lunedì 29 giugno 2020

Recensione: The 1975 - Notes on a Conditional Form (2020)

Per essere un quartetto di trentenni ricordano al contrario una band di altri tempi, dedita al recupero ed alla citazione degli anni ’70 e ’80. Il tutto in maniera verbosa ed incasinata (mettere 22 brani in un disco mi pare un pò esagerato) ma onesta ed ironica. Il gruppo ha avuto un grande successo in Inghilterra ed in Australia (tradizionalmente satellite di quella britannica) mentre in Italia è passato sotto completo silenzio, a parte molti dei followers di questo blog che me l’avevano a loro volta raccomandato. Mah, sarà il virus. 
I 1975 vengono da Manchester: il loro leader, Matty Healy (tra l’altro compagno di FKA Twigs) è una specie di vulcano di idee ed energia ed è cresciuto assorbendo qualsiasi sonorità, compreso l’elettro-pop più contemporaneo con i suoi intarsi dubstep, il pop-jazz, l’indie americano, il brit pop ed il dance-punk.  Insomma una specie di macedonia contemporanea, espressione della bulimia artistica del suo leader. In questo loro quarto lavoro, a due anni dal precedente, più orientato verso il brit pop, si sentono i Joy Division, i Buzzcocks, i Blue Nile, ma anche i Nine Inch Nails, Sonic Youth , Pixies e Brian Eno. 

Il loro chiaro obiettivo è quello di “domiciliarsi nel cuore di chi li ascolta” (cit. Rossano Lo Mele, Sole 24 ore), proprio come hanno fatto gli Smiths, guarda caso anche loro di Manchester. Qualcosa vorrà dire. 
Da ascoltare: The Birthday Party, Nothing Revealed / Everything Denied, Me & You Together Song. Voto: 1/2


giovedì 25 giugno 2020

BOB DYLAN


BOB DYLAN (2020) Rough And Rowdy Ways

Se si eccettua la rivisitazione del Great American Songbook con tre trascurabili uscite da crooner sinatriano , erano otto anni che Mr. Zimmerman non licenziava un album in studio. Che è comunque il primo di brani autografi dal 2012. Non si è mai obiettivi nel recensire la gigantesca icona, americana ma universale, e migliaia di opinioni rispetto al suo ultimo lavoro sono già disponibili in rete, molte delle quali a mio parere lo sovra- o sottostimano. Il mio personale giudizio sta salomonicamente nel mezzo. Mi spiego. Dylan è stato un rivoluzionario sia nelle liriche (il premio Nobel per la letteratura a mio avviso non è stata una forzatura) che nella musica, per la quale ha trasformato la figura dello storyteller folk in un artista pop-olare, plasmandola fino a farne una rockstar da stadio. Immutato il talento lirico, capace di tradurre in poesia una lettura puntuale, intelligente ed icastica della realtà personale, sociale, politica dell'umanità intera (può permetterselo), ascoltando questa sua ultima fatica sembra invece che la sua forza melodica si sia affievolita nel tempo. Così il riproporre musica tradizionale, con l'alternarsi di brani di impronta bianca come il folk delle origini e di blues canonici di marca nera Delta/Chicago, in entrambi i casi senza partiture musicali d'eccellenza, con canzoni oltremodo lunghe (6-7-9-17 minuti!) che si concludono esattamente come sono iniziate, senza sussulti nè di scrittura nè di esecuzione strumentale, francamente (mi) annoia. Sarebbe più appropriato gioire della "lettura" dell'ultimo album di Dylan. Testi da 10 e partitura da 6 e mezzo. Che però non fanno media, perchè non stiamo recensendo un romanzo, ma un disco. Che oltre alle liriche riesce tuttavia ad emozionare anche con la voce del menestrello di Duluth, col tempo migliorata da ipernasale a cavernosa, a tratti evocativa del timbro del primo Tom Waits.
Voto Microby: 7    
Preferite: My Own Version of You, I've Made Up My Mind To Give Myself To You, False Prophet

giovedì 18 giugno 2020

DRIVE-BY TRUCKERS


DRIVE-BY TRUCKERS (2020) The Unraveling

Al solito politico come gli album che l’hanno preceduto in 25 anni di attività, The Unraveling vuole descrivere lo sbando morale in cui sono precipitati gli USA con l’elezione/guida di Donald Trump, dopo che col precedente American Band (2016) il gruppo aveva chiaramente sostenuto l’elezione della democratica Hillary Clinton. Ma il combo di stanza ad Athens, Georgia, non lo fa con il consueto robusto southern rock, ma piuttosto con una rassegnata, a tratti ipnotica ma solida, per certi versi rabbiosa “americana”, come siamo abituati a cogliere nelle corde dei Wilco più elettrici. Non un disco dalla presa immediata, anzi piuttosto monocromatico al primo ascolto, ma che cresce alla distanza certificando che i due membri fondatori della band, Patterson Hood e Mike Cooley, non hanno le polveri bagnate ed hanno inciso un lavoro valido, partorito e realizzato più con la pancia che con la testa.
Voto Microby: 7.6    
Preferite: Babies In Cages, Thoughts And Prayers, Grievance Merchants

martedì 9 giugno 2020

THE OUTLAWS


THE OUTLAWS (2020) Dixie Highway

Nonostante la forte connotazione loco-regionale (gli stati del Sud) ancor prima che nazionale (USA), il southern rock ha sempre goduto di un posto di rilievo internazionale nella considerazione dei sottogeneri della musica rock. Merito innanzitutto di una talentuosa personalità musicale che ha consentito ad alcune southern bands di mandare alla storia alcuni capolavori, ma anche di alcune caratteristiche distintive immediatamente riconoscibili come americane e sudiste: una spiccata matrice (hard) rock sensibilmente contaminata da country, blues, gospel/soul/R’n’B, honky tonk/boogie. Ingredienti utilizzati con posologie differenti ed identificative dai vari gruppi storici: più ad impronta blues (The Allman Brothers Band, Lynyrd Skynyrd), country (The Outlaws, Atlanta Rhythm Section, The Marshall Tucker Band, Black Oak Arkansas, Charlie Daniels Band), hard (ZZ Top, Molly Hatchet, 38 Special), gospel (le numerose bands che rivestivano le partiture di southern soul ed armonie vocali gospel anziché country), honky tonk (le meno numerose bands che prediligevano uno schema pianistico anziché chitarristico). Gli Outlaws non farebbero parte di un’ideale antologia del southern rock, non fosse che per un primo album omonimo (era il lontano 1975) di ottima qualità e che immediatamente ne disegnava le caratteristiche peculiari: le eccellenti linee armoniche vocali e i limpidi fraseggi delle chitarre elettriche. Probabilmente queste ultime hanno stimolato nel tempo l’interesse degli ascoltatori hard’n’heavy, chè non si spiegherebbe come l’ultima fatica dei Fuorilegge sia stata recensita (in termini prevalentemente entusiastici) da stampa, fanzines e blog “metal” prima ancora che rock. Sia ben chiaro, di metal in Dixie Highway non c’è veramente nulla, di hard qualcosa, di elettrico quasi tutto. E la presenza di ben quattro chitarristi sugli otto membri della band garantisce non sono un impianto sonoro trascinante, ma anche assoli infuocati, duetti ispirati e fughe/inseguimenti delle soliste di qualità superba (raccomandato l’ascolto in cuffia o a palla in auto). In modo del tutto inatteso gli unici membri fondatori della band (il cantante e chitarrista Henry Paul ed il batterista Monte Yoho) pubblicano con Dixie Highway il loro miglior lavoro di sempre, ed un disco da tramandare fra i più rappresentativi del genere. L’incipit dell’album sembra volerlo ribadire con forza, nel titolo e nella qualità della canzone: Southern Rock Will Never Die. Non lo perda chi ama il rock viscerale dalle sonorità accese ma composte, e meno che meno chi identifica il rock con le chitarre elettriche.
Voto Microby: 8.3    
Preferite: Southern Rock Will Never Die, Dixie Highway, Over Night From Athens

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