CRAIG FINN
(2019) I Need A War
Da anni il leader degli americani
Hold Steady
porta avanti la doppia carriera con la band ed in proprio, con
risultati di livello in entrambe le direzioni, più virati al rock
col gruppo ed al cantautorato elettroacustico da solista. Là dove i
testi allargano la grande tradizione americana degli storytellers che
raccontano storie di vita personale facilmente adeguabili
all’universo sociale, musicalmente il nostro ha un timbro nasale a
metà strada tra Randy
Newman ed Elvis
Costello, voce che si presta a ballads dal mood
prevalentemente malinconico che ben figurerebbero nel carniere dei
primi Bruce Springsteen
ed Elliott Murphy, con l’originalità di arrangiamenti rètro
che a tratti non disdegnano perfino la tradizione della library
music italiana dei ‘70.
Accostamento quest’ultimo che insieme alle tastiere elettriche ma
liquide ed agli inserti di fiati dolenti e notturni dona un tratto
personale ed immediatamente riconoscibile al lavoro di Finn. Chiusura
di un’ideale trilogia iniziata nel 2015 e qui portata al miglior
livello qualitativo, il quarto album da solista di Craig Finn non fa
rimpiangere l’attesa di un nuovo lavoro della band madre,
discograficamente ferma al 2014.
Voto Microby:
7.5
Preferite:
Blankets,
Anne Marie & Shane, Grant At Galena
Accostato
all’esordio (il bel “Let Smoke Before The Snowstorm” del 2011,
che ad oggi resta il suo lavoro migliore) ai cantautori
intimisti (cito a memoria Keaton Henson, James Yorkston, James
Vincent McMorrow tra gli altri) che si riferivano apertamente negli
USA ad Iron & Wine ed Elliott Smith, ed in Inghilterra (patria
del nostro) ovviamente a Nick Drake e John Martyn, BFL è passato
progressivamente dal folk cantautorale del debutto al nuovo pop
screziato di elettronica,
senza tuttavia riuscire a sperimentare come Ben Howard in senso
cantautorale ambient, o Bon Iver nel genere folktronica, o James
Blake in ambito elettronico minimalista. Né d’altra parte senza
mai possedere l’appeal radiofonico di Ed Sheeran, capofila dei
nuovi cantautori mainstream pop. Con “Gratitude” BFL resta a metà
del guado, ed al terzo album non mantiene le promesse iniziali né
pare abbia ancora deciso cosa fare da grande. Ma soprattutto pare
abbia perso il senso della melodia che ispirava i suoi primi passi,
quando gli bastavano chitarra acustica e voce per incantare.
“Gratitude” è in summa un disco graziosamente patinato, nulla
più.
Voto
Microby: 6.8
Preferite:
Look
Ma, Sometimes, The Mess We Make