A cinque anni dal precedente
“Are We There” giunge a compimento l’evoluzione musicale
dell’artista del New Jersey, partita nel 2009 come cantautrice
indie-folk gravitante nell’area delle neo-malinconiche, e
progressivamente elettrificata con un orecchio a Patti Smith e
l’altro a PJ Harvey, fino a spogliarsi degli strumenti a corda per
seguire l’esempio delle singer-songwriters elettroniche alla St.
Vincent. Se l’ultimo sforzo realizza gli intenti della Van Etten,
non si può dire che possa considerarsi un miglioramento del suo
percorso artistico, dal momento che sottrae in personalità quello
che guadagnerà in successo: quasi assenti le chitarre (ruggenti in
passato), i sintetizzatori ed i drum beats vestono pressochè
totalmente le canzoni, che non perdendo la peculiare tristezza della
scrittura, melodica e lirica, rimanda di volta in volta alle trame
dark dei Depeche Mode e dei Joy Division, del trip hop alla
Portishead, perfino del pop plumbeo della prima Sinead O’Connor,
solo con abiti ridisegnati alla moda dell’ultima St.
Vincent, della
Anna Calvi più algida, della My Brightest Diamond più sobria, fino
alla Lana Del Rey meno cool. Un copione ahimè già visto e sentito,
che entusiasmerà gli hipsters del momento ma che lascia l’amaro in
bocca a chi, come me, teme di perdere una delle migliori interpreti
sul mercato, proprio perché adeguatasi al mercato. Per dovere di
cronaca, spiace che gli arrangiamenti soffochino una qualità di
scrittura al solito buona, e benchè nulla di nuovo venga presentato
sul fronte occidentale, “Remind Me Tomorrow” piacerà agli
appassionati di dark-pop
degli eighties e di electronica
attuale.
Voto
Microby: 7.2
Preferite:
Seventeen,
Comeback Kid, I Told You Everything
Dorothy Clark, 23 enne del Sussex, si è fatta conoscere prima su You Tube, Apple Music e Spotify, accumulando oltre 160 video, 1.7 milioni di abbonati e 350 milioni di streaming (!), e poi su disco peraltro con ottimo successo (i primi due EP entrati nei top 40 inglesi). In effetti il suo folk-pop semplice, morbido e leggermente elettronico risulta avere un enorme seguito on-line: una specie di artista fai-da-te di cui non sono ancora riuscito a comprendere la reale autenticità di ispirazione. Considerando sempre e comunque la buona fede, il suo terzo disco (di breve durata, poco più di un EP) appare fresco e qualitativamente interessante. Magari con qualche sezione di archi di troppo ma sicuramente molto intrigante nello stile vocale e nei brani parzialmente elettronici, Human è un concentrato melodico di sentimenti ed emozioni, creativo ed elegante. Da ascoltare: Monster, Not What I Meant.
Il primo grande successo di questo cantautore americano/irlandese “620 West Surf” del 1991 l’aveva portato, forse troppo prematuramente, alla ribalta del classico rock americano: gli anni successivi sono stati quelli della inevitabile discesa agli inferi, costellata da “abusi” e “riabilitazioni” varie. Ormai però il suo cammino di autodistruzione sembra essersi interrotto: ora è più maturo, è sposato con la violinista Heather Lynne Horton, co-writer delle sue canzoni, ha una figlia, è sobrio e con la testa libera. Negli ultimi tre anni è stato in giro per concerti ma molte canzoni languivano nella sua memoria e nei suoi archivi, non incise e raramente suonate: canzoni orfane.
Un disco stupendo, questo di canzoni orfane, che viaggia a meraviglia nei suoi territori più abituali e congeniali: country-blues alla Steve Earle, roots-rock tra Bruce Springsteen, John Mellencamp e Willie Nile, ballate alla Tom Petty. La redenzione continua.
Da ascoltare: Ne'er Do Well, Sometimes When It Rains in Memphis, Givin up the Ghost.
A
64 anni il musicista inglese continua a dimostrarsi uno dei migliori
singer-songwriters della sua generazione, e certamente il più
versatile: nessuno come lui ha saputo addomesticare la rabbia punk
senza spegnerla, riscoprire con forza e qualità lo swing dei ‘40,
assorbire i ritmi dei caraibi, tornare a studiare, comporre ed
eseguire spartiti di musica classica, dedicarsi a colonne sonore per
film, ed insieme non perdere mai il preziosissimo dono di una
sensibilità pop unica, colta e insieme popolare. Per i medesimi
motivi accusato in passato di gigantismo e di snobismo, perché
incurante delle critiche. Ma occorre ricordare che mentre i colleghi
inseguivano la moda del momento rimpinguando il conto in banca, Joe
Jackson insieme a pochi altri (Elvis Costello e Paul Weller in
Inghilterra, ad esempio) sondavano altri territori, meno remunerativi
ma ben più importanti per l’evoluzione della musica pop-rock.
L’ultimo decennio ha visto il nostro pubblicare almeno due grandi
album (il pianistico Rain
nel 2008 e l’eclettico Fast
Forward nel 2015),
e se l’attuale non è un capolavoro è solo perché non vi si
scorgono frutti di nuove ricerche musicali, ma “solo” un
preziosissimo bignami della carriera del pianista britannico:
l’urgenza elettrica del primo periodo frullata abilmente con il
pianismo lirico e brillante della maturità, il pop e il rock, i
caraibi e l’oriente, il ritmo delle notti metropolitane e la
melodia distaccata e romantica dei quadri di Turner. Mancano, ma non
se ne sente l’esigenza, rimandi alla sua passione per la musica
classica ed il jazz (che possa essere un progetto futuro?). Il tema
trasversale degli otto brani dell’album è rappresentato dalla
figura del “fool”, il “buffone”, pungente osservatore fuori
dalle righe della realtà circostante: Joe Jackson riesce ad essere
un Crozza acuto, corrosivo, stimolante ed estremamente piacevole.
Centro pieno.