sabato 21 novembre 2015

John Abercrombie: The first quartet (2015)



È uscito, finalmente, il cofanetto che va a completare l'intera discografia di John Abercrombie pubblicata con la ECM. Dei tre dischi che lo compongono, e che raccolgono gli album incisi con Richard Beirach, Peter Donald e George Mraz, in realtà uno era reperibile su CD in Giappone, dove la casa tedesca pare abbia un successo indiscriminato e dove hanno pubblicato dischi che in Europa abbiamo potuto vedere soltanto in vinile.
Ben vengano, dunque, questi tre ottimi dischi. Il titolo, The first quartet, fa il paio con quel The third quartet che nel 2007 sancì il sodalizio con Mark Feldman, Joey Baron e Marc Johnson, ultimo dei quartetti creati dal chitarrista americano (l’altro fu quello con Marc Johnson, Michael Brecker e Peter Erskine). Dei 3, quello che preferisco è M. Abercrombie, nel generoso booklet che si trova allegato al disco, se ne lamenta per via del suono eccessivamente crudo ottenuto negli studi di Ludwigsburg (gli altri due dischi furono registrati al Rainbow di Oslo). Tutte registrazioni europee, dunque, per questo quartetto americano che nacque a Boston e che rappresentò per Abercrombie l’occasione per distaccarsi, da un lato, dal modello di John McLaughlin e, dall’altro, dalla fusion che aveva praticato all’inizio dei ’70. Lo stesso leader spiega, nelle pagine dettagliatissime e godibili del libretto, che il quartetto si sciolse perché lui voleva sperimentare un po’ di effetti e prendere le distanze da un suono mainstream, mentre Beirach nicchiava. I due contendenti, che si erano conosciuti grazie alla mediazione di Dave Liebman (che con loro incise sia Lookout farm che Drum ode), si ritrovarono dapprima nel 1987 per un album in duo registrato per la Core Records (Emerald City) e un’ultima volta tre anni più tardi, entrambi al servizio del bassista Ron McClure, che stava incidendo McJolt (e queste notizie sono tutte farina del mio sacco: non troverete nulla sul libretto accluso).
Gli altri due componenti del quartetto – decisamente meno noti - ebbero una sorte assai diversa: Mraz finì addirittura per suonare con Olivia Newton-John, mentre Peter Donald è diventato un insegnante di scienze sociali (come Danilo Tomasetta, il chitarrista di Ho visto anche degli zingari felici, oggi professore ordinario all’università di Bologna).

mercoledì 18 novembre 2015

ISRAEL NASH, BOY & BEAR, JULIA HOLTER


ISRAEL NASH (2015) Israel Nash's Silver Season

Dopo l’esordio nel 2008 in debito con C.C.R. e The Band, nel 2011 l’artista del Missouri proseguiva con Barn Doors & Concrete Floors il suo viaggio nelle radici dell’”americana” con un eccellente roots-rock figlio di Black Crowes, Bruce Springsteen, Steve Earle, Ryan Bingham. Allargatosi nel 2013 ad influenze west-coastiane con Israel Nash’s Rain Plans, un album che gli ha dato visibilità in quanto ispiratissimo figlio di C.S.&N. e soprattutto del Neil Young sia acustico che elettrico (chi ama il canadese non perda tutta la produzione di Israel Nash Gripka), al quarto lavoro il nostro abbrevia il cognome e, curiosamente, quel “Nash” ora più evidente lo avvicina alle atmosfere più solari e bucoliche (ma sempre americanissime) dell’inglese dei CSN&Y, ma l’impronta younghiana resta predominante, senza la depressione virata a rabbia di Young ma con la medesima via di fuga non nel “take it easy” californiano bensì nella psichedelia, nel Laurel Canyon, nella pedal steel guitar rurale e nella comunità americana dei capelloni post-power flower. Ci riesce ancora una volta bene, senza però raggiungere l’eccellenza degli ultimi 2 lavori.
Voto Microby: 7.6
Preferite: Lavendula, L.A. Lately, Willow
 
 
BOY & BEAR (2015) Limit of Love

Bollata all’esordio come la risposta australiana a Fleet Foxes e Mumford & Sons, la band nata intorno al progetto solista del leader Dave Hosking si è smarcata già col 2° album (ad impronta rock) dal folk-pop gentile del debutto, ed approda al 3° lavoro con un’identità pop-rock dagli arrangiamenti semplici e lineari, che ben servono canzoni sospese tra il soft-rock dei Fleetwood Mac pre-esplosione commerciale ed il rock asciutto ed orecchiabile dei Pretenders. Gli aussies cambiano ma restano sempre apprezzabili.
Voto Microby: 7.5
Preferite: Walk The Wire, Where’d You Go, A Thousand Faces
 
 
JULIA HOLTER (2015) Have You In My Wilderness

Quasi unanimemente acclamato worldwide quale prova di assoluto valore e della raggiunta maturità artistica, il quarto album della losangelena non finisce di convincermi. Di formazione classica ma attirata dall’avantgarde alla Laurie Anderson e dalla forma-pop alla Kate Bush, finora era riuscita a fonderle con il dark, l’elettronica, il jazz, la canzone mitteleuropea senza però concretizzare il capolavoro (nelle sue possibilità). Ora ci ha provato ma il calcolo è tangibile: eccesso di arrangiamenti e cura per i dettagli formali, riferimenti che si allargano (complimenti: per nulla facile!) a Nico senza il suo teutonico decadentismo sturm und drang e a Laura Nyro senza la sua grazia intimamente folk. Certamente più apprezzabile dal vivo, dove i barocchismi e gli eccessi di citazioni dovrebbero lasciare spazio alla spontaneità della scrittura (di buon livello) e al rapporto diretto col pubblico. Resta, nel bagaglio musicale espresso finora ed intuibile per il futuro, una delle artiste femminili da seguire con maggiore attenzione.
Voto Microby: 7.3
Preferite: Feel You, Silhouette, Sea Calls Me Home

lunedì 9 novembre 2015

Recensioni: Blitzen Trapper, Elizaveta, Glen Hansard

BLITZEN TRAPPER - All across this land (2015)
Dopo 15 anni di musica e 8 album, il quintetto di Portland riesce sempre ad entusiasmare con il suo country-rock (più rock che country) anni ’70, fortemente ancorato ai modelli di quegli anni (Thin Lizzy, Flying Burrito Brothers, John Prine e compagnia bella) ma secondo espressioni sempre innovative alla maniera di Drive-By Truckers, John Mellencamp e Black Crowes. In un certo senso questo album è forse il più convenzionale della loro carriera ma è anche quello in cui si avverte la compiuta realizzazione della band in quanto tale. I brani migliori: Cadillac Road, Let the Cards Fall, Across the River. Voto: ☆☆☆1/2

ELIZAVETA - Messenger (2015)
Al suo secondo lavoro (terzo se consideriamo anche l’EP “Hero” del 2014), la cantante russo-americana conferma di essere una musicista e compositrice assolutamente brillante. Non vi sono dubbi che il modello più immediato sia sempre più Regina Spektor: la sua voce sottile, potente ma non prepotente, fa da filo conduttore al suo pop ricco di riferimenti classico-operistici e soul-elettronici. La sua formazione musicale riesce a evitare il rischio di ripetitività: ne risulta un cocktail di stile e abilità compositiva di qualità sopraffina. Si riascolti anche il precedente, splendido, Beatrix Runs del 2012. A parte il primo brano, esageratamente adorno di drum beats elettronici, il resto dell’album è caldo e d ammaliante. Brani migliori: Icarus, Satellite, These Stupid Games. Voto: ☆☆☆1/2

GLEN HANSARD - Didn't He Ramble (2015)
Negli anni passati di lui ci si ricorda per la partecipazione al film “The Commitments” (era il chitarrista rosso di capelli) e per la 25ennale esperienza come frontman dei Frames, autori di un buon numero di dischi interessanti, anche se mai ricordati per grandi successi.  La svolta avviene nel 2008 con la partecipazione al film “Once” e la conquista dell’oscar come migliore canzone in coppia con Marketa Irglova. Abbandonato dopo pochi anni il sodalizio con la Irglova (gli Swell Season), il 45enne cantautore irlandese è al suo secondo album solista, a 3 anni dal precedente “Rhythm and Repose”. In questo nuovo lavoro GH conferma la sua musicalità elegante, raffinata ed evocativa, con un folk-pop  dagli aromi irish e soul che si pone da qualche parte tra Springsteen, Bob Dylan, Ben Harper, Van Morrison e Damien Rice. Brano chiave è senza dubbio Lowly Deserter, con violini, banjo e fiati che sembrano usciti dalle Seeger Sessions di Bruce Springsteen.

Sta decisamente diventando uno dei più interessanti cantautori della nostra epoca. Da ricordare: Lowly Deserter, My Little Ruin, Just to Be the One. Voto: ☆☆☆☆

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