mercoledì 18 novembre 2015

ISRAEL NASH, BOY & BEAR, JULIA HOLTER


ISRAEL NASH (2015) Israel Nash's Silver Season

Dopo l’esordio nel 2008 in debito con C.C.R. e The Band, nel 2011 l’artista del Missouri proseguiva con Barn Doors & Concrete Floors il suo viaggio nelle radici dell’”americana” con un eccellente roots-rock figlio di Black Crowes, Bruce Springsteen, Steve Earle, Ryan Bingham. Allargatosi nel 2013 ad influenze west-coastiane con Israel Nash’s Rain Plans, un album che gli ha dato visibilità in quanto ispiratissimo figlio di C.S.&N. e soprattutto del Neil Young sia acustico che elettrico (chi ama il canadese non perda tutta la produzione di Israel Nash Gripka), al quarto lavoro il nostro abbrevia il cognome e, curiosamente, quel “Nash” ora più evidente lo avvicina alle atmosfere più solari e bucoliche (ma sempre americanissime) dell’inglese dei CSN&Y, ma l’impronta younghiana resta predominante, senza la depressione virata a rabbia di Young ma con la medesima via di fuga non nel “take it easy” californiano bensì nella psichedelia, nel Laurel Canyon, nella pedal steel guitar rurale e nella comunità americana dei capelloni post-power flower. Ci riesce ancora una volta bene, senza però raggiungere l’eccellenza degli ultimi 2 lavori.
Voto Microby: 7.6
Preferite: Lavendula, L.A. Lately, Willow
 
 
BOY & BEAR (2015) Limit of Love

Bollata all’esordio come la risposta australiana a Fleet Foxes e Mumford & Sons, la band nata intorno al progetto solista del leader Dave Hosking si è smarcata già col 2° album (ad impronta rock) dal folk-pop gentile del debutto, ed approda al 3° lavoro con un’identità pop-rock dagli arrangiamenti semplici e lineari, che ben servono canzoni sospese tra il soft-rock dei Fleetwood Mac pre-esplosione commerciale ed il rock asciutto ed orecchiabile dei Pretenders. Gli aussies cambiano ma restano sempre apprezzabili.
Voto Microby: 7.5
Preferite: Walk The Wire, Where’d You Go, A Thousand Faces
 
 
JULIA HOLTER (2015) Have You In My Wilderness

Quasi unanimemente acclamato worldwide quale prova di assoluto valore e della raggiunta maturità artistica, il quarto album della losangelena non finisce di convincermi. Di formazione classica ma attirata dall’avantgarde alla Laurie Anderson e dalla forma-pop alla Kate Bush, finora era riuscita a fonderle con il dark, l’elettronica, il jazz, la canzone mitteleuropea senza però concretizzare il capolavoro (nelle sue possibilità). Ora ci ha provato ma il calcolo è tangibile: eccesso di arrangiamenti e cura per i dettagli formali, riferimenti che si allargano (complimenti: per nulla facile!) a Nico senza il suo teutonico decadentismo sturm und drang e a Laura Nyro senza la sua grazia intimamente folk. Certamente più apprezzabile dal vivo, dove i barocchismi e gli eccessi di citazioni dovrebbero lasciare spazio alla spontaneità della scrittura (di buon livello) e al rapporto diretto col pubblico. Resta, nel bagaglio musicale espresso finora ed intuibile per il futuro, una delle artiste femminili da seguire con maggiore attenzione.
Voto Microby: 7.3
Preferite: Feel You, Silhouette, Sea Calls Me Home

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