ma la critica è ferocemente dis-cordante) risiede nell’eccellente “Regions of Light and Sound of God” del 2013. Ma l’artista di Louisville ha sempre dimostrato di possedere le scintille del genio. Che finalmente si palesano con continuità in undici canzoni, quelle che compongono il quarto album da solista, sporche e cattive, in un rock chitarristico che “touches on everyone from Elvis Presley to Dinosaur Jr.” (AllMusic). Vi si possono trovare riferimenti al garage-Velvet Underground dei ’60, al punk-pop dei Ramones nei ’70, allo psych-rock degli ’80 ed al grunge più immediato dei ’90; ma le chitarre grattugiate e distorte, il trionfo di piatti ed il finto disordine rimandano d’istinto al Neil Young elettrico servito dai Crazy Horse. Si palpa convinzione, si respira passione, si intuisce la ricerca rabbiosa di una via d’uscita per le elucubrazioni mentali e i sentimenti connessi. Un album che cresce molto con gli ascolti, da consigliare a chi ama il rock, classico e trasversale. “I’m either behind the times / or ahead of the times / or maybe I’m just out of time” (Out of Time). Ci mancava il disorientato.
Voto Microby: 8.3

Preferite: All In Your Head, No Use Waiting, You Get To Rome

sabato 18 agosto 2018

In ricordo di Claudio Lolli

E così anche Claudio Lolli ci ha lasciati. Dopo i titani della canzone d’autore – da Battisti, fino a Pino Daniele, passando per De André, Gaber, Dalla, Jannacci (ma vorrei ricordare anche Gianmaria Testa) – anche lui, cantautore defilato, poco disposto a mettersi sotto i riflettori con la posa da maître à penser, mai sopra le righe, ha messo il suo sigillo su una stagione irripetibile per la canzone italiana. Lui che era meno noto, che ingaggiò estenuanti bracci di ferro con le case discografiche per poter ottenere il prezzo imposto sui suoi dischi, che non andava in televisione, che ha fatto della coerenza un abito a misura di esistenza, se ne va in punta di piedi, come ha vissuto nella sua Bologna. Se n’è andato ad Agosto, quando “si muore di caldo e di sudore. Si muore ancora di guerra non certo d'amore”, proprio nei giorni del dramma di Genova, in cui risuona ancora attualissima la frase “si muore di stragi più o meno di stato”, all’epoca riferita a quella dell’Italicus.
Ho avuto la fortuna di conoscerlo presto e di ascoltarlo, la prima di 10 volte, a Rimini, nel 1980, quando avevo 16 anni e ancora non avevo capito che Luigi Nono era un compositore (peraltro suocero di Nanni Moretti) e non si scriveva Luigi IX, come il re di Francia vissuto nel XIII secolo. Ci andai con Nonno e fu un’epifania fatta dei suoni jazzati di “Extranei” e delle riletture dei suoi brani più noti, dall’immancabile “Borghesia” agli “Zingari Felici”, passando per quel capolavoro inarrivabile che è “Disoccupate le strade dai sogni”, al quale Mario Bonanno ha recentemente dedicato un libro, “È vero che il giorno sapeva di sporco”. Per Lolli gli anni ’80 furono l’inizio dell’irriducibilità dei suoi testi esistenzialisti allo spirito del tempo, segnato da forme sempre più spinte di edonismo e disimpegno anche in campo musicale: un’interminabile stagione di riflusso che avrebbe portato ad abbandonare le piazze e a disoccupare le strade dai sogni. Se ne rese bene conto, Lolli, quando – come ha raccontato in diverse occasioni durante i suoi spettacoli dal vivo – in Puglia si trovò a suonare in un locale di infimo livello davanti a una decina di spettatori. Fu la molla per capire che in Italia la canzone d’autore stava andando da tutt’altra parte e che lui, immergente e inadatto a un panorama svogliato e involuto, avrebbe fatto meglio tornare a fare il professore al liceo di Bologna. Amatissimo dagli studenti, come testimoniano i ragazzi intervistati fuori dalla scuola dove insegnava nel pregnante e imperdibile documentario di Salvo Manzone, “Salvarsi la vita con la musica”. Non a caso, tra il primo concerto visto e il nuovo millennio potei seguirlo in poche occasioni e in luoghi che erano più una fucina per musicisti underground che non palcoscenici per autori di acclarata fama, dal Villaggio Globale a Borghetto Flaminio fino a quello nei giardini di Castel Sant’Angelo, dove gli spettatori erano talmente pochi che potevi starlo a sentire a un paio di metri dal microfono. Anche la produzione discografica si era ormai rarefatta: il disco del 1983 “Antipatici antipodi” (con copertina di Andrea Pazienza) non è mai stato ristampato su CD (come, del resto, il precedente “Extranei”) e per gli interi gli anni ’90 realizzò un solo disco di inediti (“Intermittenze del cuore”) più qualche tocco di vernissage a vecchi successi del passato, ma nulla di più. Le sue collaborazioni con i concittadini Lucio Dalla per “L’Eliogabalo” e Guccini per “Keaton” cominciavano a somigliare sempre più a vecchie foto ingiallite. Il suo modo di cantare, nonostante una voce bellissima, senza inflessioni, cristallina, posata e profonda, si era trasformato in un recitar cantando, i testi erano declamati senza sforzo mnemonico, attingendo alle lettura su quadernini e libriccini stropicciati. È in questa veste consolidata che si presentò anche nella libreria MelBookstore nel 2003, quando – a fianco dell’autore Jonathan Giustini – lo ascoltai in occasione del lancio del volume biografico “La terra, la luna e l'abbondanza”, supportato dal Parto delle Nuvole Pesanti, l’ensemble di ragazzi calabresi col quale propose una versione aggiornata di “Ho visto anche degli zingari felici”.
Sono sempre stato così innamorato della musica e delle parole di Lolli che nel 2006, a ridosso di un suo concerto all’Alpheus, organizzai una “serata Lolli” a casa mia, insieme al Nonno, Anna, Elisabetta, Achille, Stefania e Riccardo Rigato, tra memorabilia, reperti archeologici da vecchi giornali e riviste nonché la visione del dvd acquistato in occasione di quel concerto. Dalle foto scattate durante quella serata partì casualmente anche la mia collaborazione – durata meno di un paio d’anni – con le Brigate Lolli, il principale sito italiano dedicato al cantautorato, per il quale cominciai a scrivere recensioni di concerti.
Da lì a poco a Lolli sarebbe stata riconosciuta la statura che gli spettava: quella di un Maestro assoluto della canzone italiana, al punto che nel 2013 i suoi fan si diedero appuntamento – organizzato grazie alla macchina dei social – a Monterotondo, nella splendida cornice di Palazzo Orsini, in occasione del Raduno Nazionale Lolli (sic!). Nella circostanza lo accompagnarono sul palco, oltre al fido Paolo Capodacqua (uno che si diplomò in chitarra classica al conservatorio di Sulmona, presentando dei brani riarrangiati di Lolli e che per questa via entrò nella sua orbita), Danilo Tomasetta e Roberto Soldati: entrambi colonne portanti della band degli “Zingari felici”, il secondo diventato, nel frattempo, ordinario di fisica all’università di Bologna.
L’ultima volta che lo vidi fu quattro anni fa, all’Auditorium, dove presentò un’antologia delle sue canzoni d’amore (tempo prima aveva pubblicato “Lovesongs”). Fu l’unica volta in cui lo ascoltai da solo.
Infine, quando il mercato discografico era ormai al collasso, partecipai con fierezza al crowdfounding per realizzare il suo ultimo disco, quel “Grande freddo” che, a chi aveva versato qualche soldino in più, al momento della pubblicazione giunse accompagnato da un concerto registrato a Bologna nel 2014, altrimenti irreperibile. Il disco vinse poi anche il premio Tenco come miglior album dell’anno.
Mi mancheranno moltissimo le parole di Claudio, anche quelle in prosa di libri vibranti e cariche d’amore come in “Lettere matrimoniali”. Così come mi mancherà la sua ironia, quella che durante i concerti bilanciava ampiamente la malinconia che trapelava da canzoni e album di cui basterebbe ricordare qualche titolo: “Un uomo in crisi (canzoni di morte, canzoni di vita)”, “Canzoni di rabbia”, “Quando la morte avrà”, “Angoscia metropolitana”, “La morte della mosca”. Ciao Claudio. Grazie per tutto ciò che mi hai regalato negli ultimi 40 anni. E per esserti sempre seduto dalla parte del torto.

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