lunedì 31 agosto 2015

NEIL YOUNG - Gli anni d’oro (cioè fino al 1979).

Mi sento in dovere di spiegare la mia delusione verso questa fase della vita musicale di Nello il Giovane. Effettivamente la lunga carriera di NY è di regola difficilmente inquadrabile: l’imprevedibilità è sempre la sua caratteristica principale. Fin dai primi anni canadesi in giro con la sua auto da becchino (ed un repertorio anni ’50) e successivamente al Greenwich Village (passato come tutti in quegli anni a riprendere tutto quello che faceva Bob Dylan) le sue idee erano piene di energia e sempre differenti. Passato in California e incontrato Stephen Stills, fondò i Buffalo Springfield ma dopo un disco e dopo avere scritto anche qualche brano niente male (Broken Arrow per esempio) si stufa e assieme a Ralph Molina mette insieme i Crazy Horse, band prediletta con cui già in quegli anni scriverà alcuni tra i brani ancora nel suo repertorio: Cinnamon Girl, Cowgirl in the sand su tutti. 
Era il 1969 e in quegli anni Crosby, Stills and Nash andavano alla grande: allora NY si inventa un doppio lavoro suonando un po' con i suoi Crazy Horse ed un po' con CSN (che per l’occasione diventano CSNY). Anche con loro si dà molto da fare e scrive probabilmente le migliori canzoni del gruppo (Helpless e Ohio). Grande successo con entrambi i gruppi: NY non si ferma mai, lascia perdere CSN e con i Crazy Horse scrive After The Gold Rush (con un giovanissimo Nils Lofgren alla chitarra…) seguito da Harvest suonato invece con un pugno di musicisti di Nashville, responsabili dell’impronta country acustica di quel lavoro. Harvest è sicuramente il suo capolavoro, così intimo e melodico e seminale per tutta una serie di musicisti dell’epoca (James Taylor, Linda Rondstadt che non casualmente partecipano al disco), e peraltro unico suo disco salito al numero 1 delle classifiche USA. 
Dopo lavori così solari eventi personali (amici e compagni musicisti persi per droga) lo fanno cadere nella tristezza più profonda: i successivi tre album dal ’73 al ‘75 sono quelli della Ditch Trilogy che comprendono Time Fades Away, On the Beach e Tonight’s the night. On the Beach in particolare è un album intenso, eccentrico quasi apocalittico, con alcuni grandissimi pezzi (Ambulance Blues, Vampire Blues e Revolution Blues: tutti brani con “blues” nel titolo ma che peraltro di blues non hanno un bel niente..). Arriviamo al suo ottavo album, Zuma (quello di Cortez the Killer): per l’occasione riallaccia i rapporti sia con i Crazy Horse, che lo accompagnano nel lavoro, che con i vecchi amici Nash, Crosby e Stills (con cui pubblica Long May You Run) prima di partecipare all’addio della Band (The Last Waltz) nel 1976, evento che rischia di rovinare perché era in momento di assoluta dipendenza dalla cocaina (Martin Scorsese ne ritocca il viso durante l’esecuzione di Helpless perché la droga gli colava dal naso). 
Seguono American Stars ’N Bars del 1977 (con la psichedelica Like a Hurricane), Comes a Time del 1978 (con Lotta Love insieme a Nicolette Larson) ed infine Rust Never Sleeps sempre del 1979, testimone del lungo tour omonimo e con qualche brano nuovo (Hey Hey, My My). Erano gli anni del punk, della new wave e della morte di Elvis Presley: in una sorta di adesione ai nuovi standard musicali, alla facciata tradizionalmente acustica ne appaia una aggressivamente rock e chitarrosa. Un album carico in cui mostra di avere sposato almeno in parte l’energia e l’entusiasmo di quegli anni e grazie al quale recupera l’interesse anche dei rocker più giovani. Neil è felice, si sposa con Pegi ed ha un figlio, Ben. Purtroppo il figlio nasce tetraplegico (anche il primogenito Zeke avuto molti anni prima era nato con problemi neurologici): forse questo è l’evento limite, quello che ne condiziona e ne condizionerà per sempre l’ispirazione. A mio parere il vero NY si ferma qui: da quel momento in poi non fa altro che bruciare il proprio passato passando dal country-western al rockabilly, dall’elettronica al blues, dallo swing al R&B. Cosa salvo del periodo post 1979? Il rock elettrico di Freedom (1989), qualcosa di Harvest Moon (1992), di Chrome Dreams II (2007) e di Psichedelic Pill (2012). Poi è solo nebbia.

A seguire (tempo permettendo) la lista dei migliori brani della sua vita musicale (siete tutti invitati a partecipare).

martedì 25 agosto 2015

CHRIS STAPLETON, JAMES BAY, SELAH SUE


CHRIS STAPLETON (2015) Traveller

Ex leader degli Steeldrivers e dei Jompson Brothers, ma soprattutto scrittore di vaglia per conto di interpreti più o meno noti in ambito country-rock, non si capisce perché il nostro, barbuto dotato di una voce potente e cartavetrata (tra John Mellencamp e Bob Seger) e di personalità musicale da fuoriclasse, abbia atteso tanto per l’esordio da solista. Debutto che merita per scrittura (era ovvio), interpretazione, arrangiamenti elettroacustici fondati sulle chitarre, e che tuttavia non arriva all’eccellenza perché la produzione sceglie di non osare l’originalità optando per una via classica di volta in volta più vicina al rock, o al country, o al cantautorato outlaw.
Voto Microby: 7.5
Preferite: Parachute, Traveller, Might As Well Get Stoned
 
 
JAMES BAY (2015) Chaos And The Calm


Splendida voce da white soul, eccellente autore di ballads, ottimo chitarrista acustico (come apprezzabile nei bonus tracks), bella presenza scenica, ed alcuni EP che già lo proiettavano nell’olimpo delle stars. Eppure, all’esordio su lunga distanza, per il 25enne musicista inglese qualcosa non funziona: forse la produzione indecisa tra il farne un cantautore di riferimento per sua generazione (in questo caso, nel solco di Ben Howard, Nick Mulvey, Michael Kiwanuka) o il nuovo idolo radiofonico alla Adèle o, meglio, Hozier, di fatto Chaos And The Calm si ferma a metà del guado e scontenta un po’ tutti. Sorprende in particolare la distanza tra le bellissime ballads e le dozzinali (anche nei crescendo epici della chitarra elettrica, molto U2-style) canzoni dal piglio rock. Peccato, soprattutto perché si ha la sensazione di un artista di vaglia, che non si vorrebbe perdere.
Voto Microby: 7.3
Preferite: Hold Back The River, Let It Go, Craving
 
 

 SELAH SUE (2015) Reason

Personalità carismatica, voce originale e potente, appeal mediatico, un visino imbronciato sotto la bionda criniera raccolta alla Brigitte Bardot, una scrittura eclettica nelle varie sfumature del black, un ottimo riscontro sia di critica che di vendite col debutto omonimo nel 2011. Che peccato allora che la graziosissima belga, al secolo la 26enne Sanne Putseys, abbia seguìto già al secondo album la deriva di Joss Stone, e come quest’ultima sia vittima di produzioni che hanno snaturato il suo riuscitissimo e moderno mix di soul, reggae, R’n’B, ragamuffin, funk, bossanova. Ora siamo più dalle parti dell’elettro-soul e degli house beats: il suono è apparentemente più moderno, in realtà è massificato con arrangiamenti ad uso e consumo dei supermercati e dei dance floors americani alla moda (effimera). Si fa persino fatica a capire se almeno la scrittura si salvi, chè si potrebbe sperare in una futura resurrezione. Per ora resta la delusione di una puledra di razza che avevamo dato troppo presto per vincente.
Voto Microby: 6
Preferite: Reason, Always Home









domenica 23 agosto 2015

Recensioni al volo: Amos Lee e Neil Young.

AMOS LEE - Live at Red Rocks (2015)
Non mi capita frequentemente di recensire un disco dal vivo ma quello di Ryan Anthony Massaro, in arte Amos Lee, è imprescindibile anche perché puntualmente nei primi posti di ogni classifica annuale del blog (al primo posto nel 2008 con “Last Days at the Lodge”). Nelle mie abituali peregrinazioni musicali londinesi ho anche avuto, insieme al co-blogger Andrea, la ventura di assistere ad un suo magnifico concerto, accompagnato anche allora da una folla di fan, così come in questo disco dal vivo registrato insieme alla Colorado Symphony Orchestra all’anfiteatro Red Rock di Denver, una delle location più suggestive al mondo. Per chi non lo conosce Amos è un cantautore americano capace di fondere con uno stile espressivo e trascinante l’imprinting folk di Bob Dylan con le tonalità R&B di Al Green soprattutto grazie alla sua voce limpida ed imperiosa.  Il disco in questione è imperniato particolarmente sulla riproposizione dei brani da Mission Bell e l’orchestra è arrangiata per sottolinearne la forza espressiva e melodica. Da ascoltare: El Camino, Won’t Let Me Go, Windows are Rollen Down. Voto: ☆☆☆☆





NEIL YOUNG - Promise of the real / The Monsanto Years (2015)

E’ impossibile non occuparsi di Neil Percival Young, leggenda vivente i cui album sono nella discografia di chiunque sia nato dopo il 1960 e che in molti casi sono entrati a buon diritto nella storia della musica. Questo è il suo 36° (!) album ed è nostro dovere ascoltarlo sempre e comunque.  In questo lavoro NY mette insieme nove pezzi che ambiscono a ricordare il suo periodo più geniale (quello tra Harvest e Rust Never Sleeps) mettendo insieme le sue anime rock, blues e folk in una sorta di album denuncia contro la scorretta condotta della Monsanto e delle biotecnologie. Considerando che forse sarebbe meglio che qualcuno gli spieghi che l’insulina che quotidianamente lo tiene in vita per il suo diabete è il frutto proprio delle tecniche di bioingegneria che lui combatte con tanto fervore, in ogni caso il disco ha alcune cose interessanti ma anche molte cadute di qualità, un po' come purtroppo ci ha abituato negli ultimi lustri della sua carriera. Un messaggio nobile (?) ma prosaico ed i mezzi purtroppo sono poco convincenti: sembra sempre di più il monumento di se stesso. Comunque gli vogliamo e gli vorremo sempre bene. Da ascoltare: If I Don't Know. Voto: ☆☆

sabato 15 agosto 2015

DJANGO DJANGO, EVERYTHING EVERYTHING, THE MACCABEES


DJANGO DJANGO (2015) Born Under Saturn


Al secondo album la band scozzese (ma attiva a Londra) conferma tutte le doti emerse con l’esordio nel 2012: un art-pop moderno ed originale che riconosce la struttura portante nei ritmi vivaci a contrappunto di armonie vocali raffinate (cui è demandata la linea melodica), ed in cui chitarre e tastiere (acustiche ed elettroniche) fungono principalmente da elementi decorativi. I nostri vanno a cercare i mèntori nel passato (dai Talking Heads ai Beach Boys, dai Devo ai 10CC come al Brian Eno più pop e ritmico) e gli esempi nel presente (i coevi Alt-J ed Everything Everything, ed ancora Brian Eno con Karl Hyde o David Byrne). Il frullato è brillante ma denso di idee, al punto che invece di qualche bonus track si sottrarrebbero volentieri 2-3 canzoni. Non sembra un gran difetto.
Voto Microby: 7.7
Preferite: Giant, Found You, First Light



EVERYTHING EVERYTHING (2015) Get To Heaven


Molto curati, accattivanti e moderni sia i suoni che la copertina del terzo album della band di Manchester. Si aggiunga la solita splendida, unica voce di Jonathan Higgs con il suo frenetico falsetto ma anche la corposità dei suoi timbri bassi, strumentisti eccellenti e non una nota fuori posto per un album concepito come una moderna sintesi di art-pop orecchiabile ed elettronica dance-friendly. Eppure il disco non decolla mai: forse troppo studiato a tavolino, certamente privo di grandi canzoni. Resta carino e piacevole, sospeso com’è tra Pet Shop Boys ed il Madchester sound alla Happy Mondays ma con arrangiamenti update per il nostro tempo.
Voto Microby: 7
Preferite: To The Blade, Regret, Distant Past



THE MACCABEES (2015) Marks To Prove It

La carica chitarristica dei British Sea Power, l’epica dei primi Simple Minds, il mood malinconico dei Depeche Mode, lo spleen romantico degli Elbow (con il timbro triste di Weeks che a tratti ricorda la voce di Guy Garvey), una scrittura sospesa tra la new wave anni ’80 e la sua rivisitazione degli anni ’00: questo il bagaglio portato dal combo londinese che fa capo al cantante Orlando Weeks, giunto al traguardo del quarto, più immediato e migliore lavoro. Nulla di originale, e non vi è traccia (nemmeno omeopatica) di leggerezza ed ironia, ma quanto suonato, prodotto e pubblicato dai Maccabei non deve mancare nel lettore di chi ama i gruppi sopracitati.
Voto Microby: 7.5
Preferite: Kamakura, Spit It Out, Marks To Prove It




giovedì 13 agosto 2015

Recensioni al volo: Warren Haynes, Amy Helm

WARREN HAYNES & RAILROAD EARTH - Ashes & Dust (2015)
Non vi è dubbio alcuno che Warren Haynes sia a tutti gli effetti uno dei più grandi chitarristi contemporanei insieme a Joe Bonamassa. Del resto uno che viene chiamato a sostituire nientedimeno che Duane Allman negli Allman Brothers, che è la vera mente pensante dei Govt Mule e che gira con i redivivi Grateful Dead sostituendo Jerry Garcia, non può che assurgere ad assoluto mito del rock-blues contemporaneo. Nel mezzo ci mette poi anche un paio di dischi solisti (Tales of Ordinary Madness e soprattutto lo splendido Man in Motion). Detto questo un disco di roots rock come questo Ashes & Dust è stato comunque una grande sorpresa e dimostra che nelle sue vene non scorre solo sangue blues e southern ma che la nativa North Carolina lo ha esposto a influenze bluegrass, country e gospel. A farsi aiutare ha chiamato poi i Railroad Earth, banda bluegrass del New Jersey, che gli ha fatto da jam band: il loro contributo è di modulare in chiave folk ed americana le ballate a base acustica (sono stupendi anche i demo per sola chitarra presenti nella versione deluxe). Il risultato è un disco di grande qualità, con ballate folk-rock ad impronta sudista. Brani essenziali: Company Man, Stranded in Self-Pity. Gold Dust Woman (cover dei Fleetwood Mac di Rumours). Voto: ☆☆☆☆



AMY HELM - Didn’t Rain (2015)

Figlia di Levon e componente degli Ollabelle (a proposito è dal 2010 che non esce niente, chissà se hanno abbandonato) oltre che figlia di tanto padre, per parte di madre (Libby Titus, anche lei artista e cantante) ha contatti diretti con Donald Fagen (attuale marito della madre stessa dopo esserlo stata di Dr. John…mica male come ispirazioni domestiche). Ora Amy Helm ha 44 anni, ed esce con questo album di esordio in cui partecipano tra gli altri, il padre Levon alla batteria (in tre brani incisi appena prima della sua morte), John Medeski alle tastiere, Allison Moorer, Bill Payne e Byron Isaacs degli Ollabelle. Siamo dalle parti di Mary Gauthier, Roseanne Cash e Lucinda Williams (oddio non esageriamo..) con classiche canzoni da cantautrice, ben arrangiate e con una discreta componente blues che ne dà spessore ed animo. Ovviamente non arriverà mai ai livelli paterni però è un disco piacevole da ascoltare. Voto: ☆☆☆

venerdì 7 agosto 2015

JIMMY LaFAVE, STEVE EARLE


JIMMY LaFAVE (2015) The Night Tribe

Attivo discograficamente ad Austin dal 1993, il 60enne texano ha sempre cercato di trasporre l’energia del rock’n’roll al servizio della sua scrittura da folksinger (con Bob Dylan in testa), a differenza di molti coevi che invece sposavano la causa del country. Ed è pressoché sempre riuscito nell’impresa, sia nei lavori da solista che accompagnato dal gruppo. In The Night Tribe l’equilibrio tra l’impianto chitarristico elettroacustico e quello tastieristico si sposta leggermente a favore di quest’ultimo, grazie al prezioso lavoro di Radoslav Lorkovic, con i suoi sapidi contrappunti d’organo e gli agili ceselli di pianoforte. Ma è la scrittura delle canzoni, raramente così ispirate (soprattutto le ballads), il punto di forza dell’album. I punti deboli (ma si tratta di cercare il pelo nell’uovo) sono al solito la voce di LaFave, che non è mai stata caratterizzante né originale, troppo languida sia per il rock che per il folk, e la produzione assai tradizionale (ma cercare una nuova via al folk americano non è mai stato obiettivo del nostro). Restano 13 belle canzoni di cantautorato americano di qualità.
Voto Microby: 7.5
Preferite: The Beauty of You, Maybe, The Night Tribe




STEVE EARLE & THE DUKES (2015) Terraplane

Negli ultimi 20 anni, da buon outlaw, l’americano ha abbandonato il country di successo degli esordi ma anche i pari riconoscimenti della successiva escursione nel rock. Dedicatosi solamente all’approfondimento delle radici musicali della sua terra, ha esplorato per 4 lustri il country-folk delle origini, con buoni risultati artistici e del tutto indifferente agli scarsi riscontri commerciali. Ora licenzia il suo album più blues, ma anche il più vario essendo ibridato con i mai sopiti amori: il rock, il folk, il country. Scrittura, arrangiamenti (elettroacustici) ed esecuzione (di nuovo con i fidati Duchi) suono buoni, ma nulla per cui gridare al capolavoro. Nonostante l’ascolto piacevole e rassicurante visto il pedigree dell’autore, in questo ibrido musicale ci sono nuove leve più raccomandabili.
Voto Microby: 7.3
Preferite: Go Go Boots Are Back, Acquainted With The Wind, Better Off Alone

domenica 2 agosto 2015

Rickie Lee Jones - un ripasso

Per chi ancora non la conosce, RLJ è una delle cantautrici americane di maggior talento la cui carriera ebbe grande impulso dopo avere incontrato nel 1977 il mitico Tom Waits (guida spirituale del nostro blog) al Tropicana Motel di Los Angeles. Tom rimase affascinato dalla sua musica ma soprattutto dalle sue grazie, dando vita ad una relazione artistica e sentimentale protrattasi per qualche anno (con passione e sbronze colossali immortalate dalla cover del capolavoro Blue Valentine di TW). Durante quei primi anni di carriera RLJ dà il meglio di sé con l’eponimo Rickie Lee Jones (1979), impreziosito dalla collaborazione di Randy Newman e Dr. John (un milione di copie vendute grazie anche al fantastico singolo Chuck E’s in Love) e con i successivi e ispiratissimi Pirates del 1981 (da ricordare il brano We Belong Together), Girl at Her Volcano del 1983 (un insieme di cover, tra cui spiccano un inedito di Tom Waits - Rainbow Sleeves e Under The Boardwalk dei Drifters) e The Magazine del 1984.  Dopo una gravidanza RLJ pubblica nel 1989 Flying Cowboys e Pop Pop nel 1991, due album ricchi di cover, per tornare ad un album originale nel 1993 con Traffic From Paradise (con l’aiuto di David Hidalgo dei Los Lobos e Brian Setzer degli Stray Cats) ed ad un primo album dal vivo (Naked Songs) nel 1995. Seguono una serie di lavori di medio livello: Ghostyheads del 1997 (un po' troppo tecnologico), It’s Like This del 2000 (con l’aiuto di Ben Folds al pianoforte), Live at Red Rocks del 2001. Nel 2003 riprende quota con l’interessante The Evening of my day, ricco di influenze blues, funk e jazz cui seguono un’antologia nel 2005, il discreto Balm in Gilhead del 2009 ed un nuovo album di cover (The Devil You Know) prodotto da Ben Harper nel 2012. 
Arriviamo al 2015 con questo The other side of Desire, disco registrato a New Orleans e fortemente influenzato dal sound della città (con tanto di contributo anche di Zachary Richard alla fisarmonica). Valzeroni country, swing, blues ed atmosfere reggae ma soprattutto ballate di fascino e classe. rani essenziali: Feet on The Ground, Infinity. Voto: ☆☆☆

Ora RLJ ha 61 anni ed ormai è giustamente una leggenda e non si può prescindere dall’incensarla ed onorarla come si conviene ad una cantautrice che ha accompagnato la nostra passione musicale in tutti questi anni.


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