martedì 28 dicembre 2021

CURTIS HARDING (2021) If Words Were flowers

 


Genere: Soul/R&B

Simili: Michael Kiwanuka, Curtis Mayfield, Bill Withers, Marvin Gaye, Leon Bridges

Voto Microby: 7.8

Preferite: Hopeful, I Won’t Let You Down, Can’t Hide It, Forever More

In occasione della recensione del precedente Face Your Fear (2017) sul nostro blog scrivevamo: “Curtis Harding ha meno coraggio ma più tiro radiofonico di Michael Kiwanuka”. Le coordinate musicali e le considerazioni critiche non mutano in questo terzo sforzo del soulman del Michigan, anch’esso pienamente riuscito: se da una parte le radici risultano vigorosamente piantate nell’humus del soul/R&B Stax-Motown anni ’70 (e gli eroi rispondono ai nomi di Curtis Mayfield, Marvin Gaye, Bill Withers, Wilson Pickett), rami e foglie toccano Michael Kiwanuka (ma non ancora il genio dell’artista londinese di origine ugandese) passando per Stevie Wonder, Gil Scott-Heron e Prince. Così archi soul, fiati errenbi e cori gospel si amalgamano con naturalezza a chitarre psichedeliche e ritmiche urbane (il nostro è chitarrista e batterista) così come a liriche hip hop. Ciliegina sulla torta una splendida voce, versatile e ugualmente calda sia nel baritono che nel falsetto. Harding cita Nina Simone, secondo la quale un artista deve riflettere il proprio tempo: in tal senso il compito è stato svolto egregiamente, dal momento che il suo retro-soul è decisamente proiettato nel presente.   

domenica 19 dicembre 2021

ROBERT PLANT & ALISON KRAUSS (2021) Raise The Roof

 


Genere: Americana, Country-rock, Folk-rock

Simili: Mark Knopfler, Notting Hillbillies, Robbie Robertson, Joe Henry

Voto Microby: 7.4

Preferite: High and Lonesome, Quattro (World Drifts In), Searching For My Love

Che l’amore di Robert Plant per le radici musicali americane non si limitasse all’hard rock-blues di cui è stato alfiere con i Led Zeppelin, è stato abbondantemente palesato dal corpus solistico successivo allo scioglimento della monumentale band inglese: le sue scorribande, sempre di pregevole fattura, nel mondo del rockabilly, del folk-rock, del soul, del blues, della world music, e infine del country nelle sue varie declinazioni lo avevano portato ad ampi riconoscimenti di critica e pubblico, fino a quel Raising Sand che nel 2007 gli aveva garantito un Grammy in coppia con la star bluegrass Alison Krauss. Sono trascorsi stranamente ben 14 anni prima che la coppia, come allora prodotta dalle sapienti meningi di T-Bone Burnett, desse un seguito a quel riuscito album di covers. La produzione di Raise The Roof è perfino più certosina e brillante, spingendosi più dalle parti di una pacata vena Real World/Peter Gabriel nei brani con protagonista Robert Plant, e di una professionale (anche troppo) musica country/americana quando le redini le tiene Alison Krauss. Lontani mille miglia sia l’ardore zeppeliniano (ma anche ogni sfumatura rock) sia il country nashvilliano e il bluegrass. Il parterre di musicisti è costituito solo da primi della classe (basta citare i chitarristi: Bill Frisell, Marc Ribot, David Hidalgo, Buddy Miller, David Pahl) e le reinterpretazioni pescano dall’archivio di Everly Brothers, Allen Toussaint, Merle Haggard, Calexico, Bobby Moore fino a un ideale ponte col folk anglo-scozzese riproponendo Bert Jansch e Anne Briggs. Il tutto risulta a mio parere uno splendido prodotto di impronta curatoriale (sebbene non calligrafica), tuttavia un po’ troppo levigato per riuscire davvero a scaldare il cuore: si fa ammirare, ma non riesce mai veramente a conquistare l’anima. Buono senza eccellere.

lunedì 13 dicembre 2021

JASON ISBELL & The 400 Unit (2021) Georgia Blue

 


Genere: Roots-rock, Soul, Blues, Folk

Simili: Album-tributo

Voto Microby: 8.3

Preferite: Honeysuckle Blue, It’s A Man’s Man’s Man’s World, Cross Bones Style

Jason Isbell aveva promesso che, in caso di vittoria in Georgia dei democratici di Joe Biden (decisiva per le sorti delle ultime presidenziali statunitensi), avrebbe celebrato l’evento con un tribute-album ad autori della Georgia, i cui proventi andranno in beneficienza. Isbell è originario dell’Alabama ma ha adottato come patria musicale la Georgia fin dai tempi della sua militanza nei Drive-By Truckers (dei quali tuttavia non interpreta alcuna canzone). Il risultato musicale è probabilmente superiore a quello politico, a giudicare dai primi passi dell’amministrazione-Biden (anche se “Sleepy Joe” non è certo stato fortunato nell’eredità socio-politica sia americana che internazionale), perché Georgia Blue ha l’unico limite della disomogeneità tipica dei tribute-album (enfatizzata dalla presenza di numerosi ospiti con ruolo da protagonisti, e dall’interpretazione di brani che vanno dagli anni ’60 ai ’90). Per contro, sia nei brani iconici (It’s A Man’s Man’s Man’s World, I’ve Been Loving You Too Long, In Memory of Elizabeth Reed, Nightswimming) che in quelli meno popolari Jason Isbell e la sua band non sbagliano un colpo, né di misura, né di pathos, né di originalità con rispetto della fonte, né tantomeno di tecnica strumentale, che sia al servizio di uno spartito acustico o elettrico (perfino nei classici 12 minuti della cavalcata elettrica della leggendaria canzone degli Allman Brothers). Canzoni di R.E.M., James Brown, Gladys Knight, ABB, Vic Chesnutt, Black Crowes, Drivin’n’Cryin’, Cat Power, Otis Redding, Indigo Girls interpretate con partecipazione e tecnica sopraffina (e con la regia gasperiniana di Isbell) dai 400 Unit all’unisono con il banjo di Béla Fleck, le sei corde elettriche di Sadler Vaden, la voce spettacolare della finora sconosciuta Brittney Spencer, lo straziante violino di Amanda Shires, la ritmica di Steve Gorman (primo batterista dei corvi neri), le tastiere di Peter Levin (Blind Boys of Alabama), l’anima folk-rock di John Paul White (The Civil Wars) e quella folk-blues di Adia Victoria, il contributo vocale delle indie-stars Brandi Carlile e Julien Baker: Georgia Blue non interesserà i millennials e potrà non accontentare tutti gli ascoltatori cresciuti a pane e musica rock (e dintorni) degli anni di riferimento, ma solo per via della frammentazione dei generi, pegno pagato dai tribute-album. Ma, in sé e per sé, rappresenta una raccolta di gioielli che costituisce non solo il mio album preferito di Jason Isbell, ma anche uno dei migliori dischi pubblicati nel 2021.

mercoledì 8 dicembre 2021

Recensione: The Killers - Pressure Machine (2021)

 THE KILLERS - Pressure Machine (2021)


Genere: Acustica

Influenze: Bruce Springsteen, Johnny Cash


Ho sempre considerato i Killers con diffidenza: esponenti di un indie-rock barocco e tronfio, con quelle sferzate synth-pop e le schitarrate da stadio non hanno mai convinto fino in fondo, barcamenandosi tra atmosfere esplosive post-punk ed una sfarzosa new-wave. Va invece dato atto a Brandon Flowers di essersi liberata dal proprio cliché pubblico ed avere condotto i suoi Killers ad una progressiva evoluzione qualitativa nel corso degli anni, spostando sempre più il loro sound verso una musica che sa di deserto e di frontiera, per raccontare non l’America della loro originaria Las Vegas, città dell’effimero e dell’inganno, ma quella più rurale ed ancestrale dall’umanità Faulkneriana. Questo disco in particolare sempre essere quanto Nebraska è stato per Springsteen (anche la copertina lo ricorda): un disco di anima e cuore, polveroso e rurale (ma non palloso, come si potrebbe pensare). In effetti, per fare un paragone, questo disco dovrebbe chiamarsi “Utah” essendo una sorta di concept in bianco e nero sullo stato in cui Brandon Flower ha passato la sua giovinezza. Quando la pandemia di Covid-19 ha interrotto la promozione e il tour mondiale per l’album del 2020 Imploding The Mirage, “tutto si è fermato”, dice Brandon Flowers. “Ed è stata la prima volta dopo tanto tempo che mi sono trovato di fronte al silenzio.  E da quel silenzio questo disco ha cominciato a fiorire”. 

In quest’anno di quarantene sicuramente il disco uscitone meglio.

Da ascoltare: Cody, Sleepwalker, In Another Life.

Voto: 1/2




martedì 26 ottobre 2021

THE STAVES (2021) Good Woman


Genere
: Folk-Pop

Simili: First Aid Kit, Haim, Smoke Fairies

Voto Microby: 6.5

Preferite: Good Woman, Nothing’s Gonna Happen, Devotion

Riponevo parecchie aspettative, dopo l’esordio nel 2012, sul trio al femminile da Watford, poco distante da Londra: il folk inglese sembrava aver trovato una via di espressione equidistante tra quello colto delle sorelle Unthanks e quello indie di Laura Marling. Invece la scelta delle tre sorelle Staveley-Taylor è caduta su una proposta più mainstream. A distanza di quattro anni da un album collaborativo con yMusic ma in realtà di sei anni dal secondo atto autografo (prodotto nel 2015 da Justin Vernon: un folk-pop ancora gentile ibridato con Laurel Canyon), alla terza, attuale fatica le Staves si affidano alla produzione di John Congleton, già a suo agio nel trattare la materia folk in ambito pop (The Decemberists, Angel Olsen), e pubblicano un album che non è né carne né pesce: è sofisticato come il pop dei Fleetwood Mac, ma non possiede né la scrittura della band inglese californiana di adozione, nè l’intima raffinatezza folk delle Unthanks; propone belle armonizzazioni vocali senza tuttavia la brillantezza catchy delle sorelle Soderberg (First Aid Kit, della serie: se usciamo dalla famiglia non funziona); aggiunge spunti indie senza mai nemmeno sfiorare la profondità delle conterranee Smoke Fairies. Ma soprattutto non scalda mai il cuore: un compito calligraficamente ineccepibile, tuttavia lontano dall’arte. Peccato che uno iato di sei anni abbia partorito un topolino.

lunedì 11 ottobre 2021

AYRON JONES (2021) Child of The State


Genere
: Hard-rock, Hard Rock-blues

Simili: Jimi Hendrix, Living Colour, Tom Morello, Gary Clark Jr, Lenny Kravitz

Voto Microby: 7.8

Preferite: Boys From The Puget Sound, Baptized in Muddy Waters, Take Me Away

Non è esattamente classificabile come hard-rock, né nu-metal, né blues, né rock, né soul, ma come altrimenti definire un artista che al suo debutto su album cita ed embrica con perizia ispirativa prima che tecnica Jimi Hendrix, Living Colour, Tom Morello, Soundgarden, Eric Gales, Gary Clark Jr, Lenny Kravitz, Prince? Nato e cresciuto a Seattle, infanzia e gioventù difficili come da iconografia del grunge ma con l’aggravante del colore della pelle (nell’incipit del disco Jones minaccia “I already called the fucking police, cause we’re the baddest bit in town” prima di esplodere rabbiosamente la sua chitarra elettrica), sembra naturale che il nostro urli il proprio malessere come Kurt Cobain in Smell Like Teen Spirit ma contaminandolo con una potente dose di blackness. Lo riassume bene Timothy Monger in AllMusic: “Seattle singer, songwriter, and guitarist Ayron Jones plays a fiery amalgam of Jimi Hendrix-inspired guitar wizardry, heavy grunge grooves, and a hard blues-rock feel with occasional detours into hip-hop and soul”. Sfuggirà ai puristi dei singoli sottogeneri musicali citati (più facile l’approccio per gli amanti di hard rock/nu metal che per quelli di blues/soul), e sarà un peccato, perché invece conquisterà chi ama la contaminazione tra musica nera e bianca non giocata in punta di fioretto ma con la forza propulsiva di sciabolate elettriche sporche, e un cantato non adatto ai tramonti autunnali e ai caminetti invernali, ma alle manifestazioni di lotta e ai garage di Seattle che ci ricongiungono inevitabilmente con la quintessenza di questa musica, sua maestà Jimi Hendrix.

lunedì 27 settembre 2021

LINDSEY BUCKINGHAM (2021) Lindsey Buckingham


Genere
: Soft-rock, Pop ’70

Simili: Fleetwood Mac, Brian Wilson, Don Henley, Neil Finn

Voto Microby: 7.6

Preferite: On The Wrong Side, I Don’t Mind, Blind Love

Lindsey Buckingham non è mai riuscito a crearsi un’identità artistica prescindibile dalla sua appartenenza ai Fleetwood Mac. Non per demeriti propri ma per il peso del marchio FM, di cui peraltro è stato con Stevie Nicks l’artefice del suono di enorme successo commerciale: suoi gli arrangiamenti certosini al limite del perfezionismo, la precisione degli impasti vocali, la brillantezza delle chitarre, la scelta di una sezione ritmica metronomica e radio-friendly. Una frattura clamorosa con un passato da band di punta del British Blues Revival dal suono magmatico e derive nella psichedelia, grazie ad un chitarrista mitico come Peter Green (ombra insuperabile per Lindsey che, pur eccellente chitarrista, ha sempre realisticamente evitato il confronto/sfida), ma che prima del successo commerciale planetario dei ’70 (Rumours del 1977 resta uno dei 5 album più venduti della storia) era riuscita ad ottenere un solo singolo di rilievo, quel Black Magic Woman poi diventato iconico grazie alla versione di Santana. Nella sua attività da solista il cantante e chitarrista di Palo Alto ha più degli ex-sodali continuato il suono dei FM, tuttavia caratterizzandolo con influenze del pop di marca Brian Wilson e quindi col profumo degli anni ’50 e ’60. Non ha mai sfornato un capolavoro, ma sempre dischi tra il discreto ed il buono (Out of The Cradle del 1992 su tutti), di quelli che non sono un must nella discoteca casalinga ma che ti rendono piacevole la giornata quando li ascolti. Quest’ultimo ritorno a 10 anni dal precedente (escluso quello in coppia con Christine McVie nel 2017) è a mio avviso il migliore della sua discografia in proprio: un soft-rock elettroacustico che attraversa la California soleggiata dei ’50-’60-’70 per collegarsi ai Fleetwood Mac degli ’80 (dalle parti di Mirage e Tango In The Night), solo all’apparenza semplice, impreziosito da plettri brillanti, armonie vocali cesellate, arrangiamenti eleganti, orecchiabilità evergreen per un assetto finale piacevole e rasserenante. Non cambierà la storia, ma rende le giornate più gradevoli.

mercoledì 8 settembre 2021

BOBBY GILLESPIE & JEHNNY BETH (2021) Utopian Ashes

 


Genere: Pop-rock, Chamber pop, Country-soul noir

Simili: Nancy Sinatra & Lee Hazelwood, Gram Parsons & Emmylou Harris, Serge Gainsbourg & Jane Birkin

Voto Microby: 7.8

Preferite: English Town, Chase It Down, Remember We Were Lovers

Lo scozzese Bobby Gillespie (frontman dei Primal Scream) e la francese Camille Berthomier (in arte Jehnny Beth, frontwoman delle Savages) non hanno timore di uscire dalla comfort zone delle reciproche bands e deludono chi si attendeva una proposta aggressiva, rock e/o screamadelica, ma di converso affascinano con un pop rétro dalle tinte country-soul noir, assai adatto a raccontare in modo romantico e struggente, senza spigoli né rabbia, la fine di una storia d’amore (non la loro), còlta nella fase in cui entrambi realizzano che la relazione è troppo difficoltosa per proseguirla ma ancora intensa per interromperla senza dolore. Il pathos emerge in modo elegantemente rassegnato, grazie ad una strumentazione quasi da camera, acustica e ricca di plettri, tasti ed archi, e di armonie vocali in cui Gillespie sorprende nel ruolo di malinconico chansonnier e la Beth in quello della controparte dalla voce insolitamente modulata e perfino vibrata. Accompagnano in punta di piedi ma con arrangiamenti ricchi gli altri tre Primal Scream e il basso di Johnny Hostile, partner della Beth nella vita. Un album nella scrittura e nel mood più scozzese che francese, che richiama coppie d’altri tempi, da Nancy Sinatra/Lee Hazelwood ai recenti Lindsey Buckingham/Christine McVie, ma in cui si scorge nascosto il seme di Grievous Angel di Gram Parsons.

martedì 24 agosto 2021

LEON BRIDGES (2021) Gold-Diggers Sound


Genere
: Soul, R&B

Simili: Frank Ocean, Sam Cooke, Black Pumas, Aloe Blacc, Michael Kiwanuka

Voto Microby: 7.6

Preferite: Born Again, Why Don’t You Touch Me?, Don’t Worry

La terza prova del soul-singer texano è vellutata come la voce di Sam Cooke, ed arrangiata alla scuola di Frank Ocean, senza tuttavia possedere il talento compositivo e la leggerezza timbrica del primo né la modernità di approccio del secondo. Bocciato? Neanche per sogno. Dietro un prodotto tanto levigato da sembrare artefatto, che profuma di retro-soul ma in cui non c’è una nota fuori posto che perlomeno finga una dose di spontaneità, occorrono parecchi ascolti per apprezzare una buona scrittura ed un mood malinconico anziché algido. Una produzione che ha appiattito le canzoni, tanto da farle assomigliare l’una all’altra (ai primi ascolti), ed una mestizia che in superficie sconfina nel tedio sono i difetti principali di un album che si fa apprezzare per tutto il resto. Bridges conferma il suo talento soul, diverso da quello amato dai devoti del retro-soul ma anche dai modaioli del nu-soul e dell’alt-R&B, tuttavia è arduo perdonare l’assenza di speranza e gioia in un genere musicale nato e cresciuto col giubilo divino trasformato nel gaudio carnale e permeato dalla fiducia in un mondo, personale e universale, migliore. Va applaudito il coraggio (per uno che faceva il lavapiatti fino alla casuale scoperta di un talent scout) di avere scartato la più comoda via delle classifiche a favore di una rivisitazione personale del classico soul/R&B dei ’50-’60, ma si resta in attesa di una prova definitivamente convincente.

sabato 14 agosto 2021

Recensione: David Crosby - For Free (2021)

DAVID CROSBY - For Free (2021)



Genere: Folk Rock

Influenze: Donald Fagen, Joni Mitchell, CSNY


Qualche mese fa Croz ha fatto notizia per essersi aggiunto all’elenco di artisti che hanno deciso di vendere il proprio catalogo di canzoni per potersi guadagnare da vivere. Dopo il lungo stop da COVID, ancora infatti non è tempo di riprendere i tour: una fastidiosa artrite gli rende difficile suonare la chitarra, tutti i suoi problemi di salute ed anche il brutto carattere che lo ha fatto litigare per l’ennesima volta con i vecchi amici di un tempo Nash e Stills lo hanno portato ad isolarsi ancora di più, scegliendo di chiudersi in sala di incisione insieme al figlio James Raymond. Ecco quindi il quinto disco in sette anni per l’ottantenne David (compie gli anni proprio oggi, 14 agosto) ed il figlio, polistrumentista e da tempo partner creativo e produttore (e che va anche lui per i sessanta…), quasi a voler ricostruire la sua produzione West Coast e riportando la sua scrittura ai fasti californiani degli anni sessanta e settanta. Il lavoro vede all’opera buona parte dei collaboratori che lo accompagnarono nei lavori precedenti con una serie di piccoli grandi supporti da Michael McDonald, Donald Fagen e Brian Wilson. Perfino la copertina, un suo ritratto dipinto da Joan Baez, sembra voglia ulteriormente sottolinearne la statura creativa e poetica.

Il disco prende il nome da una cover di Joni Mitchell (è su “Ladies of the Canyon” del 1970), scritta proprio nello stesso periodo in cui lei e Crosby avevano una relazione e qui riproposta insieme alla bravissima Sarah Jarosz. Non manca inoltre l’omaggio agli Steely Dan (da lui sempre considerata la sua band preferita) includendo un brano (“Rodriguez for a Night “) il cui testo è scritto da Donald Fagen e musicato da James Raymond in una sorta di fusione rock-jazz dalle sfumature lievemente funky.

La voce è in gran forma e le armonie sono perfette, non come ci si aspetterebbe da un ottantenne brizzolato. Un album che vola, caldo e senza fretta.


Da ascoltare: River Rise, For Free, Rodriguez for a Night, I won’t Stay for Long.

Voto:





venerdì 6 agosto 2021

THE BLACK KEYS (2021) Delta Kream


Genere
: Blues elettrico, Rock-blues, Hill Country Blues

Simili: North Mississippi Allstars, Devon Allman, Cedric Burnside

Voto Microby: 7.5

Preferite: Going Down South, Coal Black Mattie, Poor Boy A Long Way From Home

Al duo di Akron va riconosciuto il merito, con White Stripes e Jon Spencer Blues Explosion tra gli altri, di avere agito da testa d’ariete nel riportare all’attenzione degli ascoltatori giovani il blues, spogliato degli abiti tradizionali e sporcato invece con l’indie garage-rock bianco. In vent’anni Dan Auerbach e Patrick Carney hanno spostato le loro traiettorie verso l’airplay radiofonico senza mai vendersi né cercare soluzioni moderne alla loro personale contaminazione con la musica del diavolo. Fino alla svolta attuale che li catapulta in totale territorio blues. Per essere precisi, non un omaggio al Delta Blues, come potrebbero trarre in inganno la copertina e il titolo dell’album, ma all’Hill Country Blues, tipico della regione ad est dell’Interstate-55 e del Delta del Mississippi. Non una questione di lana caprina, dal momento che il Delta Blues chitarra/armonica di Robert Johnson e John Lee Hooker è stato portato a Chicago, elettrificato e reso famoso già negli anni ‘50 da Muddy Waters & Co. fino alla consacrazione mondiale e giovanile bianca con i Rolling Stones, mentre l’Hill Country Blues è rimasto un sottogenere del Mississippi Blues pressochè sconosciuto fino agli anni ’90, con la ri-scoperta dei due eroi del genere: Junior Kimbrough e R.L. Burnside. Artisti omaggiati da covers già nei primi due album dei Black Keys: una passione/ossessione (rivela Auerbach) che parte quindi da lontano, del tutto sincera. Alte quindi erano le aspettative dei fans dei Black Keys e delle dodici battute riguardo all’annunciato album “blues”. Ma bastano pochi ascolti per comprendere il principale difetto di “Delta Kream”: un tributo talmente sincero che risulta perfino troppo filologico, non apportando alcuna novità dal mondo giovane, bianco e sporco all’interno della tradizione del blues elettrico nero. La medesima lacuna (o mancanza di coraggio) che avevano a mio avviso evidenziato i recenti Rolling Stones di Blue & Lonesome (2016). Delta Kream vale un buon lavoro dei North Mississippi Allstars, ma non possiede alcuna caratteristica peculiare che lo distingua da centinaia di buoni album di blues elettrico “non british”. Non vi è più traccia di un approccio indie, o garage, o rock’n’roll, o southern, o pop-rock, o di qualcos’altro di nuovo: un passo deciso dentro la tradizione blues, ma privo di una scintilla che lo distingua da altri lavori simili. Mi aspettavo più originalità, mi resta comunque un compito più che buono. 

martedì 27 luglio 2021

JOHN GRANT (2021) Boy From Michigan

 


Genere: Synth-pop, Indie-rock, Alternative singer-songwriter

Simili: Steve Mason, Steven Wilson, Perfume Genius

Voto Microby: 7.2

Preferite: County Fair, Billy, The Only Baby

Sono sempre stato affascinato e insieme sconcertato, mai indifferente, all’ascolto dei dischi di John Grant, fin dai tempi in cui era leader dei sottovalutati The Czars. Ma soprattutto da quando il bizzarro genio del Michigan si è messo in proprio col debutto Queen of Denmark (2010) , album più amato in Europa che negli States. Amore ricambiato dal momento che Grant ha scelto di vivere molti anni fra Germania, Russia, Inghilterra e Islanda. Da solista Grant ha abbandonato la raffinata miscela di alt-country e dream pop che caratterizzava The Czars (ma anche l’esordio in proprio) per abbracciare il synth pop anni ’80. Decisione sciagurata per la maggior parte dei suoi fans, tuttora riottosi verso i suoni gommosi che guastano le canzoni dell’americano. Guastano, sì: perché anche nei 12 brani di Boy From Michigan ascoltiamo 3-4 belle canzoni, riuscite sia nella scrittura che nella realizzazione, 3 che vorrei pensare pleonastiche (visto che l’album dura 75 minuti) ed invece sono proprio brutte (Best In Me, Rhetorical Figure, Your Portfolio), e le rimanenti che sono compositivamente più che valide ma inutilmente tirate per le lunghe e/o arrangiate in modo a dir poco opinabile, con trionfo di synth e vocoder che forse vorrebbero rifarsi a Kraftwerk ed Einsturzende Neubaten ma che nella pratica risultano pacchiani. Difetto (che evidentemente il nostro non ritiene tale) già esibito nei precedenti album, e che mi fa anche stavolta storcere il naso di fronte all’evidenza del talento sprecato. Peccato perché Boy From Michigan è ad oggi probabilmente il lavoro più romantico ed intimo (nelle intenzioni) della carriera solista del barbuto yankee. Si è scritto che il John Grant di BFM è riuscito a fondere Harry Nilsson con Vangelis, e ritengo l’osservazione pertinente se riferita alle composizioni minori dei due artisti. Nel 2013 su queste pagine chiudevo la recensione di Pale Green Ghosts con una domanda tuttora valida: “Si può rimandare uno studente a settembre con un 7 in pagella? Sì, quando non si tratta di profitto ma di condotta”.

mercoledì 21 luglio 2021

VAN MORRISON (2021) Latest Record Project, Vol. 1

 

Genere: Soul, R&B, Blues, Swing

Simili: Ray Charles, Otis Redding, Jackie Wilson

Voto Microby: 7.7

Preferite

CD1 : Blue Funk, Where Have All The Rebels Gone, No Good Deed Goes Unpunished

CD2 : Duper’s Delight, Jealousy, Why Are You On Facebook?

Ai primi ascolti dell’undicesimo album in undici anni di Van “The Man”, il primo doppio (28 canzoni) in studio dai tempi di Hymns To The Silence (1991), la reazione è stizzita più che annoiata: ma come, la solita, ennesima minestra? Peggiorata dall’ulteriore recente presa di posizione pubblica da negazionista-COVID che ha rinforzato la sua fama di antipatico e misogino. E confermata da testi insolitamente banali, spesso di livello medio- più che tardo-adolescenziale, a tratti imbarazzanti per un artista che ha dimostrato di saper esprimere in modo squisitamente poetico i sentimenti umani. Musicalmente, rispetto alla storica critica di pubblicare da decenni lo stesso disco con i titoli cambiati, ai primi approcci verrebbe perfino da peggiorarla: melodie che sembrano non aver fatto il minimo sforzo per distinguersi dai canovacci del blues e del soul anni ’60 già esaltati dall’irlandese al tempo dei Them, e finanche per differenziarsi l’una dall’altra. Insomma un compito pigro e svogliato, sebbene calligraficamente ineccepibile, eseguito dal primo della classe, ma anche il più antipatico e presuntuoso, senza che le Muse della poesia e della musica abbiano sfiorato il “Latest Record Project”. Poi, come si concede ai geni, si ascolta il lavoro più volte, affidandogli prima il ruolo di sottofondo mentre si svolgono altre faccende, poi l’attenzione a metà durante un lungo viaggio in auto, e progressivamente emergono, insieme all’arcinoto piano musicale, le “solite” qualità: voce straordinaria, musicisti di primo livello, grande rispetto per la musica black anni ’60 che però nelle mani di The Man è diventato in mezzo secolo un celtic soul-blues unico ed inimitabile (ma purtroppo l’aura mistica che pervade tutti i migliori lavori dell’irlandese è assente in LRP, eccetto in un brano, Duper’s Delight). Inoltre la constatazione che almeno musicalmente non esiste un brano debole, e sebbene The Man non ci conceda nemmeno una gemma degna di entrare tra le sue migliori 50 canzoni, il livello medio è buono e almeno 7-8 brani sono melodicamente ottimi. Brillanti i musicisti, sul consueto impianto chitarre-piano-contrabbasso-batteria-cori-fiati (tra cui il sax baritono di Morrison), con nota di merito per l’onnipresente Hammond di Paul Moran. Peccato per la cattiva qualità delle liriche, ispirate sostanzialmente al lockdown-COVID e dintorni (presunte cospirazioni politiche e ruolo dei social network): per dirla con Rolling Stone nella maggior parte dei casi, le 28 canzoni in scaletta sembrano una collezione di tweet, rant su Reddit e post da troll. Nei momenti migliori, Latest Record Project è un bizzarro mix di paranoia e indignazione così cocciuto da risultare quasi divertente. Nei peggiori, con quegli arrangiamenti lounge e la scrittura pigra, il disco è solo una cosa e niente di più: un lungo elenco di lamentele e rimostranze private di Morrison. Nella maggior parte di Latest Record Project Morrison mette in mostra reazioni (e arrangiamenti) superficiali come se fossero prodotti rifiniti. Il risultato è una raccolta di riff e invettive a volte piacevole, altre frustrante, saltuariamente eccitante e in buona parte inascoltabile.” La stroncatura vale all’irlandese un giudizio di 2/5, non isolato dal momento che globalmente i giudizi sono negativi: Metacritic 52/100 (la media delle recensioni worldwide), Pitchfork 5.4/10, AllMusic 2.5/5, Mojo 4/10. Al solito Van Morrison è divisivo: si va dai 2/10 di The Guardian al 9/10 di American Songwriter, e l’amore italico per il mito irlandese garantisce le critiche più benevole, perfino entusiastiche, proprio da parte della critica musicale dello stivale (per lo stimatissimo Aldo Pedron – su Off Topic – “il 42° album di Van Morrison è il più dinamico, il più versatile e contemporaneo da anni… Ancora una volta restiamo meravigliati dalle sue armonie… 2 ore e 7 minuti di musica eccelsa”). Personalmente non lo inserisco tra i suoi lavori imprescindibili, ma certamente tra quelli di buon livello.

lunedì 12 luglio 2021

JOHN SMITH (2021) The Fray

 


Genere
: Singer-songwriter, Folk-pop

Simili: Ben Howard, John Mayer, David Gray, Nick Mulvey

Voto Microby: 7.6

Preferite: Hold On, Deserving, The Best of Me

Cantautore acustico dell’Essex già indicato da John Renbourn come “il futuro della musica folk”, al sesto album il Mario Rossi inglese sembra pronto ad allargare la propria popolarità al pubblico di partecipanti ai concerti (perfetto il teatro), dopo aver conquistato il plauso della critica. Lo fa in virtù di un’apertura maggiore al pop (di stampo John Mayer e David Gray) e alle contaminazioni con il genere ”americana” (i duetti con Sarah Jarosz, Lisa Hannigan e Jessica Staveley-Taylor lambiscono il country-pop). Ma la perizia tecnica (è un eccellente chitarrista fingerstyle, con accordature aperte e percussive sullo stile di Ben Howard) e l’humus antico che cita John Martyn e Martin Simpson donano spessore alle dodici composizioni “sull’amore, la perdita e la speranza” partorite durante il lungo lockdown-Covid. Le atmosfere composte, gli arrangiamenti eleganti, i colori pastello, il tono intimo non conferiscono al disco un alone crepuscolare o confessionale, ma piuttosto luminoso, pacato e conciliante. Registrato ai Real World Studios di Peter Gabriel e con featurings di livello (oltre alle citate, anche Bill Frisell, The Milk Carton Kids, Jason Rebello), The Fray è un ascolto consigliato anche a chi apprezza Iron & Wine, Joe Henry, Jackson Browne, Nick Mulvey, Josè Gonzales.

domenica 27 giugno 2021

Måneskin - Teatro d'ira vol. 1

Teatro d'ira - Vol. I: Maneskin, Maneskin: Amazon.it: Musica Secondo album del gruppo più sorprendente e chiacchierato degli ultimi mesi, non solo in Italia ma anche nel resto del mondo, dove il singolo I wanna be your slave, pezzo di ispirazione RHCP, ha scalato tutte le classifiche, incluse quelle USA. In effetti il lavoro segna nettamente il passaggio della band dalla dimensione della rivelazione X-Factor con un grande successo a livello nazionale a quello di rock band cosmopolita che vuole dimostrare che il rock non è morto, ma anzi prospera proprio perché è diventato un patrimonio dell'umanità, sia di quella dei sobborghi di Liverpool che dei quartieri della media borghesia romana.

Il primo singolo, Zitti e buoni, un pezzo molto energico dal vago sapore glam, ha la sfortuna/fortuna di essere stato conosciuto per la vittoria al Festival di Sanremo e all'Eurovision song contest (molto più sorprendente la prima della seconda). Se ne parla quindi più per il clamore che ha destato che per il fatto che è una gran bella canzone che parla di conflitto generazionale.

Teatro d'ira vol. 1 mostra influenze abbastanza diverse rispetto al precedente Il ballo della vita. Si va dalla struggente, intimista e amara Coraline, alle atmosfere gotiche di La paura del buio (tributo ai mentori Afterhours?), passando per lo stoner de Il nome del padre e il rap di Lividi sui gomiti. Insomma, un lavoro rock'n'roll di una band di ventenni romani che non solo riescono a stare nell'Olimpo mondiale, ma che lo fanno con personalità e originalità derivativa! Scusate se è poco.

 

giovedì 24 giugno 2021

PIERS FACCINI (2021) Shapes of The Fall


Genere
: Folk mediterraneo, Singer-songwriter, musica etnica maghrebina

Simili: Ali Farka Toure, Nick Drake, Mauro Pagani/Fabrizio De Andrè, Pierre Bensusan

Voto Microby: 8

Preferite: Foghorn Calling, Dunya, Together Forever Everywhere

Tra la pletora di cantautori intimisti discendenti da Nick Drake, Piers Faccini si è sempre distinto per il suo approccio multietnico a composizioni nate nell’atmosfera umbratile anglo-francese. A ciò verosimilmente predisposto dalla propria apolidìa: il singer-songwriter, musicista, pittore e fotografo è infatti figlio di padre italiano e di madre inglese di origini russo-tedesche, ma vive con la famiglia dall’età di 5 anni in Francia. Al settimo album (esclusi live, EP, collaborazioni) l’artista “limita” il suo cantautorato acustico e gentile, di architettura albionica, ad influenze moresche, maghrebine e berbere, concedendo solo citazioni delle fasce sub-sahariana e mediorientale ed escludendo invece la tradizione balcanica che nel suo capolavoro My Wilderness (2011) lo avvicinava a tratti a Bregovic e Kusturica. Faccini valorizza in particolare la funzione cerimoniale, rituale ed ipnotica della musica tradizionale berbera Gnawa (etnia discendente dagli schiavi neri subsahariani), facendosi accompagnare tra gli altri dagli strumentisti algerini Malik e Karim Ziad e dal maestro di Gnawa marocchino Abdelkebir Merchane, ma anche da un versatile quartetto d’archi arrangiato dall’amico Luc Suarez, già suo sodale agli esordi come musicista nei Charley Marlowe. Ovviamente gli strumenti suonati sono acustici, con rilievo di kora, oud e tamburello, ed in prima persona di uno strumento a corde (un incrocio tra oud e fretless guitar) costruito appositamente per Faccini, eccellente chitarrista in sé. L’ombra e lo spirito, fino all’ispirazione del Nick Drake di Five Leaves Left aleggiano su tutto l’album, tanto da risultare un lavoro di composto ma versatile e colorato cantautorato folk che parte dall’Inghilterra per attraversare la Francia del sud, l’Andalusia, l’Italia delle isole e l’intero Maghreb. Mai noioso ed anzi ricco di suggestioni e sorprese, Shapes of The Fall non è certo raccomandato a chi ama il ritmo ed il fragore, mentre chi apprezza la fragilità dell’attuale melting pot culturale verrà conquistato dalla sua eterogenea e colta complessità, che riserverà stupore anche fra molti anni.

venerdì 11 giugno 2021

Recensione: Imelda May - 11 Past The Hour

 IMELDA MAY - 11 Past the Hour (2021)


Genere: Americana, Pop Folk, Country

Influenze: Chris Isaak, Dusty Springfield, Chrissie Hynde, Pretenders, Adele


La cantautrice irlandese Imelda May ha iniziato la carriera come cantante country/rockabilly ma da qualche anno, grazie all’influenza di T Bone Burnett che ne aveva prodotto il disco del 2017 Life Love Flesh Blood, ha iniziato a diversificarsi musicalmente spingendosi verso un genere più rivolto all’Americana ed al Pop-Folk . Con quest’ultimo lavoro (il suo sesto) l’esplorazione di nuovi generi è ancora più estesa e, anche se il viraggio è verso musicalità più convenzionali e l’abbandono dell’originario rockabilly è ormai chiaro, il risultato è decisamente interessante: intrigano soprattutto l’atmosfera vagamente noir alla Jacques Brel, la voce sommessa e le divagazioni new wave anni ‘80. Ad aiutarla ci sono Ron Wood, Noel Gallagher, Miles Kane, Tim Bran (produttore di Prima Scream e London Grammar) e Davide Rossi (arrangiatore dei Coldplay e dei Goldfrapp): l’intento è probabilmente quello di fornire referenze “stellate” e farsi apprezzare commercialmente anche al di fuori dei confini irlandesi ma quello che conta è che alla fine l’album funziona ed esprime talento. Da ascoltare: Solace, Don’t Let Me Stand On My Own, Diamonds.

Voto: 1/2




martedì 8 giugno 2021

NICK CAVE & WARREN ELLIS (2021) Carnage


Genere
: Dark-ambient, Singer-songwriter

Simili: Marianne Faithfull, Leonard Cohen, Tindersticks, Lambchop, Scott Walker

Voto Microby: 7.6

Preferite: Carnage, White Elephant, Balcony Man

Sembra abbia fine il lutto per la tragica scomparsa del figlio quindicenne nel 2015, dramma elaborato anche grazie alla plumbea ma bellissima coppia di album a lui dedicata. Ma non ha requie la personale tribolazione dell’artista australiano, che con quest’ultima fatica sembra voglia accollarsi la disperazione del mondo riguardo alla “carneficina” del titolo, veicolata dal COVID19. Come per Skeleton Tree (2016) e Ghosteen (2019), anche per Carnage si può parlare di un lungo sermone indirizzato a sé stesso prima ancora che all’ascoltatore: quella che era una sorta di musica ambient spettrale su cui declamare i testi è diventata ora meno angosciante sebbene resti profondamente triste, meno implosiva ma con possibili aperture di speranza, sebbene solo nell’aldilà (“there’s a kingdom in the sky, we’re all coming home”, recita in White Elephant). Dopo 25 anni di intensa collaborazione, con i Bad Seeds ma soprattutto in coppia nella composizione ed esecuzione di eccellenti colonne sonore, per la prima volta l’album è cointestato all’ormai imprescindibile amico-musicista Warren Ellis, che mutate mutandis svolge in Carnage un lavoro simile a quello pubblicato in coppia con Marianne Faithfull (per lei disporre un tappeto sonoro adeguato alla recitazione delle poesie romantiche inglesi contenute nel recente She Walks In Beauty; per Cave comporre ed eseguire soundscapes desolati ma anche solenni a supporto delle sue lunghe orazioni). Tra gospel bianchi, blues ieratici, litanie apocalittiche, melodie minimali il risultato finale è, manco a dirlo, di valore, sebbene lievemente inferiore ai tre lavori che l’hanno preceduto, a partire da Push The Sky Away (2013) che per la prima volta negli ultimi tre lustri abbandonava la furia dei Birthday Party ed il rock d’assalto dei Grinderman per riaffidarsi ai Bad Seeds più espressivi per sottrazione. Chi si approccia al Cave dell’ultimo decennio sa di rinunciare a ritmo e gioia, ma può trovare empatia nello spleen che da sempre appartiene al Re Inchiostro ma, in quest’ultimo lavoro, anche deboli sprazzi di luce che suggeriscono una pacificazione finale. Ma in ultima analisi Carnage rappresenta, citando Soriano, un riuscito quadro “triste, solitario y final”.

lunedì 31 maggio 2021

SQUID (2021) Bright Green Field


Genere
: Post-punk, Punk-funk, Alternative Rock

Simili: The Fall, Talking Heads, Pere Ubu, Neu!, black midi, Suicide

Voto Microby: 8

Preferite: G.S.K., Narrator, Pamphlets

L’attacco del primo brano, G.S.K., ricorda immediatamente quello di The Magnificent Seven dei Clash, ma a subentrare non è la voce di Joe Strummer ma quella di Ollie Judge, batterista e cantante dalla timbrica che è un ibrido tra David Byrne e Alex Kapranos. In effetti il totem Talking Heads emerge prepotente con l’ascolto del debutto della band di Brighton, ma anche il punk-funk di successo dei Franz Ferdinand. Senza la pulizia formale e l’abbrivio pop (nevrotico del combo newyorkese, catchy di quello scozzese, danzereccio di entrambi), ma anzi con la rabbia e l’urgenza del punk di fine seventies, modello The Fall, forse vera spiritual guidance dei cinque quasi trentenni inglesi. Ma come tutte le band emerse dalla fucina di talenti del Windmill di Brixton (da lì, insieme ai nostri, altri gruppi da tenere d’occhio: Black Country New Road, black midi, Shame) gli Squid pascolano nell’intellighenzia alternative-rock degli anni ‘70 (il kraut-math rock soprattutto di marca Neu! e Can, e i ritmi sghembi dei King Crimson post-prog) e degli ‘80 (Pere Ubu, Gang of Four, The Gun Club, Pixies, Suicide). Chitarre nevrotiche, tastiere distorte e fiati in stile-dub dipingono bene una tensione masticata più che immediata, lontana mille miglia dal tiro radiofonico del punk-pop alla Green Day/Offspring/Blink 182 ma anche da quello recente, compatto sebbene malato di Idles, Fontaines D.C., Viagra Boys. Senza mire di classifica (anche se l’emergente scena post-punk britannica di cui fanno parte sta facendo tendenza) e che anzi ripropone la musica non come mestiere con un finale da rockstar, ma piuttosto come espressione artistica viscerale, brain-gut, di un malessere interiore, personale e sociale. Nel caso degli Squid (così come delle altre band del Windmill) supportata da talento vero.

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