martedì 24 dicembre 2019

Recensioni: Joe Henry - The Gospel According to Water; Philip Bailey - Love Will Find a Way

JOE HENRY - The Gospel According To Water (2019) 

JH è diventato negli ultimi tempi uno dei più richiesti produttori ma non bisogna dimenticare che in realtà nasce come autore, peraltro con album di ottimo livello.  A due anni dal precedente “Thrum” e dalla diagnosi di tumore alla prostata, notizia che indubbiamente gli ha cambiato la vita, ha scritto di getto questa serie di canzoni dall’atmosfera raccolta ed intima, scarne ed essenziali, senza batterie e con il basso solo in un brano. Ballate folkeggianti, lente e profonde, ma anche intense, sicuramente molto dylaniane. Da ascoltare: Orson Welles, Green of the Afternoon, Salt and Sugar.      Voto: 1/2






PHILIP BAILEY - Love Will Find a Way (2019)

Il 68enne leader degli Earth, Wind & Fire, con il suo iconico falsetto, alter-ego del baritonale Maurice White, aveva già provato più volte a fare qualcosa da solo e, eccezion fatta per il suo terzo album da solista (1984) Chinese Wall (che includeva Easy Lover, hit mondiale in duetto con Phil Collins), non era mai stato in grado di replicarne ispirazione e successo. Questo nuovo lavoro, impreziosito dal contributo di Steve Gadd, Chick Corea, Kamasi Washington (che curiosamente frequentava la chiesa locale insieme ai figli di Bailey), Robert Glasper ed altri brillanti esponenti del jazz contemporaneo, sembra fornire nuova linfa alla sua carriera. Il disco è composto per la maggior parte di cover (Curtis Mayfield, Chick Corea, Talking Heads, Marvin Gaye): a comandare è decisamente il jazz contemporaneo con ampie contaminazioni, tra R&B e spiritual, afrobeat e soul-jazz.  sono senza dubbio interessanti e coinvolgenti. Da ascoltare: Sacred Sounds, We’re a Winner, Billy Jack. Voto: 1/2


venerdì 20 dicembre 2019

TEMPLES, THE CACTUS BLOSSOMS


TEMPLES (2019) Hot Motion



Evidentemente non del tutto soddisfatto (nemmeno noi) dalla svolta pop un po’ tronfia del penultimo Volcano (2017), il quartetto inglese fa un relativo passo indietro verso le atmosfere psych-pop sixties del bel debutto (Sun Structures, 2014). Al solito belle le melodie, ahimè anche stavolta penalizzate da suoni ipersaturi ed una produzione chiassosa. Sicchè il merseybeat kinksiano che all’esordio riusciva così bene ad amalgamarsi con Syd Barrett ed i Beatles psichedelici, appare ora distorto da un approccio più in sintonia con i Tame Impala. Complessivamente un discreto album, più apprezzabile nei singoli brani ma un po’ stucchevole nell’insieme.
Voto Microby: 7.3

Preferite: You’re Either On Something, Not Quite The Same, It’s All Coming Out
 
THE CACTUS BLOSSOMS (2019) Easy Way

Ben scritta, arrangiata e confezionata, la terza prova in studio del duo di Minneapolis (i fratelli Jack e Page Burkum) resta una musica derivativa, che anche nelle intenzioni non propone novità rispetto a quanto già pubblicato in passato da Everly Brothers in primis, ed a seguire Simon & Garfunkel, The Proclaimers, Kings of Convenience, Milk Carton Kids. Piacevole ma già ascoltato.
Voto Microby: 7.3
Preferite: Don’t Call Me Crazy, Downtown, Boomerang


lunedì 16 dicembre 2019

Recensione: The Who - Who (2019)

THE WHO - WHO (2019) 

Assolutamente inatteso il nuovo disco di Roger Daltrey e Pete Townshend, unici sopravvissuti (nel vero senso del termine) dello storico gruppo inglese. Il precedente album era stato pubblicato nel 2006 (“Endless Wire”) e probabilmente l’input maggiore deriva dall’iperattivo Roger Daltrey, autore di un lavoro insieme a Wilco Johnson ed ispiratore della recente versione orchestrale di Tommy. Altra cosa inattesa è che senza dubbio si tratta del migliore album degli Who da almeno 40 anni (peraltro segnati dalla pubblicazione di soli tre album, Face Dances, It’s Hard ed il già citato Endless Wire…). Quest’ultimo invece è davvero un buon lavoro, qualcosa da fare ascoltare ai figli per fargli capire chi erano e che cosa hanno rappresentato gli Who nella storia della musica anglosassone. Collaborano i soliti fedeli Pino Palladino al basso e Zak Starkey (il figlio di Ringo) alla batteria. L’inizio (“All This Music Must Fade”) è quello tipico di un disco degli Who con gli stacchi chitarristici per i quali sono celebri; poi seguono altri brani rock’n’roll e rock-blues dai tempi giusti, coinvolgenti e grintosi e si finisce (nella versione Deluxe) con tre demo di brani inediti degli anni ’60. Davvero un buon disco. Da ascoltare: All This Music Must Fade, I Don't Wanna Get Wise, Beads On One String.  Voto:


sabato 14 dicembre 2019

THE REMBRANDTS, BON IVER


THE REMBRANDTS (2019) Via Satellite



Il duo power-pop losangeleno Danny Wilde + Phil Solem non rappresenta solo la one-hit wonder di I’ll Be There For You, arcinoto tema della popolarissima sitcom Friends. Dal 1990 al 2001 ci ha anzi deliziato con una manciata di album di guitar-pop gentile di chiara derivazione beatlesiana ma ben screziato dagli umori e i colori della California. Poi un misterioso iato di 18 anni, interrotto ora da Via Satellite, un lavoro che non tiene conto del nuovo millennio ed anzi prosegue il discorso musicale esattamente là dove era stato solo sospeso: così pare di ascoltare (soprattutto nella seconda parte) una collaborazione tra le penne di Neil Finn e Tom Petty per un risultato alla Crowded House meno pop e più americani. Nulla di nuovo, ma un piacere per le orecchie.
Voto Microby: 7.6
Preferite: You’d Think I’d Know, On My Own, How Far Would You Go

BON IVER (2019) I, I

Logica prosecuzione del controverso ma genialoide 22, A Million (2016), straniante album di “cantautorato elettronico” non rimasto episodio isolato, come dimostra non solo l’attuale disco ma anche l’attività live di Justin Vernon nello scorso triennio, il canadese bissa il precedente lavoro con la medesima voce filtrata, i beats elettronici, il substrato apparentemente glaciale, i samples, tra Laurie Anderson, Eno/Byrne, James Blake. Tutto ancora ostico ed apprezzabile solo dopo molti ed attenti ascolti, con tuttavia i limiti di una scrittura meno brillante e soprattutto il fatto che tale visione musicale non rappresenta più una sorpresa. Limite non da poco in un genere che rifiuta la staticità ed anzi presuppone una continua ricerca.
Voto Microby: 7.4
Preferite: Hey Ma, U (Man Like), Naeem



sabato 7 dicembre 2019

VAN MORRISON


VAN MORRISON (2019) Three Chords And The Truth



Sesto album in 4 anni (secondo di materiale autografo dopo Keep Me Singing del 2016), di qualità mai meno che buona per il rossocrinito e notoriamente antipatico fuoriclasse irlandese. In tanta prolificità, che sia l’interpretazione di standards blues/jazz/soul o di canzoni di nuovo conio, si ripropone l’annosa diatriba tra i detrattori dell’artista ora 74enne, che lo accusano di ripetere da mezzo secolo il medesimo disco, ed i suoi sostenitori, incantati di volta in volta dal suo “celtic soul”, mistica fusione di folk irlandese, soul, blues, rhythm’n’blues, jazz --con occasionali ma sapienti derive dal genere verso il pop/country/rock— sottogenere di cui è inventore e massimo interprete, visto che si contano centinaia di tentativi di imitazione e tuttavia il cowboy di Belfast rimane insuperato. Three Chords And The Truth (“tre accordi e la verità”, sentenza con la quale negli anni ’50 il musicista americano Harlan Howard aveva definito la musica country, genere totalmente assente nel disco che stiamo recensendo) è la logica prosecuzione del più brillante (per ispirazione) Keep Me Singing, ed è un ottimo disco, che sarebbe da considerare in assoluto eccellente, non fosse che il difettuccio sbandierato dai detrattori, e cioè la ripetitività degli schemi musicali (sia nel singolo brano che nella costruzione dell’album) di George Ivan Morrison, si palesa anche in quest’ultimo sforzo. Dove si apprezzano brillanti ed eleganti brani che vanno dal soul, al blues, all’R’n’B, al rock’n’roll, al jazz, alla ballata mistica: al solito suonato splendidamente, e che invecchierà altrettanto bene, visto che si muove nell’ambito di linee musicali classiche e pertanto evergreen. Non un brano che emerga sugli altri, ma almeno 4-5 eccellenti in un paniere ricco di belle canzoni. A mio parere Three Chords And The Truth entra a far parte della manciata di lavori (con Down The Road del 2002, Magic Time del 2005, Keep Me Singing del 2016) di maggior peso tra i 14 (!!) album in studio pubblicati nel nuovo millennio. Non certo un artista che pensa a “quota 100”.
Voto Microby: 7.8
Preferite: You Don’t Understand, Three Chords And The Truth, Nobody In Charge

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