lunedì 23 ottobre 2017

THE WATERBOYS, FLOTATION TOY WARNING


THE WATERBOYS (2017) Out of All This Blue



Mike Scott sta attraversando un periodo di fertile ed energica creatività, evidentemente incomprimibile in modo più sintetico vista la necessità di pubblicare un CD doppio (23 canzoni per 100 minuti; altre 11 tra alternate version, strumentali, live, remix in un terzo bonus disk). Assumendosi i rischi del caso, non tutti dribblati. Il primo dato positivo e non sorprendente per i followers del dotato storyteller scozzese è che dopo la new wave tinta di dark degli esordi, il folk-rock celtico di mezzo, il rock mainstream e quindi colto successivi abbia attualmente approcciato la musica black: i costanti guizzi funky della chitarra ritmica e la prepotente ribalta della batteria non necessitano del supporto di archi e fiati (usati con parsimonia) perché la scrittura pop-rock si addentri nei territori Motown del R&B e del funky dei seventies. Generi che allora esprimevano gioia, esattamente come i Waterboys estroversi e comunicativi di oggi: senza per questo rinunciare a quella “big music” (un suono pieno, epico, romantico, di muscoli e di cuore ma di ispirazione mistica e filosofica) da loro inventata ed impugnata per descrivere molti coevi scozzesi (vedi Simple Minds, In Tua Nua, Hothouse Flowers, Big Country). Le note (poco) dolenti stanno nella prolissità del progetto (un taglio di 7-8 brani, piacevoli ma ridondanti, avrebbe giovato a sintesi ed incisività) e di alcuni singoli brani, in sé anche riusciti ma dalle “code” troppo tirate per le lunghe. Del tutto per completisti inoltre il bonus disk, che si ascolta quando ormai l’attenzione è scemata. Ma come per il precedente Modern Blues di 2 anni fa, la scrittura è di ottimo livello, la passione trasuda, l’energia è contagiosa e la classe palpabile. Un primo disco ottimo, un secondo discreto, un terzo senza valutazione. Per una band che dal vivo darà, al solito, spettacolo.
Voto Microby: 8
Preferite: Do We Choose Who We Love, If The Answer Is Yeah, New York I Love You, Nashville Tennessee


FLOTATION TOY WARNING (2017) The Machine That Made Us

Arriva solo 12 anni dopo il bel debutto (Bluffer’s Guide To The Flight Deck, 2005) la seconda prova di questo quintetto inglese originale (non solo nella ragione sociale, ma anche nei titoli di album e canzoni, nei temi dei testi e soprattutto negli arrangiamenti). Non cambiano le coordinate, che guardano alla new wave albionica colta e al pop intelligente degli ’80 (leggi XTC) così come alle proposte musicali mesmeriche ed affascinanti degli americani Mercury Rev e Midlake nei ’90. Ora come all’esordio col difetto di proporre melodie belle ma prolisse nello svolgimento, ed arrangiamenti singolari (quasi assenti le chitarre, cospicui i cori) ma talvolta ridondanti. Elegantemente stravaganti.
Voto Microby: 7.4
Preferite: A Season Underground, King of Foxgloves, Controlling The Sea 




giovedì 19 ottobre 2017

ELLIE HOLCOMB


ELLIE HOLCOMB (2017) Red Sea Road



Al secolo Elizabeth Bannister, figlia di Brown Bannister che produce il disco e moglie di Drew Holcomb (coi suoi Neighbors è regolarmente sulle pagine del nostro blog) che partecipa marginalmente al lavoro, Ellie Holcomb è al secondo album di quelli che negli States vengono catalogati come “Contemporary Christian Artists”, i cui testi sono cioè dedicati a tematiche religiose e nei quali l’amato non è il proprio uomo ma dio in persona. Qualcosa di simile all’ultimo disco di CeCe Winans ed al gospel in generale, dai quali tuttavia si distingue musicalmente per le radici totalmente diverse, blues-spiritual nella popolazione nera e folk-country in quella bianca. Sempre a differenza dei black artists, che spesso diventano delle stars a tutto tondo, i CCA vivono le esperienze musicali come corredo ad una vita da buoni cristiani, defilata e con scarso interesse per il successo. Ciò non toglie estrema professionalità alle loro produzioni, e nello specifico quella della Holcomb/Bannister è una deliziosa prova di folk-pop dalla scrittura brillante e dagli arrangiamenti ricchi e raffinati, che spazia tra ballads e brani più vivaci dall’appeal radiofonico, con refrains gradevolmente appiccicosi. Omettendo i testi, si potrebbe pensare ad una prima Natalie Imbruglia virata folk-pop. Essendo dichiaratamente l’artefice più interessata a dedicarsi a marito, figli ed una vita da buona cristiana piuttosto che alla promozione di sé stessa come artista, è prevedibile per lei un futuro da autrice piuttosto che esecutrice: le belle linee melodiche e la propensione per il pop catchy che le appartengono potrebbero diventare successi per interpreti di grido. Noi con Red Sea Road ci possiamo godere un disco delizioso, piacevole e perfino disimpegnato, se diamo ai testi il significato che più ci appartiene, religioso o laico che sia.
Voto Microby: 7.7
Preferite: He Will, Find You Here, Red Sea Road

domenica 8 ottobre 2017

BENJAMIN CLEMENTINE, WILL HOGE


BENJAMIN CLEMENTINE (2017) I Tell A Fly

Due anni fa, in occasione del sorprendente debutto che gli era valso il Mercury Prize, scrivevamo sulle pagine del blog: “Ora potrà suonare blues, soul, easy listening, avantgarde o cantare in chiesa o per strada: ha il talento per fare quello che vuole, speriamo non lo sprechi”. Non lo ha fatto, anzi ci stupisce di nuovo con un album che rifugge la semplicità eppure risulta morbosamente seducente: arrangiamenti obliqui su un canovaccio di nuovo trasversale, che abbraccia soul, folk, classica ed opera, che complessivamente potrebbe essere catalogato come old-fashioned art-pop, ma che ovviamente sfugge ad ogni clichè. Potremmo parlare di “canzoni” (con associato appeal radiofonico) solo per 3-4 brani; gli altri sono costruiti su un tema conduttore spesso appeso a un filo, tra interludi/intermezzi musicali e non, ampi fraseggi di pianoforte romantico ed innesti di clavicembalo barocco, diffusa, rude ma versatile percussività rock (il batterista francese Alexis Bossard, già presente all’esordio e fido compagno di tournèe), accenni di elettronica ben finalizzata, e la solita bellissima voce al servizio di una grande personalità. A questo punto i paragoni con Nina Simone, Antony Hegarty, John Legend, Edith Piaf, Michael Kiwanuka (ed ora anche Rufus Wainwright) lasciano il tempo che trovano: solo Benjamin Clementine sa dove andrà a parare la prossima volta. Noi di sicuro saremo tra i curiosi fans di questo singolarmente talentuoso musicista britannico di geni ghanesi, che invece di salvare la regina canta “God Save The Jungle”.
Voto Microby: 8.5
Preferite: By The Ports of Europe, Ave Dreamer, Ode From Joyce


WILL HOGE (2017) Anchors
Cantautore a stelle e strisce a tutto tondo, già autore di discreto successo per altri interpreti, voce calda e colloquiale, Will Hoge propone con Anchors il suo lavoro più equilibrato: una sorta di malinconica intimità alla Wildflowers di Tom Petty, con screziature qua e là del John Mellencamp rurale, dell’immediatezza di Bruce Springsteen e della psichedelia controllata dell’ultimo Ray LaMontagne. Buon album elettroacustico che fa ben sperare per il futuro, ma che già ora testimonia una bella realtà.
Voto Microby: 7.6
Preferite: Baby’s Eyes, Anchors, Little Bit of Rust

martedì 3 ottobre 2017

Tom Petty: Uno dei più grandi.


Se ne è andato anche lui. Non riesco ancora a crederci: Petty era uno delle mie leggende personali, uno di quelli che non puoi credere che un giorno o l'altro debbano lasciare questa valle di lacrime.
Nato in Florida a Gainesville e cresciuto a pane e rock'n'roll viene segnato da Dylan, Presley e  soprattutto da Roger McGuinn dei Byrds e Don Felder degli Eagles, il cui suono è uno dei segni distintivi del suo primo gruppo, gli Epic, che diventeranno poi Mudcrutch e infine gli Heartbreakers.
Il modo migliore di ricordarlo è quello di ripercorrere la sua produzione artistica ed andare ad ascoltarcelo ancora di più.

Tom Petty & The Heartbreakers (1976). Voto: ☆☆☆☆ Esordio migliore non ci poteva essere. Un ottimo disco di puro rock'n'roll con un paio di classici assoluti (American Girl e Breakdown) ma nonostante tutto l'album è un mezzo insuccesso (eravamo in pieno periodo punk-rock).
You're Gonna Get It (1978). Voto: ☆☆ La crisi del secondo album è una costante del rock. Per fortuna il disco vende un pò di più (trascinata dal singolo Listen to your heart) ma non abbastanza per farlo conoscere.
Damn the Torpedoes (1979). Voto: ☆☆☆☆☆ Capolavoro assoluto. Uno splendido disco di rock puro con brani quali Refugee, Even the Losers, Don't Do Me Like That e Here Comes my Girl ed in cui il suo sound comincia a caratterizzarsi sempre di più, diventando identificabile.
Hard Promises (1981). Voto: ☆☆  Un album discreto con qualche brano interessante e senz'altro migliore del successivo Long After Dark (1982). Voto: ☆☆ Ok, erano gli anni '80, ma un disco quasi elettronico non si poteva digerire da Petty! In ogni caso il brano You Got Lucky è sicuramente uno dei suoi classici.
Southern Accent (1985) Voto: ☆☆☆ è un album altalenante con un paio di brani che diventeranno cavalli di battaglia nei live (Don't Come Around Here no More e Rebels).
Pack up the plantation! (1985). Voto: ☆☆ E' un disco live senza particolari sussulti (a parte il duetto con Stevie Nicks "Needles and Pins") ed anche il successivo disco in studio Let me up (I've had enough) (1987) Voto: ☆☆ è un pò sottotono ma poi c'è l'incontro con Bob Dylan che lo coinvolge dei Traveling Wilburys e lo introduce a Jeff Lynne che collaborerà con lui nel magnifico Full Moon Fever (1989). Voto: ☆☆☆☆☆, altro disco fantastico con alcuni brani magnifici (Free Fallin', Yer So Bad, I Don't Back Down). La grande ispirazione continua con Into the Great Wide Open (1991). Voto: ☆☆☆☆ con la bellissima title-track e un altro classico (Learning to Fly). Petty continua a girare il mondo ed i suoi concerti sono all'altezza dei grandissimi: si pensi al film di Bogdanovich del 2007 che ha provato a documentarne la forza espressiva....
I successivi dischi sono Wildflowers (1994)Voto: ☆☆con le bella Hard on Me, It's Good to Be King e Wake Up Time, She's the one (1996) Voto: ☆☆, Echo (1999) Voto: ☆☆, il mediocre The Last DJ (2002) Voto: ☆☆, Highway Companion (2006) Voto: ☆☆, disco decisamente cantautorale in chiaro omaggio a Dylan e Neil Young, Mudcrutch (2008) Voto: ☆☆, lo psichedelico e vintage-blues Mojo (2010) registrato in presa diretta Voto: ☆☆☆☆, Hypnotic Eye (2014) Voto: ☆☆ (Sorry Microby, so che ti era piaciuto molto...), Mudcrutch 2 (2016)Voto: ☆☆☆.  
Dio mio come ci manchi.

lunedì 2 ottobre 2017

GREGG ALLMAN, NICK MULVEY


GREGG ALLMAN (2017) Southern Blood



Gregory Lenoir “Gregg” Allman, cantante e tastierista della Allman Brothers Band e con essa leggenda del southern rock a stelle e strisce, ci ha lasciati a quasi 70 anni lo scorso 27 maggio, a causa di un carcinoma epatico complicanza dell’epatite C di cui soffriva da tempo. Ma lo ha fatto musicalmente nel modo migliore, lasciandoci una pubblicazione postuma che rappresenta probabilmente il suo lavoro più compiuto, di valore, che esprime a tutto tondo lo straordinario amalgama di blues, soul/R&B classico, southern rock e roots di cui è stato capace in mezzo secolo di carriera (anche quella solistica è di buon livello, se si eccettua il tonfo artistico in coppia con l’allora moglie Cher). Con l'eccezione di due ottimi brani autografi, gli altri sono eccellenti cover di grandi autori del calibro di Bob Dylan, Lowell George, Jerry Garcia, Willie Dixon, Muddy Waters, Percy Sledge, Johnny Jenkins, Jackson Browne (co-interprete della sua struggente Song For Adam). Supportato da una band al solito di livello stellare e dalla produzione calda e brillante di Don Was, con grande profusione di fiati (che l’hanno sempre distinto dalla ABB e dal sopravvissuto della medesima, il chitarrista Dickey Betts) ed ampia varietà melodica, Gregg riesce perfino a dare un’impronta soul a Once I Was di Tim Buckley, ed un’aura irlandese al classico Black Muddy River dei Grateful Dead. Imperdibile per chiunque ami il genere ed il suo autore, ma anche formidabile punto di partenza per chi voglia approcciarsi alla fantastica miscela di musica bianca e nera partorita nel dopoguerra dal Sud degli States, “Southern Blood” rappresenta il miglior epitaffio per un grande artista.
Voto Microby: 9
Preferite: My Only True Friend, Black Muddy River, Song For Adam


NICK MULVEY (2017) Wake Up Now
 Sorprendente all’esordio folkie da solista nel 2014, il chitarrista e percussionista del combo inglese etno-jazz Portico Quartet non si ripropone purtroppo ai medesimi livelli. I bei ritmi (dalle parti del Paul Simon “sudafricano” e dell’australiano Xavier Rudd) ora la fanno da padrone, con risultati che fanno pensare ad un Jack Johnson privato della sua impagabile leggerezza, ed il passaggio in secondo piano degli intensi e raffinati arpeggi acustici lo allontana dai precedenti paragoni con Nick Drake e soprattutto John Martyn. Un album comunque di discreto spessore, con belle melodie pop che hanno purtroppo il difetto della prolissità, per un autore che continua tuttavia a possedere il dono dell’originalità e che va pertanto tenuto d’occhio.
Voto Microby: 7.4
Preferite: Unconditional, Imogen, Mountain To Move


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