giovedì 30 agosto 2018

TONY MOLINA, DAWES


TONY MOLINA (2018) Kill The Lights

Si può riuscire a galleggiare nel mercato discografico pubblicando un album di 10 canzoni per un totale di 14’26”, dopo uno iato di 5 anni dal debutto (ovviamente in linea: 12 brani per una durata totale di 11’20”)? Difficile dal punto di vista economico, perché da quello artistico il californiano Tony Molina conquista per la seconda volta l’attenzione della critica con dieci caramelle di power-pop acustico (altra singolarità visto i trascorsi in varie hardcore bands) in bilico tra Byrds, John Lennon, La’s e Teenage Fanclub, ma con disposizione indie lo-fi e durata conformi a dei Guided By Voices da record: eppure in 1’30” di durata media dei brani il nostro riesce a farci stare strofa, ritornello, assolo e chiusura. Bozzetti a loro modo curati, più che demo, con idee e senso della melodia che altri svilupperebbero almeno per 3’-4’ minuti canonici: ma evidentemente a Molina interessa più aderire all’essenza della composizione artistica. Gli orpelli li lascia al mercato. Una sorta di nouvelle cuisine pop che pesca a piene mani tra gli anni ’60 e i ’90. Non solo curioso. Valido.
Voto Microby: 7.7
Preferite: Nothing I Can Say, Jasper’s Theme, Now That She’s Gone


DAWES (2018) Passwords
Può lasciare perplessi la metamorfosi musicale della band di North Hills, CA, dall’iniziale folk-rock rootsy con forti influenze westcoastiane al viraggio verso il soft-rock sempre di impronta californiana (culminato nel comunque pregevole All Your Favorite Bands del 2015), all’attuale soft-pop/easy listening datato ’70-’80 che, con melodie orecchiabili e zuccherine, le voci modulate, la sezione ritmica in punta di piedi, le chitarre ed il pianoforte a citare l’Eric Clapton ed il Bruce Hornsby più nazionalpopolari, gli archi melliflui, ricorda un frullato dei più melodici Air Supply, Foreigner e Fleetwood Mac. Peccato per gli arrangiamenti, perché le qualità compositive sono immutate ed i testi del leader Taylor Goldsmith sono sempre intelligenti e poetici, purtroppo stemperati dalla melassa. Partiti con in testa The Band e C.S.&N., ora i Dawes sono pericolosamente vicini a Christopher Cross, ai cui fans piacerà molto questo ultimo loro sforzo.
Voto Microby: 7
Preferite: Crack The Case, Living In The Future, Time Flies Either Way



venerdì 24 agosto 2018

Recensioni al volo: David Myhr, Bird Streets

DAVID MYHR - Lucky Day (2018)

Ennesimo cantautore della sempre più interessante scena svedese, DM, docente della scuola di musica dell’Università della sua città, è un vero e proprio maestro di retrò-pop con quel piano sempre creativo e quel sound semiacustico, morbido e melodico al punto giusto. Nel 2012 aveva pubblicato Soundshine, primo album da solista dopo aver lavorato quasi 20 anni con i Merrymakers, e universalmente indicato come uno dei migliori album power pop dell’anno (quell’album era il prodotto della sua tesi di dottorato!). Con questo album, registrato a Nashville (e si sente), DM conferma la sua grande capacità di compositore ed arrangiatore: chitarre acustiche, armoniche a bocca, mandolini, pedal steel, accordi jazzati, armonie Beatlesiane dai colori freschi e vivaci, quasi fosse alla perenne ricerca della canzone pop perfetta. Richiami: Roddy Frame (Atzec Camera), Jeff Lynne (ELO), Gerry Rafferty, Chris Difford (Squeeze), 10cc, George Harrison (del periodo dei Traveling Wilburys). Da ascoltare: Jealous Sun, Every Day It Rains, The Only Thing I Really Need is You. Voto: 1/2


BIRD STREETS - Bird streets (2018) 

Restando sul genere power pop, il songwriter John Brodeur è uno dei più interessanti esponenti della scena indie-rock di New York. Il suo primo lavoro, Tiger Pop del 2000, ispirato ai lavori degli XTC, l’ha fatto introdurre nel giro indie della East Coast ed è stato seguito poi da album dall’impronta più lo-fi nel 2009 (Get Through) e nel 2013 (Little Hopes). In questo suo progetto, affiancato da Jason Falkner (più noto come chitarra solista e polistrumentista della band di Beck ma anche come co-produttore di Paul McCartney e Noel Gallagher), John Brodeur vira verso un power-pop introspettivo, ricco di citazioni classiche senza essere stucchevolmente nostalgico. Come afferma egli stesso il disco “ is a product of a new yorker trying to write California songs”. Disco molto interessante per un autore di sicura prospettiva.
Richiami: Cake, Phish, Steely Dan, Joe Pernice, REM.

Da ascoltare: Betting On the Sun, Stop To Breathe, Heal.  Voto:

martedì 21 agosto 2018

JIM JAMES


JIM JAMES (2018) Uniform Distortion

Discontinuo, disomogeneo, disturbante, dispersivo, disarmante, distimico: tutto quello che significa il prefisso dis- rappresenta bene il musicista leader dal 1998 dei My Morning Jacket (di cui ascoltare almeno “Z” del 2005), dal 2013 titolare di una carriera in proprio dalla qualità ovviamente disordinata, e da sempre di una pletora delle più svariate collaborazioni. Con i MMJ ha suonato americana, pop, psichedelia, alt-country, jazz, rock, elettronica, soul mistico dalle influenze orientali. Non da meno da solista, migrando dal cantautorato acustico stripped-down all’elettronica spirituale, dalle sperimentazioni musicali al più frequente lo-fi indie rock, con l’unico comun denominatore di una propensione, nei testi e nell’espressione musicale, per la filosofia e la metafisica. In tal senso la migliore espressione artistica (ma la critica è ferocemente dis-cordante) risiede nell’eccellente “Regions of Light and Sound of God” del 2013. Ma l’artista di Louisville ha sempre dimostrato di possedere le scintille del genio. Che finalmente si palesano con continuità in undici canzoni, quelle che compongono il quarto album da solista, sporche e cattive, in un rock chitarristico che “touches on everyone from Elvis Presley to Dinosaur Jr.” (AllMusic). Vi si possono trovare riferimenti al garage-Velvet Underground dei ’60, al punk-pop dei Ramones nei ’70, allo psych-rock degli ’80 ed al grunge più immediato dei ’90; ma le chitarre grattugiate e distorte, il trionfo di piatti ed il finto disordine rimandano d’istinto al Neil Young elettrico servito dai Crazy Horse. Si palpa convinzione, si respira passione, si intuisce la ricerca rabbiosa di una via d’uscita per le elucubrazioni mentali e i sentimenti connessi. Un album che cresce molto con gli ascolti, da consigliare a chi ama il rock, classico e trasversale. “I’m either behind the times / or ahead of the times / or maybe I’m just out of time” (Out of Time). Ci mancava il disorientato.
Voto Microby: 8.3

Preferite: All In Your Head, No Use Waiting, You Get To Rome

sabato 18 agosto 2018

In ricordo di Claudio Lolli

E così anche Claudio Lolli ci ha lasciati. Dopo i titani della canzone d’autore – da Battisti, fino a Pino Daniele, passando per De André, Gaber, Dalla, Jannacci (ma vorrei ricordare anche Gianmaria Testa) – anche lui, cantautore defilato, poco disposto a mettersi sotto i riflettori con la posa da maître à penser, mai sopra le righe, ha messo il suo sigillo su una stagione irripetibile per la canzone italiana. Lui che era meno noto, che ingaggiò estenuanti bracci di ferro con le case discografiche per poter ottenere il prezzo imposto sui suoi dischi, che non andava in televisione, che ha fatto della coerenza un abito a misura di esistenza, se ne va in punta di piedi, come ha vissuto nella sua Bologna. Se n’è andato ad Agosto, quando “si muore di caldo e di sudore. Si muore ancora di guerra non certo d'amore”, proprio nei giorni del dramma di Genova, in cui risuona ancora attualissima la frase “si muore di stragi più o meno di stato”, all’epoca riferita a quella dell’Italicus.
Ho avuto la fortuna di conoscerlo presto e di ascoltarlo, la prima di 10 volte, a Rimini, nel 1980, quando avevo 16 anni e ancora non avevo capito che Luigi Nono era un compositore (peraltro suocero di Nanni Moretti) e non si scriveva Luigi IX, come il re di Francia vissuto nel XIII secolo. Ci andai con Nonno e fu un’epifania fatta dei suoni jazzati di “Extranei” e delle riletture dei suoi brani più noti, dall’immancabile “Borghesia” agli “Zingari Felici”, passando per quel capolavoro inarrivabile che è “Disoccupate le strade dai sogni”, al quale Mario Bonanno ha recentemente dedicato un libro, “È vero che il giorno sapeva di sporco”. Per Lolli gli anni ’80 furono l’inizio dell’irriducibilità dei suoi testi esistenzialisti allo spirito del tempo, segnato da forme sempre più spinte di edonismo e disimpegno anche in campo musicale: un’interminabile stagione di riflusso che avrebbe portato ad abbandonare le piazze e a disoccupare le strade dai sogni. Se ne rese bene conto, Lolli, quando – come ha raccontato in diverse occasioni durante i suoi spettacoli dal vivo – in Puglia si trovò a suonare in un locale di infimo livello davanti a una decina di spettatori. Fu la molla per capire che in Italia la canzone d’autore stava andando da tutt’altra parte e che lui, immergente e inadatto a un panorama svogliato e involuto, avrebbe fatto meglio tornare a fare il professore al liceo di Bologna. Amatissimo dagli studenti, come testimoniano i ragazzi intervistati fuori dalla scuola dove insegnava nel pregnante e imperdibile documentario di Salvo Manzone, “Salvarsi la vita con la musica”. Non a caso, tra il primo concerto visto e il nuovo millennio potei seguirlo in poche occasioni e in luoghi che erano più una fucina per musicisti underground che non palcoscenici per autori di acclarata fama, dal Villaggio Globale a Borghetto Flaminio fino a quello nei giardini di Castel Sant’Angelo, dove gli spettatori erano talmente pochi che potevi starlo a sentire a un paio di metri dal microfono. Anche la produzione discografica si era ormai rarefatta: il disco del 1983 “Antipatici antipodi” (con copertina di Andrea Pazienza) non è mai stato ristampato su CD (come, del resto, il precedente “Extranei”) e per gli interi gli anni ’90 realizzò un solo disco di inediti (“Intermittenze del cuore”) più qualche tocco di vernissage a vecchi successi del passato, ma nulla di più. Le sue collaborazioni con i concittadini Lucio Dalla per “L’Eliogabalo” e Guccini per “Keaton” cominciavano a somigliare sempre più a vecchie foto ingiallite. Il suo modo di cantare, nonostante una voce bellissima, senza inflessioni, cristallina, posata e profonda, si era trasformato in un recitar cantando, i testi erano declamati senza sforzo mnemonico, attingendo alle lettura su quadernini e libriccini stropicciati. È in questa veste consolidata che si presentò anche nella libreria MelBookstore nel 2003, quando – a fianco dell’autore Jonathan Giustini – lo ascoltai in occasione del lancio del volume biografico “La terra, la luna e l'abbondanza”, supportato dal Parto delle Nuvole Pesanti, l’ensemble di ragazzi calabresi col quale propose una versione aggiornata di “Ho visto anche degli zingari felici”.
Sono sempre stato così innamorato della musica e delle parole di Lolli che nel 2006, a ridosso di un suo concerto all’Alpheus, organizzai una “serata Lolli” a casa mia, insieme al Nonno, Anna, Elisabetta, Achille, Stefania e Riccardo Rigato, tra memorabilia, reperti archeologici da vecchi giornali e riviste nonché la visione del dvd acquistato in occasione di quel concerto. Dalle foto scattate durante quella serata partì casualmente anche la mia collaborazione – durata meno di un paio d’anni – con le Brigate Lolli, il principale sito italiano dedicato al cantautorato, per il quale cominciai a scrivere recensioni di concerti.
Da lì a poco a Lolli sarebbe stata riconosciuta la statura che gli spettava: quella di un Maestro assoluto della canzone italiana, al punto che nel 2013 i suoi fan si diedero appuntamento – organizzato grazie alla macchina dei social – a Monterotondo, nella splendida cornice di Palazzo Orsini, in occasione del Raduno Nazionale Lolli (sic!). Nella circostanza lo accompagnarono sul palco, oltre al fido Paolo Capodacqua (uno che si diplomò in chitarra classica al conservatorio di Sulmona, presentando dei brani riarrangiati di Lolli e che per questa via entrò nella sua orbita), Danilo Tomasetta e Roberto Soldati: entrambi colonne portanti della band degli “Zingari felici”, il secondo diventato, nel frattempo, ordinario di fisica all’università di Bologna.
L’ultima volta che lo vidi fu quattro anni fa, all’Auditorium, dove presentò un’antologia delle sue canzoni d’amore (tempo prima aveva pubblicato “Lovesongs”). Fu l’unica volta in cui lo ascoltai da solo.
Infine, quando il mercato discografico era ormai al collasso, partecipai con fierezza al crowdfounding per realizzare il suo ultimo disco, quel “Grande freddo” che, a chi aveva versato qualche soldino in più, al momento della pubblicazione giunse accompagnato da un concerto registrato a Bologna nel 2014, altrimenti irreperibile. Il disco vinse poi anche il premio Tenco come miglior album dell’anno.
Mi mancheranno moltissimo le parole di Claudio, anche quelle in prosa di libri vibranti e cariche d’amore come in “Lettere matrimoniali”. Così come mi mancherà la sua ironia, quella che durante i concerti bilanciava ampiamente la malinconia che trapelava da canzoni e album di cui basterebbe ricordare qualche titolo: “Un uomo in crisi (canzoni di morte, canzoni di vita)”, “Canzoni di rabbia”, “Quando la morte avrà”, “Angoscia metropolitana”, “La morte della mosca”. Ciao Claudio. Grazie per tutto ciò che mi hai regalato negli ultimi 40 anni. E per esserti sempre seduto dalla parte del torto.

lunedì 13 agosto 2018

MYLES KENNEDY, ME'SHELL NDEGEOCELLO


MYLES KENNEDY (2018) Year of The Tiger

Voce e chitarra nella band di Slash, ed una vita musicale passata tra il post-grunge ed il metal alla Guns’n’Roses, Myles Kennedy debutta da solista all’età di 48 anni con un sorprendente album da cantautore acustico che tuttavia suona e canta come fosse in una performance unplugged di una band di metal. Il disco è una sorta di concept dedicato alla memoria e all’elaborazione del lutto del padre perso all’età di 5 anni: suona sincero, appassionato, insieme melodico ed energico, mai mèlo o mellifluo, e si fa apprezzare anche per le notevoli prestazioni alla voce solista e alle chitarre, brillanti e tecnicamente ineccepibili. Heavy metal docet.
L’unico rischio è che non soddisfi né i metallari né chi ama il cantautorato classico; ma chiunque sia di formazione rock non perda questo gioiellino a suo modo alternativo.
Voto Microby: 7.8

Preferite: Year of The Tiger, The Great Beyond, Turning Stones



 
ME'SHELL NDEGEOCELLO (2018) Ventriloquism
Ho un debole per Michelle Lynn Johnson, americana nata in Germania nel 1968 da padre militare e sassofonista, cresciuta a Washington D.C., androgina e bisessuale, musicalmente raffinatissima ed incatalogabile: il nome d’arte Me’shell Ndegeocello (“libera come un uccello” in lingua swahili), assunto dall’età di 17 anni, le calza a pennello. Eccellente bassista, è richiestissima session woman per artisti funk, soul, jazz, R&B, reggae, hip hop, pop-rock. Nella preziosa carriera in proprio, forzando la si potrebbe maggiormente accostare al nu-soul, che tuttavia impregna di tutti gli stili suddetti. A quattro anni dall’ottimo Comet, Come To Me (recensito su queste pagine) propone per la prima volta un album sottotono, a partire dalla scrittura: nessun brano autografo bensì 11 covers di brani R&B e pop degli anni ’80-’90, più o meno noti (tra cui Prince, Sade, George Clinton, TLC, Tina Turner, Janet Jackson). Esecuzione da manuale, elegantissima come sempre, ma talmente cerebrale che rischia di essere tediosa e leziosa, che anche dopo ripetuti ascolti non ti scalda il cuore ma solleva solo algida ammirazione. Il rischio di retrocedere a musica di sottofondo per salotti buoni è ad un passo, ed è inconcepibile per un’artista di tale caratura. Convintissimo che si rifarà.
Voto Microby: 7
Preferite: Waterfalls, Tender Love, Nite And Day


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