lunedì 31 maggio 2021

SQUID (2021) Bright Green Field


Genere
: Post-punk, Punk-funk, Alternative Rock

Simili: The Fall, Talking Heads, Pere Ubu, Neu!, black midi, Suicide

Voto Microby: 8

Preferite: G.S.K., Narrator, Pamphlets

L’attacco del primo brano, G.S.K., ricorda immediatamente quello di The Magnificent Seven dei Clash, ma a subentrare non è la voce di Joe Strummer ma quella di Ollie Judge, batterista e cantante dalla timbrica che è un ibrido tra David Byrne e Alex Kapranos. In effetti il totem Talking Heads emerge prepotente con l’ascolto del debutto della band di Brighton, ma anche il punk-funk di successo dei Franz Ferdinand. Senza la pulizia formale e l’abbrivio pop (nevrotico del combo newyorkese, catchy di quello scozzese, danzereccio di entrambi), ma anzi con la rabbia e l’urgenza del punk di fine seventies, modello The Fall, forse vera spiritual guidance dei cinque quasi trentenni inglesi. Ma come tutte le band emerse dalla fucina di talenti del Windmill di Brixton (da lì, insieme ai nostri, altri gruppi da tenere d’occhio: Black Country New Road, black midi, Shame) gli Squid pascolano nell’intellighenzia alternative-rock degli anni ‘70 (il kraut-math rock soprattutto di marca Neu! e Can, e i ritmi sghembi dei King Crimson post-prog) e degli ‘80 (Pere Ubu, Gang of Four, The Gun Club, Pixies, Suicide). Chitarre nevrotiche, tastiere distorte e fiati in stile-dub dipingono bene una tensione masticata più che immediata, lontana mille miglia dal tiro radiofonico del punk-pop alla Green Day/Offspring/Blink 182 ma anche da quello recente, compatto sebbene malato di Idles, Fontaines D.C., Viagra Boys. Senza mire di classifica (anche se l’emergente scena post-punk britannica di cui fanno parte sta facendo tendenza) e che anzi ripropone la musica non come mestiere con un finale da rockstar, ma piuttosto come espressione artistica viscerale, brain-gut, di un malessere interiore, personale e sociale. Nel caso degli Squid (così come delle altre band del Windmill) supportata da talento vero.

venerdì 21 maggio 2021

VIAGRA BOYS (2021) Welfare Jazz


Genere
: Post-punk, Noise rock

Simili: Protomartyr, Iggy Pop, Shame

Voto Microby: 8

Preferite: Ain’t Nice, Into The Sun, 6 Shooter


Non sono cresciuti nel giro del Windmill di Brixton come le band dell’emergente scena post-rock inglese, e si sente. Anche in positivo, perché quanto si ascolta dal sestetto di Stoccolma è meno cerebrale ma più immediato dei Black Country, New Road, meno visionario ma più eclettico degli Squid, e dal potenziale radiofonico anche superiore alla scena post-punk di Idles, Protomartyr, Fontaines D.C., Iceage, rispetto ai quali è altrettanto incazzato ma musicalmente meno furioso. Minimo comun denominatore è la spigolosità delle composizioni così come la decostruzione delle melodie, e di converso la rumoristica strutturata in suono, gli arrangiamenti urticanti associati a strumenti carezzevoli, in un assetto generale schizoide che sembra partire dal 21st Century Schizoid Man di crimsoniana memoria. Assetto quindi ben lontano dalla brutale semplicità del punk, e che si pasce anzi di kraut-rock, dell’Iggy Pop più malato, del David Bowie della trilogia berlinese (o dell’ultimo Blackstar), dei Morphine meno intellettuali, del Jim Morrison più deviato (peraltro Sebastian Murphy, il cantante della band svedese, è residente a Stoccolma ma cresciuto a San Francisco come il leader dei Doors). Da quanto scritto potrebbe sembrare un disco complicato e respingente, ed invece è poliedrico (l’urgenza punk serve brani electro-rock, strumentali dark, strutture R&B, beats new wave, perfino una cover country-punk di John Prine) e finanche orecchiabile, e si farà ricordare.

mercoledì 12 maggio 2021

JON BATISTE (2021) We Are


Genere
: Soul, R&B, Funk, Hip-hop

Simili: Meters, E.W.& F., Stevie Wonder, Outkast

Voto Microby: 7.5

Preferite: Cry, Show Me The Way, Tell The Truth

Una carriera già avviata da sette dischi di impronta jazz, sia di piano-solo che di approccio orchestrale, ed una notorietà che gli arride da anni in veste di band leader del The Late Show with Stephen Colbert (sulla CBS), e poi arriva un fresco Golden Globe (poi Oscar) per la canzone Soul (ma ve ne sono altre 12 a suo nome nella colonna sonora) della Pixar, ad aprire le porte di un pout pourri musicale più ampio. Perché Jon Batiste è un eccellente polistrumentista dotato di voce carismatica e di un bagaglio di cultura black che parte dai ’60 ed arriva da attivista al movimento Black Lives Matter. Non a caso We Are prende spunto dalla revue politico-musicale che lo stesso Batiste aveva guidato pre-Covid per le vie di Manhattan dal titolo programmatico “We are: A Peaceful Protest March With Music”. Con We Are per la prima volta l’artista rompe gli indugi con decisione e ci propone la ricetta più pop-olare della musica nera americana: un caleidoscopico, allegro, libero e fresco cocktail di soul, errebì, gospel, funk, jazz, hip-hop che richiama Meters, Earth Wind & Fire, Wilson Pickett, Al Green, Sly & The Family Stone, Stevie Wonder ma che l’imprimatur di Quincy Jones collega all’hip-hop Outkast-style ed al New Orleans sound di Trombone Shorty (della partita). We Are non è un capolavoro perché non è il primo disco a tentare una così ampia escursione nella musica black, ma soprattutto perché i singoli sottogeneri citati sono esibiti separatamente, per singola canzone, non costituendo una crasi omogenea, risultando talvolta dispersivi. Ma c’è materiale a sufficienza per soddisfare gli appassionati della tradizione musicale nera degli ultimi cento anni (ed allontanare quelli che non la sopportano). Anche dal punto di vista strettamente politico, nonostante testi affatto banali ed a spinta per lo più positiva, dubito che We Are possa rappresentare le istanze della cultura nera contemporanea così come lo fece What’s Going On di Marvin Gaye per quella degli anni ’70.

domenica 9 maggio 2021

Recensione. Greta Van Fleet - The Battle at Garden's Gate (2021)

 GRETA VAN FLEET - The Battle At Garden’s Gate (2021)



Genere: Rock-Blues, Hard-Rock, Psichedelia

Influenze: Led Zeppelin, Rush, Black Crowes


Non sottolineo nulla di nuovo rimarcando l’estrema somiglianza ai Led Zeppelin di questi americani del Michigan, al terzo lavoro dopo un EP del 2017 ed al celebrato (e discusso) Anthem of the Peaceful Army del 2018. Questa loro caratteristica peraltro non è da buttare via, assolutamente, soprattutto in un periodo in cui non è molto popolare proporre il classic-rock mentre i colleghi coetanei sono per lo più nel giro rap, trip-hop e amenità varie. Anche in questo lavoro l’influenza del dirigibile si sente ancora, magari in maniera meno evidente (anche se la voce “plantiana” rimane sempre a ricordarcela), ma qua e là abbiamo anche “l’ingresso” di sonorità di stampo quasi californiano e psichedelico (The Barbarians, Light My Love). Heat Above inizia con un intro quasi prog che sfocia in una power ballad elettroacustica dallo stile del disco precedente; la successiva My Way, Soon è un brano decisamente più rock mentre Broken Bells è una languida ballata il cui attacco (ma anche l’assolo finale) ricorda chiaramente Stairway To Heaven. Il rock-blues di Built By Nations è forse la più zeppeliniana di tutto il disco, un solido rock-blues che fa il paio con Age Of Machine caratterizzata da un bell’intro di chitarra e sezione ritmica, dal suono anni 70 così come The Weight of Dreams, mentre la lenta Tears Of Rain invade ancora i territori prog-rock nei dintorni dei Rush. Derivativi e divisivi, ma di ottimo impatto. Si tratta di un buon disco di sano rock, consistente e creativo. Niente preconcetti, please. Da ascoltare: Heat Above, Broken Bells, Built By Nations.

Voto: 1/2




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