sabato 30 marzo 2019

Recensione: Hayes Carll - What It Is (2019)

HAYES CARLL - What It Is (2019)

Non particolarmente prolifico (6 album in 18 anni di carriera) ma sempre ispirato (nel 2016 candidato ai Grammy per migliore canzone country con “Chances Are”), il texano Hayes Carll riesce tuttavia sempre a migliorarsi di lavoro in lavoro con il suo caratteristico country-folk condito di rock’n’roll e di soul. In quest’ultimo lavoro una mano gliela dà senz’altro anche la nuova compagna Allison Moorer (una delle tanti ex mogli di Steve Earle) che ha peraltro co-prodotto questo disco. Una voce impostata alla Billy Joe Shaver, ballate alla Todd Snider, country elettrico alla Johnny Cash, sonorità southern-soul o vagamente honky-tonk alla Guy Clark, cui hanno contribuito anche le tastiere di Gabe Dixon ed il fantastico violino di Fats Kaplin.  Disco frizzante, da vero “Texas outlaw”, per uno dei migliori cantautori della sua generazione (ha 43 anni). Da ascoltare: Be There, Jesus and Elvis, None ‘Ya. Voto:


martedì 26 marzo 2019

STEVE MASON


STEVE MASON (2019) About The Light

Chi non ricorda la Beta Band, il gruppo di Edimburgo preferito dallo scrittore Nick Hornby che a cavallo del millennio ha significativamente improntato con tre notevoli album il post-britpop, contaminando la britishness pop-rock con l’elettronica, il nu-soul, il dub, l’errenbi, il trip-hop? Ebbene, dal 2010 il loro vocalist e principale autore ci delizia con lavori (l’attuale è il quarto ufficiale) mai meno che buoni e dal tratto immediatamente distintivo. Col tempo il suono si è fatto meno ricercato e più “americano”, tanto che per “About The Light” lo scozzese ha assunto alla produzione Stephen Street (Morrissey, Blur, The Cranberries, The Pretenders), con la richiesta di catturare un suono più simile al calore espresso dalla propria band nei live acts, e di accentuarne la blackness. Compito riuscito perché il disco mantiene la bontà della scrittura (al solito ricca di intelligenti melodie) e la impreziosisce con innesti di cori soul e una sezione fiati colorata, sebbene guidata (siamo pur sempre anglosassoni…). Più vibrante, energico, compatto rispetto ai precedenti lavori, come nelle intenzioni “da band” più che “da solista-con-band”, ed un gradino più sotto nella discografia personale al solo “Monkey Minds In The Devil’s Time” (2013), gioiello più di impronta pop-rock cantautorale, “About The Light” ha il tiro rock del britpop e la spinta soul-funky raffinata della negritudine britannica. Consigliato.
Voto Microby: 7.8

Preferite: America Is Your Boyfriend, Rocket, Fox On The Rooftop

giovedì 14 marzo 2019

GARY CLARK JR.


GARY CLARK JR. (2019) This Land



Giusto per puntualizzare il genere, due-brani-due stilisticamente etichettabili come blues su un totale di 17 canzoni (comprese due bonus tracks) sono obiettivamente poco per quello che era finora considerato l’alfiere della rinascita/riattualizzazione della musica del diavolo. Nella sua ricerca, spesso caotica ma decisamente libera e spontanea, di dare un nuovo linguaggio al blues, il chitarrista-cantante-compositore texano di colore si è progressivamente spostato dagli esordi blues nel 2008 ad un approccio a 360° a tutta la musica nera, focalizzandosi in quest’ultimo lavoro più che al prologo (il blues) ed all’epilogo (l’hip-hop), all’ampia e ricca discografia di mezzo, quella storica fatta di rock, soul/rhythm and blues e reggae. A contarli, 6 sono i brani R’n’B, 4 quelli rock, 2 come scritto i blues, 4 quelli reggae (i migliori), 1 punk’n’roll (Gotta Get Into Something, che non sarebbe stato fuori luogo in un disco dei Ramones). A tutti i sottogeneri andrebbe incollato il prefisso “hard”, sia perché l’approccio è elettrico, sia perché la sovrapposizione e distorsione degli strumenti rende il suono sporco e cattivo. Stavolta nella testa e nel cuore dell’artista americano il suo proverbiale chitarrismo hendrixiano si sposa con le suadenze soul di Marvin Gaye ed il falsetto di Prince, ma soprattutto la grinta R’n’B-funky di Sly Stone ed il ritmo in levare di Bob Marley. Non tutto fila liscio, perché necessitano parecchi ascolti per dipanare l’apparente disordine musicale ed apprezzare la (buona) sostanza. D’altra parte un suono più levigato, come atteso dal mercato, avrebbe probabilmente forgiato una caricatura di Lenny Kravitz; né l’ascoltatore sente l’esigenza di un nuovo virtuoso dell’elettrica alla Joe Bonamassa. Qui siamo più dalle parti dei primi album di Black Joe Lewis (un po’ persosi recentemente) e dell’emergente Fantastic Negrito, con la plusvalenza della chitarra elettrica di Gary Clark Jr. che riporta prepotentemente alla mente Jimi Hendrix. Al solito, mentre tutti concordano nell’applaudire l’artista nella dimensione live ed attendono il capolavoro (nelle corde dell’artista di Austin), quello prodotto in studio lascia sempre il sapore amarognolo dell’incompiuto. Ma di straordinaria carica vitale. Da non perdere al Vittoriale di Gardone Riviera (BS) il prossimo 24 giugno.
Voto Microby: 7.6
Preferite: Feelin’ Like A Million, This Land, Feed The Babies

martedì 5 marzo 2019

RIVAL SONS


RIVAL SONS (2019) Feral Roots

Se state ancora litigando con gli amici perché considerate i Greta Van Fleet solo degli ottimi revivalisti, o perché alla band dei fratelli Kiszka preferite gli spagnoli Imperial Jade, deponete le armi perché i veri attuali depositari del classic hard rock dei seventies sono i californiani Rival Sons. Nati a Long Beach nel 2008 e giunti ora al sesto album (debutto su major, la mitica Atlantic), famosi per le torride performance live (d’altra parte, rodati da tournées intere come opener per Rolling Stones, Guns’n’Roses, QOTSA, Black Sabbath) in cui la potente e duttile voce di Jay Buchanan e la tecnica e muscolare chitarra elettrica di Scott Holiday non fanno mistero di riferirsi ai maestri Robert Plant e Jimmy Page ed alla loro fantastica crasi di rock’n’roll, blues ed hard rock, pubblicano ora il loro album più vario, in cui all’abituale ricetta si aggiungono spezie soul-gospel, senza per questo rinunciare al loro suono viscerale, energico, gonfio di muscoli. Prodotto dal re Mida Dave Cobb, come al solito per i nostri “live in studio” tra Nashville ed i Muscle Shoals, e con il consueto splendido artwork (dell’artista contemporaneo Martin Wittfooth), "Feral Roots" colpisce ai primissimi ascolti solo come coeso e muscolare hard rock da arena, per crescere tuttavia ad ogni ascolto successivo in virtù di qualità e varietà di penna, di esecuzione tecnicamente brillante, di comunicazione passionale. E’ vero, i Rival Sons non sperimentano nulla, ma sono tutt’altro che accomodanti. Se avete amato Led Zeppelin, Deep Purple, Guns’n’Roses ed avete nostalgia di quei suoni, non fateveli scappare. Il loro album migliore insieme a “Great Western Valkyrie” (2014).
Voto Microby: 8
Preferite: Feral Roots, Look Away, Stood By Me

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