NADINE SHAH (2020) Kitchen Sink
Se in occasione di Holiday Destination (2017) avevamo sottolineato per la prima volta l’influenza di Morphine e Talking Heads, la cantautrice di passaporto britannico ma dal DNA misto pakistano-norvegese conferma strumentalmente tale impressione in una prima parte del nuovo album che potrebbe appartenere ad un David Byrne meno caraibico o ad un Peter Gabriel meno etnico. Salvo proporre una seconda parte in cui i colori si attenuano per lasciare spazio ad un bianco/nero di struttura dark che troviamo nelle canzoni più pop di Anja Plaschg (Soap and Skin), Chelsea Wolfe, Jenny Hval, Angel Olsen. D’altra parte su queste pagine a proposito del suo Fast Food (2015) scrivevamo “una Patti Smith che flirta con la musica dark di stampo 4AD”. Ci sono quindi le due anime della Shah in Kitchen Sink, ben distinte come a voler testimoniare l’equilibrio ancora non raggiunto, la dicotomia non solo musicale ma anche socio-politica (il tema delle liriche è quello della condizione femminile attuale), che parte forse da un conflitto familiare mai elaborato tra un diritto femminile tra i più avanzati (quello norvegese) ed uno tra i più limitati (quello pakistano), agli occhi di una donna nata e cresciuta in Inghilterra. Musicalmente la Shah si conferma come una delle migliori cantautrici pop-rock dell’ultima generazione, con la sua voce baritonale dal vibrato classico e gli arrangiamenti moderni ma figli della new wave ’80 e dell’indie-rock ’90, e ben lontani dal mainstream dozzinale.
Voto Microby: 7.6
Preferite: Ladies for Babies (Goats For Love), Trad, Buckfast
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