sabato 30 novembre 2019

COLDPLAY





Finalmente Chris Martin e sodali hanno smesso di scimmiottare l’epicità degli U2 e l’easy listening danzereccio di Rihanna. Forse che, sfondata la soglia degli –anta, si siano resi conto di non poter inseguire a vita gli ardori tardo adolescenziali e meno che meno sentirsi in sintonia con i pruriti peripuberali? Certo Bono & Co. restano sottotraccia nelle liriche peace & love e nell’afflato terzomondista, ma di grazia non c’è traccia dei lustrini Beyoncè/Rihanna-like. Tant’è, di fatto riescono a pubblicare il miglior album personale dai tempi di Viva la vida. Non un capolavoro (gli unici a loro nome restano i primi 2 e parzialmente lo stesso Viva la vida), perché i punti di domanda sono numerosi anche per Everyday Life. Il più consistente (ma per alcuni sarà invece un pregio) è la mancanza di una direzione musicale coesa, negli intenti e nella realizzazione: belle canzoni ma assolutamente slegate l’una dall’altra. Come una sorta di compilation di artisti vari: nel pout-pourri abbiamo un brano per sola orchestra, in stile soundtrack morriconiana (Sunrise), un gospel nero (BrokEn) e per par condicio un brano a cappella presbiteriano che più bianco non si può (When I Need A Friend), un paio di canzoni pop-folk in stile ultimo-Iron & Wine (Trouble In Town ed Old Friends), un punk-folk che starebbe bene nel carniere di Frank Turner (Guns), una intima Eko ispirata da Paul Simon, una splendida Arabesque inebriata di ritmi da Raì maghrebino e di fiati da Africa nigeriana (Femi Kuti al sax), una composizione per solo piano di impronta new age che si dissolve in una giaculatoria in arabo (come il titolo, trascrivibile come Bani Adam), una leggera (e unico brano debole del disco) Cry Cry Cry, dai profumi pop-soul sixties, un paio di ballate malinconiche (Daddy ed Everyday Life), ed ovviamente alcune canzoni in puro stile Coldplay, adatte al singalong nelle arene (il singolo Orphans, Church e Champion of The World). Il tutto è abbracciato dal falsetto –quasi da copyright-- di Chris Martin, e legato/frammisto a samples come d’abitudine nel nuovo millennio. Se si eccettua l’estrema varietà musicale dei contenuti (i detrattori parleranno al solito di scarsa personalità), i difetti sono per la verità quasi aneddotici: perché pubblicare 2 CD quando la durata totale del lavoro è di 53 minuti? E perché il dispersivo vezzo di inserire ben 8 interludi da 3” ciascuno (in serie) per suonare le campane di Fra Martino? L’album è diviso in 2 parti (il dualismo non manicheo ricorrente nell’opera del quartetto britannico), Sunrise e Sunset, e si apre e si chiude con l’orchestra quasi a sottolineare la circolarità degli opposti. Ma anche per invitare a riascoltare l’album che, finalmente abbandonata la grandeur dei precedenti lavori, per la prima volta nell’ultimo decennio merita l’heavy rotation.
Voto Microby: 8
Preferite: Arabesque, Orphans, Champion of The World

venerdì 22 novembre 2019

MICHAEL KIWANUKA


MICHAEL KIWANUKA (2019) Kiwanuka



Eccolo il mio disco dell’anno 2019. Dopo Home Again, che aveva palesato il talento dell’anglo-ugandese conquistando peraltro la palma di miglior album del 2012 del nostro blog, e la conferma perfino in meglio nel 2016 con Love & Hate, arriva ora il terzo album semplicemente omonimo, quasi ad affermare hic et nunc che il suo stile è questo, personale e consolidato. Per nulla interessato all’evoluzione della musica black post-hip hop, altrettanto lontano dalle belle ma algide confezioni del nu-soul e dell’alt-R&B, il nostro continua ad immergersi nel suono soul-Motown dei tre lustri a cavallo tra ‘60 e ‘70, quasi che Marvin Gaye non fosse stato ucciso dalla pistola del padre in quel tragico 1 aprile 1984. Come nel precedente lavoro, Danger Mouse alla produzione aiuta nella coesione dei brani e, tecnicamente, in modo non invadente con samples ed una sezione ritmica che profumano di nuovo millennio scongiurando il rischio di puro revivalismo. Sorprendenti per l’utilizzo che ne era stato già in Love & Hate, i cori risultano assai originali ispirandosi alla sensuale fede del gospel, ma insieme agli archi (da Luis Bacalov virato-soul) rimandano anche alla cultura americana anni ‘70 della blaxploitation e, più sorprendentemente, alla library music italiana dei ‘70 che insonorizzava le pellicole di costume leggere oppure di impegno sociale (gli indimenticabili Piero Umiliani, Alessandro Alessandroni, Piero Piccioni, fino all’Ennio Morricone più popolare). Gli stessi testi sono in sintonia col profilo musicale: amore ma anche sociopolitica, spirito ma anche ambiente. Sorprendente Kiwanuka? No, unico nel panorama musicale attuale. Il nuovo album parte ritmato, quasi festoso, con brani rhythm‘n’blues che anche nel prosieguo offrono momenti di vivacità ad un disco nei fatti profondamente melodico, che si chiude addirittura pacificato. Spirituale e laico, carnale e religioso, senza che se ne percepisca la contraddizione, come riesce solo ai grandi. Come Michael Kiwanuka, seme ugandese sbocciato a Londra per diventare il migliore soulman d’Europa.
Voto Microby: 8.7
Preferite: Piano Joint (This Kind od Love), Final Days, Hero

mercoledì 13 novembre 2019

SAM FENDER


SAM FENDER (2019) Hypersonic Missiles

Da più parti il 23enne inglese è stato accostato al giovane Bruce Springsteen. Se è per via dei testi da working class hero e per qualche assolo di sax alla Clarence Clemons, i paragoni possono finire qui. Perché il cantautore elettrico di Newcastle è musicalmente figlio della generazione successiva a quella del boss: sezione ritmica metronomica (talvolta ahimè perfino drum machine) e parco ricorso agli assoli in stile anni ’80, attitudine epica e sferragliare metallico di chitarre ritmiche che richiamano U2 (Dead Boys e Will We Talk?) e Simple Minds (The Sound), senza disdegnare la generazione 2.0 dei vari Hozier (Call Me Lover) e War On Drugs (The Borders). La voce è potente e pulita, ma non trattiene la rabbia e l’urgenza del decennio punk/post-punk, senza mai tingersi di dark né di grunge. E’ l’espressione di un ragazzo di oggi che non riesce a trattenere i propri sentimenti, ma che è capace anche di intensi momenti di introspezione come dimostra nell’ultimo terzo di album. Peccato che la produzione non aiuti a coordinare in un unicum coeso le varie anime dell’artista: “the perfectly imperfect rock debut”, come è stato salutato da The Guardian. Siamo di fronte a the next big thing?
Voto Microby: 8
Preferite: Hypersonic Missiles, You’re Not The Only One, Dead Boys

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