martedì 26 maggio 2020

SAN FERMIN


SAN FERMIN (2020) The Cormorant I & II

Una laurea in musica e composizione a Yale, la conoscenza della musica classica ma la passione per il pop orchestrale ed un'eccessiva timidezza che Ellis-Ludwig Leone, il nerd dietro al progetto San Fermin, ha risolto componendo tutte le partiture e le liriche dei suoi dischi ma facendole eseguire da una ventina di musicisti comprese le voci soliste, il baritonale Allen Tate per il ruolo maschile e le varie turniste per le più spumeggianti canzoni al femminile. In concerto il nostro si defila suonando le tastiere nelle retrovie. Piccolo genietto che dopo un ottimo debutto (San Fermin, 2013) ed un buon secondo album aveva cercato col precedente soluzioni alternative al rischio-ripetitività (con risultati non soddisfacenti), ed ora torna alle origini con un bel quarto lavoro partorito in due segmenti, Part I pubblicato nell'ottobre 2019 e Part II nel marzo 2020, entrambi di 8 brani per 25 minuti. Versione più contenuta e meno percussiva del francese Woodkid, Leone firma con il chamber-pop asimmetrico che lo contraddistingue (a tratti intimo, in altri esplosivo) la storia di un essere umano che ripercorre i momenti significativi della propria vita (dall'infanzia alla vecchiaia, canzone per canzone) dopo che un cormorano gli ha predetto la morte. E lo fa con i due caratteri, maschile e femminile, e con momenti di avvolgente tenerezza alternati ad altri di romantica forza, a sottolineare l'effimera fragilità umana. L'originale scrittura melodica ed il gusto per le costruzioni sinfoniche trovano stavolta maggior concretezza pop e perfino indie-rock, un passo a lato rispetto al più bucolico Sufjan Stevens ed invece due passi incontro al pop tenebroso di The National e The Slow Show, nonostante si percepisca sempre la formazione classica. Una costante positiva anche la scelta della bella copertina.
Voto Microby: 8    
Preferite: The Saints, The Hunger, Freedom (Yeah Yeah!)

lunedì 18 maggio 2020

LUCINDA WILLIAMS


LUCINDA WILLIAMS (2020) Good Souls Better Angels

Per chi scrive Lucinda Williams, 67 anni ed ora al 14° album in studio, è la migliore singer-songwriter americana dell’ultimo quarto di secolo. Affermazione forte, ma non siamo in pochi a pensarla così. Partita nel lontano 1979 col folk-blues sudista (nata in Louisana ma cresciuta tra Mississippi, Texas e Arkansas) di Ramblin’ ed evoluta con paragoni a Townes Van Zandt in un dark-country dalle sfumature blues e soul fino alla meraviglia di “americana” Car Wheels On A Gravel Road (1998), dopo 22 anni ed una serie di eccellenti lavori in continua trasformazione/evoluzione torna a collaborare con il produttore di quel capolavoro, Ray Kennedy, ed insieme al marito Tom Overby, co-autore di molti brani, pubblica ora il suo disco più rock. Affiancata dalla potente band che l’ha accompagnata dal vivo nell’ultimo lustro, grazie ad essa riesce ad apparire meno dolente e rassegnata nel dipingere i consueti ritratti personali e pubblici, locali ed universali del malessere quotidiano, che affronta con la depressione che l’accompagna nella vita ma che stavolta vince con una rabbia appassionata ma controllata, con la voce più dolente ed aspra, amara ed abrasiva di sempre. Il timbro vocale ruvido, pigro, nasale che la caratterizza è immediatamente identificabile, e per i pochi detrattori che non lo sopportano risulta un ostacolo idiosincratico. Se non siete tra questi, oltre alla qualità compositiva ed alla varietà delle canzoni sarete storditi dalla muscolare e corrosiva prestazione di Stuart Mathis, fantastico chitarrista elettrico che con distorsori, slide, wah-wah e suoni sporchi tra rock, hard blues e psych richiama le sferragliate abrasive di Jimi Hendrix e dei Crazy Horse, dando un’impronta torbida e rabbiosa alle composizioni. Evoluzione efficace ma inaspettata da parte della Williams, che negli ultimi album si era invece avvalsa delle altrettanto preziose ma diversissime chitarre jazz di Greg Leisz e Bill Frisell. Evidentemente l’artista non vuole prescindere da chitarristi di grande personalità, ma con Good Souls Better Angels dimostra che un impianto rock è più nelle sue corde rispetto al jazz (a mio parere, l’unica escursione non riuscita della sua carriera è stata quella collaborativa nell’album Vanished Gardens del jazzista Charles Lloyd, anno 2018). Chi in questo difficile momento preferisce affidarsi a suoni levigati e rassicuranti, freschi e leggeri stia alla larga da GSBA (ma si astenga anche da tutta la produzione della Williams). Chi cova rabbia sopita e nasconde ferite non ancora rimarginate, faccia emergere la prima e lenisca le ultime immergendosi in questo grande disco di rock intenso, emozionante, viscerale.
Voto Microby: 8.7    
Preferite: You Can’t Rule Me, Man Without A Soul, Shadows & Doubts

lunedì 11 maggio 2020

JOSE' JAMES


JOSE’ JAMES (2020) No Beginning No End 2

Da sempre descritto come “a jazz singer for the hip-hop generation” (AllMusic), la definizione più il tempo passa e più calza a pennello. Il musicista di colore di Minneapolis ha sempre inciso per la Blue Note (unica eccezione l’attuale lavoro), e cita tra le influenze principali John Coltrane e Marvin Gaye, ma è anche titolare di due tribute-album a Billie Holiday e Bill Withers, ed ascoltando i suoi dischi non si fatica ad evocare Terry Callier come Nat King Cole, Gil Scott-Heron come Sam Cooke, Frank Ocean come Otis Redding. Così come è evidente che le sue influenze vanno dal soul al jazz, dal rock al funk, dal pop all’hip-hop: a differenza di altri artisti, a James riesce molto bene ed in modo apparentemente naturale la crasi tra generi musicali ed ere differenti. No Beginning No End 2, come suggerito dal titolo, è la continuazione dell’omonimo album del 2013 (curiosamente la copertina del primo capitolo lo ritraeva a testa rasata, ora invece con il classico fungo afro), ed è altrettanto bello. Nemmeno la pletora di ospiti (Brett Williams, Marcus Machado, Aloe Blacc, Lizz Wright, Cecily, Laura Mvula, Taali, Erik Truffaz tra gli altri) scompagina un assetto raffinato, caldo ed ordinato, sempre guidato dalla vellutata ed elegante voce (baritonale o in falsetto) del nostro, che decide di proporre un “primo lato” più ritmato e di impronta nu-soul ed un “secondo lato” di ballate romantiche che hanno qualcosa di più del semplice smooth-jazz. Le due anime sono separate da una bella versione della Just The Way You Are di Billy Joel. Potrà non piacere agli specialisti di ogni singolo genere citato, ma dovrebbe incuriosirli tutti, perché pochissimi artisti oggi riescono a citare, fondere e masticare così bene mezzo secolo della nostra musica.
Voto Microby: 8    
Preferite: Saint James, Miss Me When I’m Gone, Oracle

giovedì 7 maggio 2020

Recensione: REN HARVIEU - Revel in The Drama (2020)

Ero impaziente di ascoltare il seguito del bellissimo Through the Night (arrivato nella top 5 delle classifiche d’oltremanica con una serie di recensioni a cinque stelle): ci sono voluti ben 8 anni di attesa, un tempo lunghissimo che faceva pensare ad un disimpegno dalla scena musicale da parte di questa musicista inglese. Del resto non è che abbia passato un bel momento: separatasi dal compagno, dal manager e dal suo contratto ha anche avuto un grave incidente alla colonna vertebrale, tutte condizioni che ne hanno evidentemente quanto meno minato le certezze emotive.
Le citazioni vanno dagli anni ’80 (Kate Bush, Sade, Smiths) per andare indietro a Shirley Bassey e Dusty Springfield o avanti ai giorni nostri con Fiona Apple, Sarah Blasko, Nicole Atkins e soprattutto il pop barocco di Rufus Wainwright. Un disco prevalentemente pop, non banale: l’impressione, tuttavia, è quella di un’operazione un pò confusa e prevedibile che solo in alcuni episodi appare empatica ed ispirata. Insomma, un passo indietro come spesso capita ai secondi lavori: ci può stare. 
Voto: 1/2

lunedì 4 maggio 2020

Recensione prog: PENDRAGON - Love Over Fear (2020)

PENDRAGON - Love Over Fear (2020)

Non sono molte le recensioni del blog nel genere progressive ma questa volta non bisogna omettere la segnalazione di questo notevole lavoro dei Pendragon, maestri del genere, a distanza di 6 anni dal precedente. Dopo l’abbandono del batterista, unitosi alla band di Steve Hackett, e lasciandosi alle spalle soprattutto i toni oscuri e, diciamolo pure, la noia dei precedenti lavori, le tastiere, gli archi e gli arpeggi acustici hanno ricominciato a farla da padroni, secondo la migliore tradizione del prog più classico. La band vede i due leader in grande spolvero: Nick Barrett alle chitarre e Clive Nolan alle tastiere forniscono alla band un ritmo ricco di sfumature e colori, con brani ricchi di melodie, in downtempo con il sax a fornire una linea musicale dolce ma anche energica.

Un disco senza troppi orpelli (beh, un pò ce ne sono, altrimenti che prog sarebbe....), pieno di classe e raffinatezza, onirico e intenso come solo i grandi del genere sanno fare. Da ascoltare: Afraid Of Everything, Truth And Lies, Water.  
Voto: 1/2


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