NEIL
YOUNG (2020) Homegrown
Lenire
il dolore di una separazione attraverso l'opera d'arte, musicale o
letteraria o figurativa che sia, è talmente comune che la maggior
parte degli artisti ne ha una nel proprio carniere, e così molti
musicisti hanno un
break-up album
nella propria discografia. La storia personale di Neil Young è
talmente jellata che si potrebbe permettere una collana di dischi di
elaborazione del dolore: già affetto personalmente da postumi
(modesti) di poliomielite, da diabete mellito insulino-dipendente, un
aneurisma cerebrale ed epilessia, ha avuto la sfortuna di avere da due
donne diverse due figli con paralisi cerebrale infantile ed una
figlia con epilessia, e nel contesto di soffrire la scomparsa per droga di
due cari amici di vecchia data e di trovarsi a chiudere la relazione con
l'attrice Carrie Snodgress, evento che costituì il primum
movens della
scrittura di Homegrown.
Siamo nel 1974, all'apice del successo artistico e commerciale del
canadese, anche grazie alla sofferenza che trapela dai suoi dischi e
che riesce a comunicare come sentimento universale. Il pellegrinaggio
a Lourdes non si addice ad un'ateo convinto, ecco perciò che
l'elaborazione del lutto passa attraverso quella che sarà ricordata
come la trilogia del dolore: Time
Fades Away (1973),
On The Beach
(1974) e Tonight's
The Night (1975),
gli ultimi due capolavori assoluti, da sempre considerati tra i
dischi più plumbei e disperati del decennio. Ma tra il giugno 1974
ed il gennaio 1975 Young scrisse ed incise anche l'attuale Homegrown,
mai pubblicato finora. E' Neil Young stesso ad ammettere ora che,
avendo già composto e realizzato Homegrown
e Tonight's The
Night, ritenne il
primo pudicamente troppo intimo e privato per essere mercificato, e
che lo scarto qualitativo a favore del secondo fosse talmente evidente
da riporre nel cassetto il primo. Forse anche su suggerimento del
bassista Rick Danko, che come altri di The
Band (il
chitarrista Robbie Robertson ed il batterista Levon Helm in primis)
collaborava attivamente col canadese su quel progetto. Ben 45 anni
dopo sfila l'album dal cassetto e lo pubblica: un brano è già noto
perchè inserito nell'antologia Decade (1977) (Love Is A
Rose), altri sono
conosciuti in versione diversa perchè pubblicati in dischi
successivi, ed ora proposti in quella originale (Star
of Bethlehem, Homegrown, Little Wing, White Line)
e sette sono del tutto inediti (tra questi, per essere chiari, nessun
brano-killer). Molte canzoni danno l'impressione di non essere
rifinite, limate, ripensate, come fossero delle outtakes
piuttosto che il corpo di un album fatto e finito. O più
probabilmente esprimono lo stato d'animo del loner
canadese al momento: vulnerabile, incerto, conflittuale, tormentato.
La sorpresa più importante è che l'atmosfera generale del lavoro
non è lugubre come quella dei capitoli della trilogia, anzi spesso
al di là dei testi non si ha musicalmente l'impressione di un uomo
ripiegato su sè stesso, ma di uno che cerca il calore di una
condivisione con gli amici, attraverso momenti di pacificata
accettazione del destino, altri di pacato disincanto, altri di
candida leggerezza, altri ancora di rabbia controllata in blues
elettrici. Probabilmente la spontaneità che ci aspetteremmo da una
jam
tra amici in una cantina, tipo The
Basement Tapes
dylanbandiani. Forse da qui anche l'impressione di un "buona la
prima" che rende immediata la fruizione del lavoro, ma anche
quella di scarsa omogeneità globale, tra ballate acustiche alla
Harvest
e rasoiate elettriche alla Crazy Horse (nel 1975 il nostro avrebbe
pubblicato Zuma);
oltre ad un brano parlato totalmente inutile (Florida)
e ad un paio di canzoni quantomeno pleonastiche (Kansas
e
We Don't Smoke It).
Giusto quindi considerare Homegrown un album diverso dai precedenti,
e piuttosto, per esplicita ammissione di Young, "il ponte
inascoltato tra Harvest
e Comes A Time".
Al netto di tutte le precedenti considerazioni, resta un disco che
non sarebbe stato un capolavoro nel 1975 e quindi meno che meno nel
2020, ma che è invecchiato bene e si ascolta con molto piacere
(giudizio che vale per gli appassionati dei suoni
westcoastiani dei seventies,
non certo per i millennials).
Diavolo d'un canadese, col suo dolore ci ha distribuito piacere come
la lingua che batte dove il dente duole.
Voto
Microby: 7.5
Preferite:
Vacancy,
Love Is A Rose, Separate Ways
1 commento:
Come sempre mi trovo d’accordo con le recensioni di Microby...forse un pizzico di nostalgia mi porta a considerare Homegrown meritevole di un voto leggermente più alto (8??), ma tant’è...hey hey my my rock ‘n’ roll can never die...
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