giovedì 30 maggio 2019

CRAIG FINN, BENJAMIN FRANCIS LEFTWICH


CRAIG FINN (2019) I Need A War



Da anni il leader degli americani Hold Steady porta avanti la doppia carriera con la band ed in proprio, con risultati di livello in entrambe le direzioni, più virati al rock col gruppo ed al cantautorato elettroacustico da solista. Là dove i testi allargano la grande tradizione americana degli storytellers che raccontano storie di vita personale facilmente adeguabili all’universo sociale, musicalmente il nostro ha un timbro nasale a metà strada tra Randy Newman ed Elvis Costello, voce che si presta a ballads dal mood prevalentemente malinconico che ben figurerebbero nel carniere dei primi Bruce Springsteen ed Elliott Murphy, con l’originalità di arrangiamenti rètro che a tratti non disdegnano perfino la tradizione della library music italiana dei ‘70. Accostamento quest’ultimo che insieme alle tastiere elettriche ma liquide ed agli inserti di fiati dolenti e notturni dona un tratto personale ed immediatamente riconoscibile al lavoro di Finn. Chiusura di un’ideale trilogia iniziata nel 2015 e qui portata al miglior livello qualitativo, il quarto album da solista di Craig Finn non fa rimpiangere l’attesa di un nuovo lavoro della band madre, discograficamente ferma al 2014.

Voto Microby: 7.5

Preferite: Blankets, Anne Marie & Shane, Grant At Galena


BENJAMIN FRANCIS LEFTWICH (2019) Gratitude

Accostato all’esordio (il bel “Let Smoke Before The Snowstorm” del 2011, che ad oggi resta il suo lavoro migliore) ai cantautori intimisti (cito a memoria Keaton Henson, James Yorkston, James Vincent McMorrow tra gli altri) che si riferivano apertamente negli USA ad Iron & Wine ed Elliott Smith, ed in Inghilterra (patria del nostro) ovviamente a Nick Drake e John Martyn, BFL è passato progressivamente dal folk cantautorale del debutto al nuovo pop screziato di elettronica, senza tuttavia riuscire a sperimentare come Ben Howard in senso cantautorale ambient, o Bon Iver nel genere folktronica, o James Blake in ambito elettronico minimalista. Né d’altra parte senza mai possedere l’appeal radiofonico di Ed Sheeran, capofila dei nuovi cantautori mainstream pop. Con “Gratitude” BFL resta a metà del guado, ed al terzo album non mantiene le promesse iniziali né pare abbia ancora deciso cosa fare da grande. Ma soprattutto pare abbia perso il senso della melodia che ispirava i suoi primi passi, quando gli bastavano chitarra acustica e voce per incantare. “Gratitude” è in summa un disco graziosamente patinato, nulla più.
Voto Microby: 6.8
Preferite: Look Ma, Sometimes, The Mess We Make


martedì 21 maggio 2019

NILS LOFGREN


NILS LOFGREN (2019) Blue With Lou

Nato a Chicago nel 1951 da madre italiana e padre svedese, Nils Lofgren è certamente più noto come chitarrista al servizio di Neil Young nei ’70-’80 e membro stabile della E Street Band di Springsteen dal 1984 (subentrò al dimissionario Little Steven), piuttosto che per la carriera solista, sempre di livello buono ma mai eccellente (solo 2 i dischi da rimarcare, entrambi all’esordio nel 1975). Sempre assai apprezzate invece le sue qualità di chitarrista, sia elettrico che acustico. Il “Lou” cui fa riferimento il titolo del suo ultimo lavoro è Lou Reed, cui Lofgren era stato introdotto da Bob Ezrin, allora produttore di entrambi. Era il 1978 e Lofgren chiese a Reed di completare con dei testi una dozzina di melodie da lui composte. Sei canzoni finirono poi nei rispettivi album solisti del 1979 Nils e The Bells, ma altre restarono nel proverbiale cassetto. Una buona amicizia legò i due artisti fino alla dipartita dell’ex frontman dei Velvet Underground nel 2013. In tale occasione Lofgren si ripropose di tributare un saluto musicale all’amico scomparso. Preso da mille progetti lavorativi, riesce a farlo solo ora riesumando la manciata di canzoni scritte in coppia illo tempore e mai pubblicate, con l’eccezione della City Lights ripescata da The Bells, ed integrandola con brani nuovi. Il risultato è un album registrato in presa diretta nello studio di Lofgren col classico trio chitarra-basso (Kevin McCormick)-batteria (Andy Newmark), con occasionali inserti di sax e pianoforte, di impatto naif col cuore ma come prevedibile di alto livello esecutivo, ad impronta elettrica (con le eccezioni della deliziosamente cooderiana Too Blue To Play e della City Lights di cui sopra), e col plusvalore degli assoli di Lofgren, che suona “bianco” anche quando l’influenza è blues o soul, ma si contamina con la musica black inserendo cori gospel femminili alla maniera del Boss. La somma dei valori non ne fa solo un accorato ricordo dell’amico Lou Reed, ma pur non esprimendo né un capolavoro né un disco innovativo Nils Lofgren ci propone un album appassionato e sincero, che scalda il cuore.
Voto Microby: 7.6

Preferite: Give, Too Blue To Play, Blue With Lou

mercoledì 15 maggio 2019

GLEN HANSARD


GLEN HANSARD (2019) This Wild Willing
Che fosse un artista poliedrico Glen Hansard l’aveva già dimostrato in più di una occasione: dalla sua partecipazione al mondo del cinema prima nel cult-movie The Commitments di Alan Parker (era un membro dell’esplosiva soul-band fulcro del film) e poi da protagonista di Once, altro film a tema musicale che gli è valso nel 2007 anche un Oscar come miglior canzone originale (con la co-protagonista Marketa Irglova); ma anche in campo strettamente musicale, nel quale si è cimentato nei ‘90 come frontman dell’ottima pop-rock band irlandese The Frames, quindi in coppia cantautorale negli anni ‘00 con la Irglova nei The Swell Season, poi da eccellente singer-songwriter nel solco di Van Morrison (tre splendidi dischi dal 2012 ad oggi), spazio in cui ha ritagliato ampi consensi di critica e pubblico. Ora che sembra giunto il momento di raccogliere in termini commerciali quanto ha seminato, se ne esce con un album anti-radiofonico, totalmente raccolto in una meditabonda contemplazione, che sacrifica la sua voce passionale ad un talking quasi sussurrato, musicalmente strutturato sulle potenti radici del folk irlandese più romanticamente introspettivo, ma con uno sguardo aperto ad influenze mediorientali, ottomane, iraniane, perfino giapponesi ed indonesiane. Il lavoro è quasi esclusivamente acustico (pianoforte, plettri, archi, fiati, una occasionale e controllata sezione ritmica e un minimo utilizzo dell’elettronica), e necessita di più ascolti per essere apprezzato nei singoli brani oltre che come unicum. Nella prima parte (la migliore) sembra la controparte irlandese del Robbie Robertson “native american”, mentre nella seconda (in cui si perde il pathos iniziale a favore di un’elegante e malinconico irish folk) si scorgono richiami al collettivo folk avanguardista The Gloaming, agli storici Planxty ed Ossian, ma anche al Van Morrison di Summertime In England e perfino alle arie più lievi della Penguin Cafè Orchestra. Un disco non difficile, ma impegnativo, che richiede attenzione che ripaga più il/col cervello che il/col cuore. Forse nel suo carattere elitario sta appunto il maggiore difetto.
Voto Microby: 7.8
Preferite: Don’t Settle, Race To The Bottom, I’ll Be You Be Me

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