lunedì 26 settembre 2016

Recensioni al volo: Amos Lee, Cocoon, Dawes

AMOS LEE - Spirit (2016)

Da sempre uno dei favoriti del blog, il 39enne Amos Lee è ormai decisamente assurto tra i grandi della musica americana, soprattutto dopo il grande successo di “Mission Bell”, incredibilmente salito al primo posto delle classifiche Billboard nel 2011. Il suo modo di mixare folk e soul, ma anche R&B, gospel, jazz, bluegrass e rock ne fa un’icona moderna del genere. In effetti la sua musica si sta sempre più allontanando dal country-folk dei primi lavori per virare verso il Memphis soul e addirittura il gospel: il tutto intensamente arricchito da fiati e violini. Senza rinunciare alla qualità della sua ispirazione il suo talento continua a migliorare. Da ascoltare: Vaporize, Spirit, Lost Child (un funky-soul che sembra preso da Innervisions di Stevie Wonder), Highway and Clouds. Voto: ☆☆☆☆

COCOON - Welcome Home (2016)
Dopo 6 anni di silenzio torna il progetto del francese Mark Dumail, al terzo disco dopo il grande successo dei precedenti, entrambi dischi di platino. Il lavoro è stato registrato negli USA in collaborazione con Matthew E. White, una delle figure più rispettate dell’indie-rock americano, e con Natalie Prass, la cui voce sostituisce quella di Morgane Imbaud, al momento coinvolta in altri progetti personali. L’album trae ispirazione da vicende familiari che ne hanno segnato l’animo negli ultimi anni, dopo la nascita di un figlio con gravi problemi cardiaci. La forzata permanenza in ospedale, la grande preoccupazione ed il successivo sollievo per l’avvenuta guarigione ne hanno evidentemente amplificato l’ispirazione pop-soul, esaltandone la tipica freschezza compositiva.  Un disco più maturo, smarrito talora in sonorità troppo “facili” ma comunque efficaci e piacevoli. Da ascoltare: I Can’t Wait, Get Well Soon. Voto: ☆☆☆1/2

DAWES - We’re All Gonna Die (2016)
E’ passato poco più di un anno dal loro ultimo lavoro, probabilmente il migliore della loro discografia, così profondamente influenzato da Jackson Browne e dal revival del country-rock degli anni ’70.  Arrivati al quinto disco, arriva anche una brusca sterzata di ispirazione: lasciato da parte il folk-rock dei precedenti il gruppo di Los Angeles ha iniziato ad esplorare altre sonorità: funky, elettronica, blues-rock. Probabilmente il tentativo è quello di trovare nuove energie e percorrere nuovi approcci musicali, facendo perno più sul ritmi di basso e batteria che non sulle chitarre acustiche. Un album quindi musicalmente assai diverso dai precedenti, che continuiamo tuttavia a preferire. Voto: ☆☆☆

martedì 20 settembre 2016

NICK CAVE & The Bad Seeds, ED LAURIE & Straw Dog


NICK CAVE & The Bad Seeds (2016) Skeleton Tree




Da sempre preda delle proprie ossessioni riguardanti la religione, la morte, l’amore, la famiglia, la violenza, la società malata ed al contempo turbolento esploratore dei propri conflitti ed angosce interiori, l’australiano ha partorito Skeleton Tree affrontando la realtà della tragica perdita del figlio quindicenne, precipitato da una scogliera nel luglio 2015. Se si eccettuano le colonne sonore con Warren Ellis, mai come stavolta Cave ha lavorato musicalmente per sottrazione. Abituati agli eccessi dei Birthday Party e dei primi lavori da solista negli ‘80, quando ancora la rabbia e l’urgenza punk giovanile erano preponderanti, ma anche al cantore romantico ma mai pacificato di murder ballads coi Bad Seeds nei ’90-‘00, così come al rocker grintoso ma non più frustrato nelle parentesi coi Grinderman, l’ultimo album sorprende per il suono asciutto, essenziale, rarefatto: una sorta di ambient spettrale sulla quale declamare i testi, mai così centrali al disegno e fondamentali per comprenderlo. L’impressione generale è quella che l’album rappresenti una sorta di elaborazione ma non accettazione del lutto (“nothing really matters when the one you love is gone”, canta in I Need You) , piuttosto che una catarsi o una rassegnazione, e meno che meno una rimozione o negazione. I Bad Seeds svolgono un lavoro di supporto empatico a questa messa da requiem, che avrebbe potuto essere suonata parimenti da Brian Eno, o Daniel Lanois, o Nils Frahm, o James Blake. Non un capolavoro, ma la sincerità e la sofferenza palpabili lo posizionano anche assai lontano dalla noia anodina riportata in alcune recensioni. Nel primo brano del disco, Jesus Alone, l’incipit recita “You fell from the sky/crash landed in a field […] with my voice I am calling you”: insieme una preghiera a Dio ed un richiamo affettuoso al figlio.
Voto Microby: 7.7
Preferite: Skeleton Tree, I Need You, Girl In Amber



ED LAURIE & STRAW DOG (2016) Dark Green Blue


Il londinese di nascita ma globetrotter per vocazione, attore e musicista Ed Laurie è al quinto lavoro a proprio nome ma al secondo in collaborazione con la backing band bolzanina Straw Dog. Grazie al combo nostrano le coordinate musicali del nostro, agli esordi dedito con pregevoli risultati ad un cantautorato prevalentemente acustico, intimista ma originale e prezioso (le influenze andavano da Leonard Cohen a Syd Barrett, da Jacques Brel a Robyn Hitchcock, piuttosto che guardare come i coevi a Nick Drake ed Elliott Smith; recuperare in tal senso Small Boat Big Sea del 2009 e Cathedral del 2011), hanno assunto una connotazione più precisa ed altrettanto valida, con riferimenti artistici che attualmente scomodano Lou Reed e soprattutto Nick Cave (grazie anche alla voce baritonale più declamata che cantata di Ed), ma nell’impianto musicale anche il mai dimenticato trio bostoniano Morphine del compianto Mark Sandman (come questi la conduzione dei brani è spesso a guida-sax baritono piuttosto che –chitarra). Laurie non è più una sorpresa, e gli Straw Dog sono da applauso. Da non perdere nella tournée in corso.
Voto Microby: 7.7
Preferite: Dead Men’s Game, Cruel Kind of Love, Emperor You Fool





 

martedì 13 settembre 2016

RICHMOND FONTAINE, RYLEY WALKER, BEAR'S DEN


RICHMOND FONTAINE (2016) You Can't Go Back If There's Nothing To Go Back To




Decimo e (dichiarato) ultimo album per la formazione di Portland, Oregon guidata dal musicista e romanziere Willy Vlautin. Il quale firma uno dei migliori lavori della band percorrendo con la bella voce dal timbro dolente e malinconico i vasti territori di confine, le praterie desolate ed i deserti polverosi degli Stati Uniti. Il solito marchio stilistico rappresentato da un alt-country/americana slowcore, figlio di Uncle Tupelo e Walkabouts e fratello di Carolina, l’ultima fatica degli Spain. Vlautin è beautiful winner come scrittore, beautiful loser come musicista, ma in entrambi i casi si dimostra raffinato ed intenso ritrattista della vita ai margini.
Voto Microby: 7.7
Preferite: Two Friends Lost At Sea, Wake Up Ray, A Night In The City


 
RYLEY WALKER (2016) Golden Sings That Have Been Sung


Terza prova per il virtuoso chitarrista fingerstyle americano, e nessuna modifica stilistica rispetto al precedente Primrose Green che lo scorso anno l’aveva imposto all’attenzione mediatica. Ancora echi di Tim Buckley, i primi Van Morrison e John Martyn e del folk inglese dei ’60-‘70 ibridati con il primo Bruce Cockburn ed il David Crosby di If I Could Only Remember My Name. Psichedelia, folk, jazz ben miscelati ma che non guardano oltre i seventies, e purtroppo serviti da una voce “normale”, quando i maestri di riferimento invece erano/sono stellari. Per palati fini ed appassionati dei riferimenti di cui sopra, ma con la speranza di un’evoluzione stilistica.
Voto Microby: 7.4
Preferite: The Halwit In Me, A Choir Apart, The Roundabout



BEAR'S DEN (2016) Red Earth & Pouring Rain


Deludente secondo lavoro per il trio (ora duo) londinese, autore due anni fa di un eccellente esordio strettamente embricato con Fleet Foxes e Mumford & Sons. Proprio di questi ultimi i Bear’s Den sembrano voler emulare le gesta, dal momento che hanno impresso al loro indie-folk gentile ma frizzante una brusca sterzata verso i suoni sintetici della new wave anni ’80, con batteria metronomica, basso gommoso, chitarre riverberate per una connotazione guitar-synth-pop che attualmente li colloca stilisticamente tra James, Simple Minds, Of Mosters And Men, Everything Everything e gli ultimi, melodrammatici Mumford & Sons. Revivalisti come centinaia di altri gruppi, purtroppo. Anche se di buona fattura, non ne avevamo bisogno, mentre ci mancherà la loro naiveté folk-pop.
Voto Microby: 6.7
Preferite: Emeralds, Greenwoods Bethlehem, Dew On The Vine








 

 

 

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