mercoledì 21 maggio 2014

EMA, HAUSCHKA, COLDPLAY


EMA (2014) The Future's Void
EMA è l’acronimo dell’americana (South Dakota, ma artisticamente cresciuta a Los Angeles) Erika M. Anderson, già attiva per una decina di anni in gruppi californiani psych-noise-folk (Gowns il più noto, con cui ha inciso 3 dischi). Alla seconda prova da solista si conferma artista rock di serie A proponendo con grande personalità canzoni che frullano Patti Smith con Carla Bozulich, Courtney Love con i Nine Inch Nails. Tra ballate struggenti e brani aggressivi, ovunque trasuda rabbia, pathos, disperazione e lotta, ovunque il rumore è funzionale al contesto e la melodia rifugge la retorica, ovunque la voce della protagonista esprime cervello, cuore e viscere. E dopo un paio di ascolti che risultano ostici, conquista chi le si abbandona.
Voto Microby: 7.8
Preferite: So Blonde, Chtulu, When She Comes

HAUSCHKA (2014) Abandoned City
Il tedesco Volker Bertelmann (in arte Hauschka), seguace di John Cage e dei suoi studi sul pianoforte preparato, ha spesso mischiato le carte lavorando contemporaneamente su melodia e ritmica, e partendo da Cage ed Erik Satie si è progressivamente allontanato dall’avantgarde accostandosi al mondo dell’indie-elettronica umana ed orecchiabile, solo strumentale, da ascolto e non da dancefloor. All’undicesimo album conferma la direzione, non innovativa ma estremamente piacevole per le orecchie (e molto più creativa del chiacchierato SOHN), intrapresa col precedente Salon des amateurs del 2011.
Voto Microby: 7.6
Preferite: Bakerville, Elizabeth Bay, Craco
COLDPLAY (2014) Ghost Stories
Il precedente album delle popstars inglesi raccontava di una storia d’amore avversata, tra Mylo e Xyloto, ma con un lieto fine. Ed era pertanto brillante, colorato ed assai radiofonico, sebbene lontano dai loro migliori lavori. Ghost Stories racconta la fine della storia d’amore tra Chris Martin e Gwyneth Paltrow ed è, come atteso, triste, rassegnato, dimesso. Non nei suoni, gli unici a salvarsi, come al solito ricercati ed eleganti, a coprire tuttavia un vuoto di idee che sta diventando preoccupante: non una canzone memorabile, al massimo 2-3 graziose in virtù di arrangiamenti rubati allo Sting meno ispirato o agli U2 meno innodici; la (ex) carismatica voce del leader spesso irriconoscibile, a tratti addirittura filtrata, ed intrusioni elettroniche camuffate da ambient ma in realtà perse tra lounge e new age, fino alle kitcherie Rihanna-like. Una prima parte quantomeno orecchiabile, una seconda francamente senza idee, per una band che si sta perdendo.
Voto Microby: 6.8
Preferite: Ink, Always In My Head, True Love


domenica 18 maggio 2014

Recensioni: Natalie Merchant, Neil Young, Jarekus Singleton

NATALIE MERCHANT - Natalie Merchant (2014)
L’abbiamo amata quando era la leader dei 10.000 Maniacs (più di 30 anni fa, come passa il tempo) ma anche oggi, ogni volta che esce un suo disco nuovo, abbiamo la medesima impressione di una artista di talento, estremamente onesta e raffinata.  In realtà erano più di 10 anni che non pubblicava un disco di materiale originale e, probabilmente, l’avere compiuto 50 anni l’ha invitata a profonde riflessioni sulla propria vita, improntando sensibilmente l’atmosfera di questo album. Ciò che non cambia, tuttavia, è la sua classe musicale, sempre improntata ad un pop con forti influenze folk e soul e la sua stupenda voce, a tratti quasi gospel (Go Down Moses).
Da ascoltare: Ladybird, Maggie Said, Go Down Moses. Voto: ☆☆☆☆

NEIL YOUNG - A letter home (2014)
Da tempo NY porta avanti una specie di crociata contro la qualità degradata della musica moderna: i CD suonano male, MP3 e gli AAC non ne parliamo neanche. Unici supporti decenti potrebbero essere DVD audio e Blu Ray ma magari anche un nuovo supporto da lui consigliato (il “Pono”). Fa un pò specie pertanto questo nuovo lavoro, messo in commercio in concomitanza con il Record Store Day, inciso volutamente  all’interno di un Voice-O-Graph, una specie di apparecchiatura fai-da-te diffusa per lo più a metà del secolo per incidere i dischi folk, country e blues. Il suono è pertanto, volutamente, cacofonico e gracchiante, tanto da far screditare un disco che avrebbe invece potuto essere fenomenale, viste le cover incise e l’aiuto del grande Jack White.  Difficile dar contro a uno dei tuoi idoli ma questo disco è decisamente da evitare. Voto: ☆

JAREKUS SINGLETON - Refuse to Lose (2014)

Avrebbe potuto essere un campione NBA: è stato nel quintetto base della University of Southern Mississippi per 3 anni consecutivi e tutti gli esperti gli avevano pronosticato un grande futuro cestistico, prima di farsi male seriamente alla caviglia e vedersi compromessa la carriera.  Allora ha ripreso in mano la chitarra del nonno, pastore della sua chiesa, e si è messo a suonare il blues. Non ancora trentenne è attualmente uno dei migliori interpreti del blues in accezione moderna, un pò “sporcato” di folk, funky, pop e soul ed in questo suo secondo disco mostra una grandissima classe. Voto: ☆☆☆

venerdì 9 maggio 2014

DAMON ALBARN, MAC DeMARCO, BARZIN


DAMON ALBARN (2014) Everyday Robots
Meglio chiarire subito: non c’è nulla del brit-pop beatlesiano dei Blur né delle ritmiche dub/funk/hip-hop trascinanti dei Gorillaz nel primo album a proprio nome del loro leader. E’ invece un disco intimo, crepuscolare, che ai primi ascolti sembra intenzionalmente dimesso e malinconico ma via via si scopre soulful. I testi scorrono su poche, accennate tracce ritmiche più parenti del blues del Mali che del pop radiofonico, e l’atmosfera vespertina/notturna rimanda all’esperienza The Good, The Bad And The Queen. A completare il quadro, semplici arpeggi di chitarra acustica e minimali note di piano jazzy avvicinano in definitiva il genietto inglese più al Brian Eno pop ed al David Byrne da soundtracks che alle popstars da MTV. A volte non sempre a fuoco, anche nei singoli progetti, tuttavia un artista di cui ammirare il continuo movimento.
Voto Microby: 7.6
Preferite: The Selfish Giant, Lonely Press Play, Hostiles

MAC DeMARCO (2014) Salad Days
Il 23enne canadese per il quale si è di nuovo parlato di slacker rock (per indicare la musica da cazzeggio) un po’ burlone deve essere, se nel 2012 ha titolato il suo debutto su lunga distanza “2”. E’ tuttavia unico nel panorama pop attuale: col suono di una chitarra semiamplificata, gioiosa e scintillante, quasi hawaiana, ed una voce all’opposto colloquiale e distratta, ma sempre melliflua e sinuosa, ottiene un effetto generale scanzonato da ferie estive. Apparentemente semplice, in realtà il progetto miscela con originalità il glam psichedelico con il soft rock ’70, l’estetica indie con il power flower, risultando una sorta di ibrido tra Robyn Hitchcock e Jonathan Richman. Difficile un giudizio sospeso: lo si ama o lo si odia.
Voto Microby: 7.5
Preferite: Blue Boy, Passing Out Pieces, Let Her Go
BARZIN (2014) To Live Alone In That Long Summer
Il titolo del quarto album di Barzin Hosseini, canadese di origini iraniane, esplicita il contenuto: singer-songwriter acustico, dagli accenti delicati e l’andamento lento, da slowcore cantautoriale, affine per sensibilità introspettiva ma musicalmente diverso dal confessionale di William Fitzsimmons, dai deserti di Bill Callahan, dagli ampi spazi verdi di Bon Iver, dal caminetto di Damien Rice. Più simile invece a gruppi quali Red House Painters, Mojave 3 e Great Lake Swimmers, con membri dei quali si accompagna in questo ultimo sforzo, finalmente non lo-fi anzi sobriamente raffinato, con la voce modulata del nostro sostenuta da lineari, dolci trame chitarristiche, contrappunti di pianoforte e fiati, ed una sezione ritmica lieve. Nell’insieme un po’ monocromatico, ma gli spunti singoli sono interessanti.
Voto Microby: 7.4
Preferite: Fake It ‘Til You Make It, All The While, Without Your Light



giovedì 8 maggio 2014

Recensione TODD TERJE - It’s Album time (2014)

L’anno scorso di questi tempi ci stupivamo di un disco concepito da un DJ-pittore-grafico-regista- (Woodkid), diventato poi, non dimentichiamolo, disco dell’anno di questo blog. Con grande curiosità pertanto ho approcciato il disco di Todd Terje, disc-jockey norvegese,già autore di remix (più o meno ufficiali…) per Chic, Chris Rea, Franz Ferdinand, Bryan Ferry (tra l’altro arruolato in prima persona come ospite in una cover di Johnny and Mary di Robert Palmer). Mix di disco-fazz-funky anni ’80, exotica, samba, colonne sonore film anni ’70 (Franco Micalizzi, Piero Umiliani, Henry Mancini). Il rischio è quello di essere etichettati “elevator music” ma la qualità di questo lavoro è invece di rimanere sempre aggrappato ad un’atmosfera magari un po’ kitsch ma sempre piacevole e divertente. Un buon disco per l’arrivo dell’estate. Brani migliori: “Dolorean dinamite”, “Preben Goes to Acapulco”, “Joy”. Voto: ☆☆☆☆

mercoledì 7 maggio 2014

Recensioni: EELS The cautionary tales of Mark Oliver Everett, WILKO JOHNSON & ROGER DALTREY - Going Back Home

EELS- The cautionary tales of Mark Oliver Everett (2014)
Mr. E non ha certamente avuto una vita personale invidiabile e le sue esperienze di vita sono sempre pesantemente evocate in tutta la sua produzione musicale. Anche in questo lavoro (l’undicesimo), concepito in realtà prima del precedente “Wonderful Glorious” e poi accantonato, i suoi ricordi, le sue sofferenze, i riferimenti alla sua triste ed inquieta giovinezza, permeano il disco in ogni dove. Che si tratti di un disco di personale introspezione non vi è il minimo dubbio dato anche il titolo del disco, che lo richiama direttamente in prima persona, e dei brani ( ”Where I’m at”, “Where I’m from” e “Where I’m going”, “Mistakes of my youth”). I toni musicali sono scarni e lenti, arricchiti qua e là da arrangiamenti d’archi, più vicini a quelli acustici di End Times del 2010 che non a quelli dell’ultimo già citato “Wonderful glorious”. Un disco sicuramente non facile, ma di grande intensità, come da sempre ci ha abituato. Lo aspettiamo in Italia a Milano il 18 luglio. Voto: ☆☆☆

WILKO JOHNSON & ROGER DALTREY - Going Back Home (2014)
i Dr. Feelgood furono un gruppo sfortunato: una sorta di incompiuta della musica rock. Arrivarono al successo nel 1977 (furono primi in classifica inglese) ma subito dopo Wilko Johnson decise che qualcosa non andava nella sua anima: i Feelgood persero la strada anche se ancora oggi qualcuno, assai più modestamente, con quel nome, suona ancora in giro (in realtà nessuno dei nuovo Feelgood fece parte di “quella” band). Nel 2013 a Wilko viene diagnosticata una malattia terminale per cui decide di fare un ultimo disco insieme al suo grande amico Roger Daltrey (Who) ed ecco questo disco, una sorta di testamento musicale tutt’altro che triste ma pieno di energia, come un disco rock di quelli che ormai non si sentono più. Ora in Inghilterra è di nuovo tra i primi in classifica, come in quel lontano 1977: un finale da sogno per chi come noi è cresciuto a pane e rock’n’roll. Voto: ☆☆☆1/2

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