giovedì 13 ottobre 2016

RICH ROBINSON, PASSENGER, THE I DON'T CARES


RICH ROBINSON (2016) Flux




E’ ormai chiaro che, mentre il più famoso dei due fratelli fondatori dei Black Crowes, il frontman Chris con i suoi Brotherhood, si dedica alla psichedelia di fine sixties in puro stile Grateful Dead/Quicksilver Messenger Service, è il chitarrista Rich a continuare l’eredità musicale della band di Atlanta sciolta ufficialmente nel 2015. Quindi southern rock, blues, gospel, soul, honky tonk, classic rock inglese, con un suono equamente influenzato da Rolling Stones, Faces, Allman Brothers, Little Feat, Led Zeppelin ed una chitarra che evoca Keith Richards e Ron Wood. Niente di nuovo, tutto classico e già ascoltato, ma scritto ed interpretato da un fuoriclasse del genere. Solo lievemente inferiore alla precedente prova del 2014, e come sempre ahimè privo di un vocalist che faccia la differenza, come lo era il fratello Chris. Ma ovunque si respira un sincero omaggio al rock chitarristico anni ’70.
Voto Microby: 7.6
Preferite: Everything’s Alright, Astral, The Upstairs Land




PASSENGER (2016) Young As The Morning Old As The Sea


Molti considerano Mike Rosenberg, in arte Passenger, una sorta di Damien Rice più commerciale, o un James Blunt meno pop, o la versione inglese di Amos Lee una volta sottratta la componente R&B. Opinioni condivisibili, ma è anche certo che, senza la pretesa di rivoluzionare la musica attuale, il cantautore di Brighton possiede abilità di scrittura, buon gusto negli arrangiamenti (da sempre un pop-folk acustico con calibrato uso di archi) ed una capacità di carezzare, scaldare, coccolare che è rara. Più che sufficiente a produrre dischi (questo è l’ottavo) che, sebbene simili tra loro, fanno sentire meglio chi li ascolta.
Voto Microby: 7.7
Preferite: If You Go, Home, When We Were Young



THE I DON'T CARES (2016) Wild Stab


Difficile capire se, dopo l’attesa reunion live dei Replacements lo scorso anno con relativa aspettativa di nuove incisioni, frustrata dalla repentina interruzione della tournèe, The I Don’t Cares rappresentino un progetto collaterale del leader Paul Westerberg in collaborazione con la musicalmente affine Juliana Hatfield, oppure il disegno sostitutivo del rimpianto gruppo americano. Nei fatti ci troviamo di fronte a 16 brani immediati, elettroacustici, per lo più brevi, nello stile arruffato, apparentemente in presa diretta ma ben costruito, volutamente low/mid-fi (a dare l’impressione dell’ascolto di demos), tipico di Westerberg. Un cocktail molto ben shakerato, allegro, spontaneo, vitale di Rolling Stones, Violent Femmes, Johnny Thunders, Velvet Underground, equamente composto da rock, folk, garage, indie. Non adatto a chi ama arrangiamenti puliti, raffinati, eleganti, mentre è caldamente raccomandato a chi cerca la primigenia spontaneità e ruvidezza del rock’n’roll.
Voto Microby: 7.5
Preferite: Outta My System, Kissing Break, King of America









 
 

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