lunedì 13 novembre 2017

NADINE SHAH, ROBERT PLANT


NADINE SHAH (2017) Holiday Destination

E’ un’evoluzione musicale continua quella della britannica di origini pakistano-norvegesi, che si ripete solo nella qualità (alta). Su queste pagine al debutto nel 2013 (Love Your Dum and Mad) la si paragonava a Patti Smith, Marianne Faithfull, Carla Bozulich, Agnes Obel, e nel 2015 (Fast Food) ad una “Patti Smith che flirta con la musica dark di stampo 4AD”, ed in entrambi i lavori se ne lodava il talento nonostante un percorso ancora ondivago. Ora la Shah pare abbia deciso la direzione da prendere e presenta un album coeso le cui coordinate tuttavia non si discostano di molto dalle influenze maggiori: ora potremmo parlare di una Patti Smith degli esordi che incontra la P.J. Harvey degli anni ’90 passando attraverso Talking Heads e Morphine. Paragoni nobilissimi che nulla tolgono alla prepotente personalità dell’inglese, capace di frullare il rock cantautorale femminile dal post-punk ad oggi per darci una sua versione di stomaco e di testa, di ritmo e melodia, di impegno socio-politico e acume femminile. A partire dai titoli dei dischi, beffardamente disimpegnati là dove le copertine sono un pugno nello stomaco ed i testi un esame di realtà urgente e drammatico. Una gran bella realtà, a mio avviso superiore alle paragonabili Anna Calvi, Angel Olsen ed EMA, ed al medesimo livello artistico della più cantautorale Sharon Van Etten e della più glamour St. Vincent.
Voto Microby: 7.9
Preferite: Out The Way, Yes Men, Place Like This


ROBERT PLANT (2017) Carry Fire

Rispetto agli ex-sodali, la carriera solistica del cantante degli Zeppelin è sempre stata caratterizzata da una migliore qualità e versatilità: non un album meno che buono tra l'english rock mainstream degli esordi, quindi l'interesse per il country-rock e l'"americana" evoluti nel folk-rock inglese e nella contaminazione world subsahariana attuali. In questo senso Carry Fire è figlio diretto del precedente Lullaby...and The Ceaseless Roar (2014), pur essendo meno incisivo: la rabbia giovanile è mutata in uno sguardo pacato e meditabondo sul pianeta, la voce potente (per alcuni la più bella di sempre nel rock) fa più uso del colore e delle modulazioni timbriche che dei decibel, i musicisti dispiegano gran mestiere piuttosto che viscere: più Robbie Robertson-nativo americano che Led Zeppelin. Alla fine si ammirano suoni bellissimi a vestire canzoni solo discrete (le migliori sono quelle ad impronta folk-rock, sospese tra la tradizione gallese, il blues maliano ed i ritmi maghrebini), ma che è un piacere comunque ascoltare.
Voto Microby: 7.5
Preferite: Carry Fire, Dance With You Tonight, The May Queen

mercoledì 8 novembre 2017

Recensioni: Liam Gallagher, Beck

LIAM GALLAGHER - As You Were (2018)

Non essendo proprio degli anni’80 Oasis, Blur e compagnia bella Britpop non sono mai stati una mia passione sfrenata, tuttavia, dopo lo scioglimento della band, ho avuto modo di seguire la carriera di Liam e Noel Gallagher, cercando di bypassarne le diatribe personali e, diciamolo, l’antipatia altezzosa che emanano (anche se devo dire la loro opinione su Brian May mi aveva molto divertito: “Il suono della chitarra di Brian May sembra che gli sia inceppato nel culo”). Molto ho apprezzato il progetto Beady Eye di Liam e devo ammettere di essere più attratto dal fratello L che da quello N. Ed in effetti anche in questo lavoro L è riuscito a filtrare sonorità anni ’60 e ’70 attraverso la sua vena Britpop. In particolare il brano Bold, Beatlesiano e Tompettyano quanto basta, Wall of glass, con quella giusta dose di energia elettrica, che pare scritta dai Black Keys e I’ve all I need dichiaratamente ispirato ai mitici La’s.
Insomma un disco che riesce ad essere vintage ma allo stesso tempo di un rock classico da cantare a squarciagola, per un autore di grande talento, carismatico e inconfondibile. Da ascoltare: For What It’s Worth, Bold, Wall of glass. Voto: ☆☆☆☆


BECK - Colors (2017)

Tredicesimo album e 25 anni di carriera per il geniale fricchettone Beck Hansen, da sempre identificato come illuminato reinterprete di folk-rock californiano (Morning Phase del 2014), di country-folk (Mellow Gold e Odelay) di funkmusic (Midnite Vultures), di folk acustico ed intimista (Sea Change del 2002), di Pop-rock latino (Guero), eccetera eccetera.

Colors è un disco squisitamente Pop, tendenzialmente vicino a Midnite Vultures, senza chitarre acustiche ma con sintetizzatori R&B alla Prince e ritmi dance ricchi di drum-machine. Un album che migliora di ascolto in ascolto e che esce lo stesso giorno di quello attesissimo di St.VIncent (appena recensito su queste pagine del blog) risultandone casualmente un album complementare, quasi a farne da prologo musicale. “Canzoni che ti rendono felice di essere vivo” dice Beck presentando questo disco. Da ascoltare: Dreams, Square One. Voto: ☆☆☆

lunedì 6 novembre 2017

ST. VINCENT


ST. VINCENT (2017) Masseduction
Quando il mondo musicale giovanile era semplicisticamente distinto in rockettari e discotecari, tra i primi i punti di riferimento al femminile erano Joni Mitchell per la musica acustica e Patti Smith per quella elettrica, e per entrambe lo strumento cardine era la chitarra. Con l’archiviazione a fine millennio della musica rock come genere musicale “storico”, derivato dal rock’n’roll ed evoluto in una pletora di sottogeneri (ma pur sempre identificato nella forza primigenia del trio chitarra-basso-batteria), ci si è trovati nel nuovo millennio allo sdoganamento della musica da dancefloor come parte integrante della nuova cultura musicale giovanile, non necessariamente frivola ma certamente nichilista anche quando arrabbiata. E, piaccia o no, i punti di riferimento al femminile sono da 20 anni Madonna per l’audience bianca e Janet Jackson per quella nera. L’americana Annie Clark, in arte St. Vincent, è certamente la più dotata tra le artiste impegnate nella crasi tra rock urticante, airplay radiofonico e discoteca, ma ad un primo ascolto di Masseduction paiono francamente esagerati i peana pressochè unanimi della critica: più che la sua chitarra acida e fuzzata (comunque un suo marchio di fabbrica) ad innervosire l’ascoltatore è il gioco di rimandi musicali e di cameo ad effetto che sa tanto di prodotto costruito in studio. E allora non bastano arrangiamenti che Madonna e Prince proponevano 30 anni fa per solleticare gli smaliziati ascoltatori non-teenagers, né una produzione trendy, né le ospitate al sax di Kamasi Washington (un altro idolatrato da una critica molto benevola) ed ai cori dell’ex fidanzata top model Cara Delevingne. Tutto questo, insieme al fatto di essere un’artista multimediale bella ed affascinante e di godere dell’appoggio e della stima prima di David Bowie, poi di David Byrne, fa molto glamour ma non hipster (di alternativo nella proposta musicale di St. Vincent c’è ben poco, anche se si apprezza il gusto nell’assemblaggio di idee vecchie e nuove). Poi si ascolta più volte l’album ed emergono una bella scrittura, che suona moderna anche quando non lo è (ma è un pregio riuscire a farlo), e che rappresenta benissimo la musica attuale bianca a suo modo impegnata e giovanile, urbana e nevrotica, che stimola ma permette anche l’evasione della sala da ballo. Manca, come in tutti i lavori precedenti (l’attuale è il quinto), la coesione che appartiene invece alla paragonabile Nadine Shah, ma a questo punto viene da pensare che sia una precisa scelta. In ogni caso un album da ascoltare per chiunque voglia avere una fotografia dello stato dell’arte musicale giovanile, lontano da quel genere una volta chiamato rock.
Voto Microby: 7.9
Preferite: Los Ageless, Masseduction, Happy Birthday Johnny

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