martedì 29 maggio 2018

IN TALL BUILDINGS, SIN FANG-SOLEY-ORVAR SMARASON


IN TALL BUILDINGS (2018) Akinetic

Akinetic potrebbe essere quello che purtroppo non è stato il terzo album degli Alt-J. Linea melodica guidata dalla voce (quasi sempre in coro a binario), sostenuta dalla sezione ritmica, da tastiere elettriche morbide e chitarre acustiche discrete, e contrappuntata da inserti di chitarra elettrica che non hanno mai nulla dei classici solos, ma piuttosto con finalità di soundscape. Il tutto è ascrivibile al terzo solo-project del multistrumentista Erik Hall, già chitarrista del collettivo afro-beat NOMO di stanza a Chicago ed autore in precedenza, sempre col moniker In Tall Buildings, di due buoni dischi di impronta folk-pop. La maturità raggiunta con l’attuale lavoro è tuttavia sorprendente, brillante e convincente: un album avant-pop che piacerà ai nostalgici dei primi Alt-J, pur senza possedere la loro qualità compositiva, le loro armonie vocali ma soprattutto la leggerezza e fantasia della loro sezione ritmica. Chissà che Hall non faccio un ulteriore passo in avanti dotandosi di un gruppo stabile di musicisti, invece di fare tutto da solo.
Voto Microby: 8

Preferite: Beginning To Fade, Akinetic, Siren Song

SIN FANG, SOLEY, ORVAR SMARASON (2018) Team Dreams

Debutto (e pare anche esperimento isolato) di un supergruppo underground islandese, il trio composto da Sindri Màr Sigfùsson e Sòley Stefànsdòttir (entrambi componenti dei Seabear, band folk-pop aperta e mai ufficialmente sciolta della terra dei ghiacci, ed autori di pregevoli lavori da solisti) e da Orvar Smàrason (ex Mùm, storica compagine di electronic-pop d’avanguardia, affiancabili ai Sigur Ròs per stile musicale) concorda un progetto bizzarro ma portato a termine: comporre e registrare nel corso del 2017 un brano in soli 3 giorni, ogni mese, per 12 mesi. Il risultato del dream team non è proprio da sogno, nonostante questo rappresenti l’ atmosfera portante dei 12 brani, ma riesce comunque a stare in buon equilibrio (cosa non facile) tra musica elettronica, pop onirico alla Enya, ambient e new age. Le singole personalità ed il loro personale background riescono quindi a non prendere il sopravvento l’una sull’altra, ed il prodotto finale è godibile e compatto, piacevole per un ascolto rilassato in poltrona piuttosto che per una corsa in auto.
Voto Microby: 7.5
Preferite: Random Haiku Generator, Go To Sleep Boy, Wasted


giovedì 24 maggio 2018

A PERFECT CIRCLE


A PERFECT CIRCLE (2018) Eat The Elephant

Supergruppo fondato nel 1999 dagli ex Tools Maynard James Keenan e Billy Howerdel, e della cui mutevole line-up hanno fatto/fanno parte membri di Nine Inch Nails, Marilyn Manson, Smashing Pumpkins, Queens of the Stone Age, Puscifer, Eagles of Death Metal, al quarto album (ma a ben 14 anni dal precedente di materiale autografo), la band abbandona l’allure alternative-metal degli esordi per un ibrido che facilmente deluderà i metallari, verosimilmente non conquisterà i poppettari, mentre potrebbe interessare, se non affascinare, gli appassionati di neo-prog (e, va da sé, chi aveva amato le architetture più semplici e pop del prog dei seventies). L’incipit con la title track non stonerebbe in un album del David Sylvian più romantico, ma il disegno generale sta più dalle parti dello  Steven Wilson più scuro e meno progressive, contaminato dall’anima dei Metallica più melodici. Le canzoni sono strutturalmente guidate dal pianoforte e da synth poco invadenti, ma lo scheletro portante è fornito da robusti rullanti (al minimo sindacale i piatti) cementati da chitarre elettriche tese e drammatiche (brevi e controllati i solos, come da lezione neo-prog). L’atmosfera è insieme decadente ed elegante, sontuosa nei pieni e riflessiva nei vuoti, saldamente guidata dalla bella voce post-grunge di Keenan e ben supportata da musicisti di caratura. Forse il tutto è più adatto ad adolescenti meno arrabbiati dei metallari e meno depressi degli emo, ma può piacere anche a chi trova troppo banale il pop-rock ma non riesce ad adattarsi ai suoni dei millennials.
Voto Microby: 7.6

Preferite: So Long And Thanks For All The Fish, The Doomed, Disillusioned

venerdì 11 maggio 2018

UNKNOWN MORTAL ORCHESTRA


UNKNOWN MORTAL ORCHESTRA (2018) Sex & Food
Nell’arco di quattro dischi il neozelandese Ruban Nielson, mente guida del progetto a realizzazione americana UMO, ha spostato la propria popolarità e considerazione mediatica dalla curiosità ad oggetto di culto, ed infine a stella polare delle sonorità del nuovo millennio. Psichedelico per concetto, essendo da sempre votato alla contaminazione di generi, è tuttavia profondamente originale rispetto al trendy indie-psych-rock in quanto il suo multi-sound salta a piè pari le radici rock, mentre affonda i denti nei suoni (prevalentemente bianchi) dei millennials. Le sue canzoni sono strutturate intorno a tastiere elettriche (il padre era un fan degli Steely Dan) e chitarre distorte (utilizzate in modo assai distante sia da Jimi Hendrix che da Nile Rodgers), la voce è sempre filtrata/disumanizzata e la ritmica fa ampio uso di drum machine e non disdegna richiami disco anni ’70. Ho scritto abbastanza per allontanare i fan del pop-rock tradizionale (me compreso), eppure se si ascoltano gli album della UMO in modo non distratto si intuiscono unicità e perfino calore. Certo l’ascolto non è adatto ad un sottofondo musicale, perché le regole architettoniche di Nielson non fanno parte di un patrimonio acquisito e pertanto non sono di lettura immediata. Inoltre non tutti i brani sono riusciti: al funk elettronico lontano discendente di Prince e agli accenni kraut tra Kraftwerk e Neu! preferisco di gran lunga le ballate robotiche ma morbidamente stranianti di cui è ad esempio ricca tutta la seconda parte di Sex & Food. Tra gli stessi 4 lavori finora pubblicati mi piacciono il secondo (UMO II) e l’attuale, mentre mal digerisco l’esordio omonimo ed il terzo (Multi-Love). Possiamo chiamarlo avant-pop o “psichedelia proiettata verso il futuro” (Gabriele Pescatore sul Mucchio 2018), in ogni caso chi desidera avventurarsi in suoni non direttamente figli del mezzo secolo rock ma neppure in pasto al mainstream odierno, in Sex & Food troverà pane per i suoi denti. Con la difficoltà magari di comprendere se è il pane o sono i denti a non essere buono/i.

Voto Microby: 7.5
Preferite: American Guilt, Everybody Acts Crazy Nowadays, The Internet of Love (That Way)

lunedì 7 maggio 2018

THE SHEEPDOGS


THE SHEEPDOGS (2018) Changing Colours



Up In Canada (dal titolo di una canzone dei “cani da pastore”) si interpreta uno dei migliori esempi di southern rock in circolazione, persino se confrontato con le migliaia di bands del sud degli USA. Conservatore per ricetta (gli ingredienti sono sempre rock, blues, country, soul, hardrock variamente assortiti tra loro, con bands che si distinguono per l’utilizzo quantitativamente spostato verso l’uno o l’altro genere, per i suoni più acustici o elettrici, per il maggior rilievo dato a tastiere o chitarre) e look (dagli anni ’60 fedele a sé stesso: capelli e barba lunghi, camicia a scacchi e jeans), spesso anche nei testi patriottici e machisti, il rock sudista è da sempre un concentrato di energia ed allegria da condividere possibilmente dal vivo con gli amici. Va da sé che da un genere con stilemi così rigidi non ci si possa aspettare una gran rivoluzione stilistica, ed in effetti il combo originario del Saskatchewan si distingue dagli altri non per originalità, piuttosto per la capacità di fondere brillantemente gli stili dei gruppi che hanno fatto la storia del southern rock. Ecco quindi la doppia chitarra solista alla Allman Brothers Band (ma con il blues ridotto ai minimi termini e canzoni mai dilatate oltre i 3-4 minuti), i riff di chitarra elettrica alla Lynyrd Skynyrd (senza però tentazioni hard), i fraseggi di pianoforte alla Little Feat, i passaggi country alla Marshall Tucker Band, gli immancabili brani strumentali, ma anche (diversificandosi dal genere) impasti vocali che omaggiano chiaramente C.S.N.&Y. e spunti di percussioni latineggianti rubati ai Santana dei ’70. Il quintetto guidato dal leader Ewan Currie (voce e chitarra soliste) è ben noto in patria (dove ha vinto numerosi CASBY e Juno Awards) e sta espandendo la propria popolarità negli States; pur non artefice della mirabile fusione di stili che è riuscita negli ultimi 30 anni in ambito southern rock ai soli Black Crowes, The Sheepdogs costituisce un eccellente bignami del genere a chi lo volesse approcciare, ma merita l’ascolto degli appassionati del rock a stelle e strisce in senso lato. Chi potesse non li perda in concerto.
Voto Microby: 7.8
Preferite: Nobody, I’ve Got A Hole Where My Heart Should Be, Saturday Night

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