mercoledì 29 luglio 2020

HAMILTON LEITHAUSER


HAMILTON LEITHAUSER (2020) The Loves of Your Life




Il timbro vocale acuto di Hamilton Leithauser, a metà strada tra quello limpido di Sting e quello nevrotico di David Byrne, ha sempre contraddistinto The Walkmen, la band di cui è frontman (tuttora: nonostante sia discograficamente fermo dal 2012, il combo newyorkese non si è mai ufficialmente sciolto), col suo indie-rock pianistico che aveva ingentilito le radici garage e post-punk dei membri del gruppo. Durante questo iato di otto anni il cantante e chitarrista ha collaborato con membri di Vampire Weekend, Shins, Dirty Projectors e Fleet Foxes (per questi ultimi è stato anche open act in un tour mondiale; il sottoscritto lo ammirò a Ferrara nel 2017), e pubblicato tre validi album in cui progressivamente le influenze del neo-folk colto e letterario alla Fleet Foxes/Mumford & Sons hanno preso il sopravvento. Il risultato è che ora il nostro conserva l’urgenza punk cantautoriale di Frank Turner o Sam Fender al servizio di un suono acustico ma pieno, ricco di plettri, tasti e cori come da lezione-Foxes, con un approccio insieme melodico e vibrante , per raccontare storie di amori diurni e notturni della Big apple. Per chi non lo conoscesse, The Loves of Your Life rappresenta un ottimo biglietto da visita.
Voto Microby: 7.8
Preferite: Isabella, Here They Come, Cross Sound Ferry

martedì 14 luglio 2020

OTHER LIVES


OTHER LIVES (2020) For Their Love

Sembra ieri che Tamer Animals, capolavoro di dark-pop orchestrale del 2011, colpiva dritto al cuore critica e pubblico garantendo agli Other Lives lo status di next big thing. Il quintetto dell’Oklahoma (ma dall’architettura musicale di impronta albionica) non commetteva lo sbaglio di bruciare le tappe ma incorreva nell’errore opposto, pubblicando un solo album nel 2015, Rituals, che tradiva le aspettative generali con un’evoluzione nel pop elettronico cerebrale di marca Radiohead/Alt J, ma senza altrettanto talento. Con i ritmi del mercato odierno il rischio di cadere nel dimenticatoio era dietro l’angolo. Invece la band da sempre guidata dal cantante e compositore Jesse Tabish risponde ora con un ritorno alle atmosfere del disco che li aveva segnalati, senza altrettanta genialità ma con ottima ispirazione, linee melodiche affascinanti, spleen decadente e realizzazione da primi della classe del chamber-pop romantico. Un impianto acustico da musica classica da camera (plettri, tasti, archi e una misurata sezione ritmica) utilizzato come un quintetto pop che riprende le visioni di Moody Blues e Procol Harum per collegarle a San Fermin, Woodkid, Agnes Obel o gli ultimi The National. Bel disco, con la speranza che dia al gruppo più sicurezza nei propri mezzi e non licenzi solo un lavoro per lustro, come fatto finora.
Voto Microby: 8    
Preferite: Cops, Lost Day, Sound of Violence

mercoledì 1 luglio 2020

NEIL YOUNG


NEIL YOUNG (2020) Homegrown

Lenire il dolore di una separazione attraverso l'opera d'arte, musicale o letteraria o figurativa che sia, è talmente comune che la maggior parte degli artisti ne ha una nel proprio carniere, e così molti musicisti hanno un break-up album nella propria discografia. La storia personale di Neil Young è talmente jellata che si potrebbe permettere una collana di dischi di elaborazione del dolore: già affetto personalmente da postumi (modesti) di poliomielite, da diabete mellito insulino-dipendente, un aneurisma cerebrale ed epilessia, ha avuto la sfortuna di avere da due donne diverse due figli con paralisi cerebrale infantile ed una figlia con epilessia, e nel contesto di soffrire la scomparsa per droga di due cari amici di vecchia data e di trovarsi a chiudere la relazione con l'attrice Carrie Snodgress, evento che costituì il primum movens della scrittura di Homegrown. Siamo nel 1974, all'apice del successo artistico e commerciale del canadese, anche grazie alla sofferenza che trapela dai suoi dischi e che riesce a comunicare come sentimento universale. Il pellegrinaggio a Lourdes non si addice ad un'ateo convinto, ecco perciò che l'elaborazione del lutto passa attraverso quella che sarà ricordata come la trilogia del dolore: Time Fades Away (1973), On The Beach (1974) e Tonight's The Night (1975), gli ultimi due capolavori assoluti, da sempre considerati tra i dischi più plumbei e disperati del decennio. Ma tra il giugno 1974 ed il gennaio 1975 Young scrisse ed incise anche l'attuale Homegrown, mai pubblicato finora. E' Neil Young stesso ad ammettere ora che, avendo già composto e realizzato Homegrown e Tonight's The Night, ritenne il primo pudicamente troppo intimo e privato per essere mercificato, e che lo scarto qualitativo a favore del secondo fosse talmente evidente da riporre nel cassetto il primo. Forse anche su suggerimento del bassista Rick Danko, che come altri di The Band (il chitarrista Robbie Robertson ed il batterista Levon Helm in primis) collaborava attivamente col canadese su quel progetto. Ben 45 anni dopo sfila l'album dal cassetto e lo pubblica: un brano è già noto perchè inserito nell'antologia Decade (1977) (Love Is A Rose), altri sono conosciuti in versione diversa perchè pubblicati in dischi successivi, ed ora proposti in quella originale (Star of Bethlehem, Homegrown, Little Wing, White Line) e sette sono del tutto inediti (tra questi, per essere chiari, nessun brano-killer). Molte canzoni danno l'impressione di non essere rifinite, limate, ripensate, come fossero delle outtakes piuttosto che il corpo di un album fatto e finito. O più probabilmente esprimono lo stato d'animo del loner canadese al momento: vulnerabile, incerto, conflittuale, tormentato. La sorpresa più importante è che l'atmosfera generale del lavoro non è lugubre come quella dei capitoli della trilogia, anzi spesso al di là dei testi non si ha musicalmente l'impressione di un uomo ripiegato su sè stesso, ma di uno che cerca il calore di una condivisione con gli amici, attraverso momenti di pacificata accettazione del destino, altri di pacato disincanto, altri di candida leggerezza, altri ancora di rabbia controllata in blues elettrici. Probabilmente la spontaneità che ci aspetteremmo da una jam tra amici in una cantina, tipo The Basement Tapes dylanbandiani. Forse da qui anche l'impressione di un "buona la prima" che rende immediata la fruizione del lavoro, ma anche quella di scarsa omogeneità globale, tra ballate acustiche alla Harvest e rasoiate elettriche alla Crazy Horse (nel 1975 il nostro avrebbe pubblicato Zuma); oltre ad un brano parlato totalmente inutile (Florida) e ad un paio di canzoni quantomeno pleonastiche (Kansas e We Don't Smoke It). Giusto quindi considerare Homegrown un album diverso dai precedenti, e piuttosto, per esplicita ammissione di Young, "il ponte inascoltato tra Harvest e Comes A Time". Al netto di tutte le precedenti considerazioni, resta un disco che non sarebbe stato un capolavoro nel 1975 e quindi meno che meno nel 2020, ma che è invecchiato bene e si ascolta con molto piacere (giudizio che vale per gli appassionati dei suoni westcoastiani dei seventies, non certo per i millennials). Diavolo d'un canadese, col suo dolore ci ha distribuito piacere come la lingua che batte dove il dente duole.
Voto Microby: 7.5    
Preferite: Vacancy, Love Is A Rose, Separate Ways

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