Da almeno due decenni è
quantomeno fuorviante considerare Elvis Costello (al secolo Declan
Patrick MacManus, classe 1954) un artista pop-rock. Così come fuori
luogo era stato classificarlo un riottoso rocker ad inizio carriera
(già al secondo album apparivano risibili gli stickers in copertina
che lo bollavano come punk, lui artisticamente più vicino a un Buddy
Holly o perfino un Serge Gainsbourg che a icone punk come Joe
Strummer e Johnny Rotten/Lydon). Il dipanarsi della carriera lo ha
chiaramente consacrato come una delle più brillanti penne della
canzone d'autore dell'ultimo mezzo secolo. Certo più imparentato con
il pop di classe che con il rock, il jazz, la musica classica,
persino l'operistica, tutti generi che pure l'inglese ha frequentato
con interessanti ma mai indimenticabili risultati. Il fan che l'ha
seguito con continuità (mi metto tra costoro) ha apprezzato un
carniere di qualità mediamente buona, con alcuni capolavori ma anche
una manciata di lavori trascurabili, sebbene mai banali.
L'ascoltatore che si sia avvicinato solo occasionalmente all'artista
non potrà ignorare almeno un capolavoro per decennio (This
Year's Model-1978,
Imperial
Bedroom-1982,
Painted From
Memory-1998 con
Burt Bacarach, The
River In Reverse-2006
con Allen Toussaint), seppur diverso per ingredienti, ricetta, forma
e palato. Chi l'avesse dimenticato nel nuovo millennio può provare a
riscoprirlo con il nuovo album, il suo più miratamente "pop
costelliano"
da due decadi: ora come agli esordi assai lontano dai suoni di moda,
e come allora votato all'evergreen
per brillantezza di scrittura ed esecuzione (ora più pianistica ed
orchestrale piuttosto che chitarristica come in gioventù). Chi non
ha mai sopportato il suo timbro vocale rinolalico ed il suo vibrato
da crooner/chansonnier
(più dalle parti di Frank Sinatra che di Michael Bublè, per un
doveroso distinguo) se ne starà alla larga anche ora. Eppure mentre
il punk-rock è diventato storia, Elvis Costello la storia continua a
scriverla.
Voto
Microby: 8
Preferite:
Under
Lime, He's Given Me Things, Suspect My Tears
Ci fosse stato il bisogno di
una conferma, dopo la benedizione del sophomore
album prodotto da Warren Haynes che aveva anche salutato l'allora
ventenne chitarrista come proprio degno erede, questa arriva puntuale
con un altrettanto valido terzo album. Prodotto stavolta da Dave Cobb
che cerca di imbrigliare questo cavallo di razza, riuscendo a
razionalizzare la forza d'urto e le molteplici influenze musicali
convogliandole in un southern
rock
maggiormente centrato sul blues
ed il soul
(con il vescovo Solomon Burke ideale spiritual
guidance), l'album
trattiene le (belle ed originali per il genere) contaminazioni
bianche ad alcuni passaggi ed arrangiamenti strumentali, lasciando
che la band del ventiduenne rossocrinito e sovrappeso chitarrista le
esprima in toto dal vivo (dimensione in cui si apprezzano il suono
vintage e le derive jazz-rock alla Mahavishnu Orchestra, certi
sentieri psichedelici alla Santana di Caravanserai, il tocco del
tastierista DeShawn
Alexander più che
evocativo di Joe Zawinul, ed alcune soluzioni da orchestra zappiana;
per non parlare degli assolo seventies dei musicisti). Sia in studio
che sul palco il suono appare spesso troppo pieno, con eccesso di
stratificazioni strumentali (soprattutto di fiati e cori), ma il
peccato è veniale perchè si intuisce che non si tratta di coprire
poche idee con sovrabbondanza di suoni, ma che il nostro ha molto da
dire , ed entusiasmo ed età non lo aiutano nella sintesi. Voce e
chitarra spettacolari, pieno possesso della tradizione musicale
americana sia bianca che nera (in particolare sudista, ca
va sans dire): non
solo Marcus King è il migliore giovane chitarrista dai tempi
dell'allora imberbe Derek Trucks (come ebbe a dire Warren Haynes), ma
possiamo anche sostenere che Gregg
Allman ha
trovato il suo erede.
Voto
Microby: 8.3 Preferite:
Where
I'm Headed, Confessions, Autumn Rains
Polistrumentista/cantautore americano, cieco dalla nascita, il New York Times dice di lui : "a one-man band who turns a guitar into an orchestra and his voice into a chorus”. Nato nel 1966 nel New Mexico, da genitori di origine afro-americana ed argentina, ha alle spalle collaborazioni con Stevie Wonder (che ha anche partecipato al suo disco del 2005 “State of Mind”), Herbie Hancock, India Aire, Jason Mraz e Marcus Miller. Le influenze messicane e sudamericane hanno preso il sopravvento, rendendo la sua musica una perfetta fusion di latin beat, jazz e R&B. In questo suo decimo lavoro è affiancato dalla Metropole Orchestra di Vince Mendoza, una specie di corazzata di ritmi latini con fiati a volontà ed energia illimitata. Un ottimo album per conoscerlo ed andare a ritroso nella sua carriera. Rimandi: Al Jarreau, Donny Hathaway, Stevie Wonder, Jose Feliciano. Da ascoltare: Everyone Deserves a Second Chance, Sunshine (I Can Fly), Ride on a Rainbow. Voto: ☆☆☆☆1/2
DAVID CROSBY - Here If You Listen (2018)
Tre dischi da solista tra il 1971 ed il 1993, ed ora quattro lavori in quattro anni. Evidentemente l’ispirazione si deve essere accresciuta con l’età perchè a 77 anni suonati riesce ancora ad incantare con le sue armonie oniriche e i suoi accordi sincopati, che da sempre sono il suo marchio di fabbrica. Non mancano poi il suono della sua chitarra acustica e le meticolose parti vocali corali, con quella sensazione di continuo “déjà vu”. Anche un paio di brani riesumati dal passato (“1967” e “1974”) e la bellissima versione di Woodstock di Joni Mitchell (con la voce di Michelle Willis che ricorda proprio l’originale) sembrano volere piantare le radici della sua saggezza poetica verso un orizzonte fatto di brillantezza e speranza. Da ascoltare: Your Own Ride, Woodstock. Voto: ☆☆☆☆
A
dispetto del titolo, il sesto album del cantautore del North Carolina
non suona depresso, meno che meno disperato. Anzi la varietà degli
stili affrontati, dal country al blues, dal rock alle soul ballads, e
la precedente collaborazione con Ray Wylie Hubbard
forniscono un’impronta vivace e decisa alle canzoni che, pur non
reggendo il paragone con il suo capolavoro “Mr. Misunderstood”
(2015), soddisferanno pienamente gli amanti dell’outlaw
country così come del contemporary country. Anche in un
lavoro buono ma non imprescindibile, il nostro si dimostra artista di
serie A, meritevole di sedersi a fianco di Ryan Adams e
Zac Brown.
Voto
Microby: 7.7
Preferite:
Heart Like A Wheel, Some of It,
Desperate Man
AARON
LEE TASJAN (2018) Karma For Cheap
Terzo
album per il singer-songwriter e chitarrista dell’Ohio, sideman per
numerose e musicalmente differenti bands (dai Drivin’n’Cryin’
alle New York Dolls), così come eclettica è la produzione
personale: dal country-rock ad un blues contaminato, fino all’attuale
pop-rock che guarda ugualmente agli anni ’60
come ai ’70, riuscendo a fondere il nucleo centrale
beatlesiano tanto con Roy Orbison quanto
con il David Bowie glam. Più complesso di quanto
appaia al primo ascolto, ed in tal senso ricco di intelligenti
sorprese, risulta alla fine piacevolmente demodè, ed a suo modo
originale.
Voto
Microby: 7.5
Preferite:
If Not Now When, The Truth Is So Hard
To Believe, Strange Shadows
LEON
BRIDGES (2018) Good Thing
Sophomore
album per il texano Todd Michael Bridges, dopo il successo
commerciale di Coming Home nel 2015. E conferma di un talento
soul che si nutre con umiltà della lezione melodica
di Sam Cooke, attraversa con sicurezza il funk di
Prince e si appropria con naturalezza del nu-soul di
Frank Ocean. Con le doti per scoprire nuove vie per la
musica black ma anche il fiuto per le classifiche di vendita. Vediamo
che strada prenderà (al momento interlocutoria).
Voto
Microby: 7.2
Preferite:
Bad Bad News, Be Ain't Worth The Hand, If It Feels Good