sabato 31 marzo 2018

Recensioni al volo: David Byrne, Buffalo Tom

DAVID BYRNE - American Utopia (2018)

I dischi di David Byrne si accolgono sempre con grande eccitazione: in questi 15 anni trascorsi prima di averne uno a suo esclusivo nome, DB ha collaborato con Fatboy Slim e St. Vincent, ha realizzato colonne sonore, ha curato mostre di arte contemporanea, ha scritto libri. Comprensibile quindi l’attesa spasmodica di questo ultimo lavoro, parte di un progetto multimediale più ampio (intitolato Reasons to be Cheerful, vedasi su youtube), che mira a infondere felicità ed ottimismo nonostante i conflitti ed i problemi ambientali nel mondo. Per fare questo DB si affida alla sua storia ed alla sua tradizionale qualità compositiva, senza azzardare alla sperimentazione tout-court, ma appoggiandosi sulle certezze del suo partner fidato Brian Eno (ma anche all’innovazione di Sampha). Elettronica e funk, musica etnica e cantato schizofrenico alla Remain in Light, wave ed un pizzico di rock. Insomma un David Byrne al 100%. Da ascoltare: It's Not Dark Up Here, Gasoline and Dirty Sheets, Doing the Right Thing. Voto: 1/2



BUFFALO TOM - Quiet and Peace (2018)

I Buffalo Tom nascono sul finire degli anni ’80, quando tre ragazzi di Boston (Bill Janovitz alla chitarra, Tom Maginnis alla batteria e Chris Colbourn al basso), ispirandosi al rock alternativo del momento (Husker Du, Pixies, Dinosaur Jr, ecc.) virano verso tematiche di “americana”, sicuramente di più interessante impatto musicale.  Da questo punto di vista il loro terzo album “let Me Come Over” del 1992 rappresenta probabilmente il loro miglior momento artistico. La band non si distingue di certo per intensa produttività ed alterna lavori ad intervalli decisamente prolungati: a 7 anni dal precedente “Skins”, Bill Janovitz, dopo esperienze da solista intervallate da attività di agente immobiliare (!) si riunisce con la band e produce questo delizioso lavoro in cui si alternano i ritmi vibranti impreziositi da riff chitarristici, alla J. Mascis dei Dinosaur Jr, a ballate dolcissime che ricordano i Counting Crows o i Gin Blossoms. Insomma, pur essendo in giro da una trentina d’anni, i Buffalo Tom riesco sempre a fare ottimi dischi, con musica godibile e graffiante.  Da ascoltare: Freckles, Least That We Can Do, Lonely Fast and Deep. Voto:


martedì 27 marzo 2018

JOHN OATES


JOHN OATES (2018) Arkansas
Hall & Oates hanno rappresentato il duo di maggior successo di tutti i tempi (sì, più degli Everly Brothers e perfino di Simon & Garfunkel), con una carriera iniziata nel 1972 che ha richiesto tanto lavoro a supporto dell’indubbio talento, e che attraverso aggiustamenti progressivi di stile li ha consacrati negli anni ‘80 come superstars negli USA e stars in Europa (un po’ meno in Italia) in ambito pop. Ma la vocazione e la voce di Daryl Hall sono sempre state blue eyed soul, laddove John Oates ha sempre avuto radici folk. Ma quale sorpresa nello scoprire con quale abilità il quasi settantenne Oates si è calato nella rivisitazione di brani country blues americani degli anni ’20 e ’30 (soprattutto a firma Mississippi John Hurt e Jimmie Rodgers) e nella scrittura/interpretazione di brani autografi in stile, che non pagano pegno nei confronti dei più illustri antecedenti! Una voce calda, saggia e grattugiata, come era successo invecchiando al Johnny Cash degli American Recordings, e un lotto di eccellenti musicisti del settore (The Good Road Band) trasformano 10 canzoni in altrettanti gioiellini elettroacustici di blues, gospel, folk, bluegrass, spesso con più stili ben amalgamati nel medesimo brano. Siamo vicini al Ry Cooder degli anni ’70, e lontanissimi dal pop mainstream di Private Eyes. Intervistato circa lo stile musicale di Arkansas, lo stesso Oates ha dichiarato: “ ''it's like Dixieland dipped in bluegrass and salted with Delta blues.'' A differenza di Simon & Garfunkel (trainata dal piccolino), la coppia Hall & Oates funziona molto bene anche in singolo (recuperare Sacred Songs, capolavoro pop del 1980 a firma Daryl Hall ma con la fondamentale collaborazione di Robert Fripp, e Mississippi Mile, gemma blues/folk/R&B del 2011 a firma del bentornato John Oates).
Voto Microby: 8
Preferite: Arkansas, Dig Back Deep, Pallet Soft and Low

mercoledì 21 marzo 2018

SUPERORGANISM


SUPERORGANISM (2018) Superorganism



Quattro neozelandesi, due inglesi, un sudcoreano ed una giapponese residente per studio nel Maine… no, non è una barzelletta, ma il modo di fare musica dei millennials, nell’era degli smarthphone e dei social: all’atto della fondazione del superorganismo gli unici a conoscersi nella real life erano i quattro membri della band indie rock neozelandese (sconosciuta ai più) Eversons; contattati on line dalla diciassettenne Orono Noguchi, cantante dalla voce anodicamente intrigante, inizia il rapporto epistolare 3.0 tra loro e gli altri membri conosciuti scambiandosi files musicali in rete, in modo da approntare canzoncine costituite da un collage di beats elettronici, melodie pop da jingle pubblicitario, ritmi hip-hop e sospensioni trip-hop, samples accattivanti, bassi gommosi ed elementari note di tastiere orecchiabili e chitarre appiccicose. Il tutto suona curioso, divertente e malinconico come può esserlo l’adolescenza tutta, ed insieme cinicamente ingenuo (si perdoni l’ossimoro) come può esserlo l’adolescenza nel terzo millennio. I suoni sono ben confezionati, brillanti e non pacchiani (sensazione invece suscitata al primo ascolto), certamente frutto dei tempi perché la storia che sta dietro rischia di far scivolare in secondo piano il risultato finale, suggerendo (ma è un male?) che chiunque può fare musica. Con i dovuti distinguo, a me la band attualmente a sede in Inghilterra ricorda i Tom Tom Club, costola effimera e giocherellona dei Talking Heads negli ’80, ed in parte i Public Service Broadcasting, dèditi ad una vagamente simile procedura lavorativa (che resta tuttavia nell’ambito del synth-pop). Al di là di ogni giudizio socio-filosofico, Superorganism (band ed album) esprime assolutamente la musica popular dei tempi attuali, impermeabile ad una classificazione stretta perché aperta a qualsiasi stimolo (sebbene il genere “pop” sia preponderante), che sia o meno costruito in laboratorio, poco importa. Unico trait d’union tra le rockstars della mia adolescenza e le stars 3.0 degli attuali teenagers è nell’esplicativo titolo del brano migliore del lotto, il bizzarro electro-reggae “Everybody Wants To Be Famous”... Io continuo a preferire “Stairway To Heaven”, ma un ascolto anche distratto alla musica assemblata (ribadisco: assemblata) dai nostri figli è doveroso ed a tratti pure piacevole.
Voto Microby: 7
Preferite: Everybody Wants To Be Famous, It’s All Good, Something For Your M.I.N.D.

domenica 18 marzo 2018

Recensioni al volo: Sarah Blasko, Grant-Lee Philips

SARAH BLASKO - Depth of Field (2018)
Cantautrice australiana al 6° lavoro (il debutto risale al 2004), è una delle più interessanti esponenti femminili della synth-pop moderna, sia pur contaminata da sconfinamenti verso un più melodico chamber-pop. La sua voce forte e fragile insieme, gli arrangiamenti minimalisti con ombrosi contrappunti elettro-beat e gli inserti di corni e sezioni d’archi conferiscono un clima complessivo originale ed elegante. Nonostante drum-machine e sintetizzatori, l’album appare ricco e colorato anche se sicuramente introspettivo, con influenze tra Joni Mitchell e Sophie Ellis-Bextor, PJ Harvey e Anna Calvi, Florence & The Machine e Nicole Atkins. Da ascoltare: A Shot, Heaven Sent, Everybody Wants to Sin. Voto:



GRANT LEE-PHILlIPS - Widdershins (2018)

Talento della alternative rock americana, è stato prima nella band Grant Lee Buffalo e da qualche tempo solista in grande spolvero e ispirazione. Californiano, ma nativo americano Cherokee, GLB ha prodotto l’ennesimo disco (il suo nono da singolo) ricco di forza sonora ed emotiva, con ballate ispirate a Tom Petty (Walk in Circles), ritmi rock tesi e sincopati (The Wilderness, Great Accelleration), folk-rock grintosi (History Has Their Number), pop anni ’60 (Another, Another, Then Boom). Disco molto ispirato. Da ascoltare: King Of Catastrophes. Voto: 1/2


venerdì 2 marzo 2018

David Gilmour. Wider Horizons

anno: 2015   
regia: EVANS, KIERAN  
genere: documentario  
con David Gilmour, Alan Yentob, Phil Manzanera, Jon Carin, Guy Pratt, Steve DiStanislao, Kevin McAlea, Bryan Chambers, Louise Marshall, Joao Mello, Theo Travis, Polly Samson, Paul Loasby, Andy Murray, Elena Bello, Claire Singers, Phil Taylor, Nick Belshaw, Roger Searle, Marion Neill    
location: Regno Unito
voto: 5  

Nel 2015, in occasione della pubblicazione dell'album Rattle that lock, il giornalista e conduttore televisivo Alan Yentob si reca in una delle tre ville faraoniche possedute da David Gilmour, chitarrista e voce dei Pink Floyd, per una chiacchierata sulla carriera musicale del musicista britannico, su come concepisce le sue idee musicali, sui rapporti con gli altri membri della band ma anche sulle sue abitudini e la sua famiglia. Se a stupire è la tecnologia di casa Gilmour, equipaggiata per essere anche uno studio di registrazione di primissimo ordine, tutto il resto scivola nell'ordinarietà delle solite immagini di repertorio, delle consuete testimonianze concesse pigramente e di un incedere quasi accidentale della chiacchierata tra intervistatore e intervistato. Ma ascoltare Gilmour mentre suona il sax è una chicca da non perdere e sentirlo mentre fa vibrare le corde della sua chitarra la consueta goduria.   

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