FRANK
TURNER (2019) No Man's Land
Da quando nel 2005 Frank Turner, sciolta la
propria band punk Million Dead, ha imbracciato la chitarra acustica
per raccontare in modo diverso le proprie storie, è
diventato senza volerlo paladino ed alfiere del cosiddetto folk-punk.
Paragonato a (e stimato da) gente come Bruce Springsteen e Billy
Bragg
(quest’ultimo in effetti il riferimento più immediato), ha
guadagnato stima crescente grazie ad album che miscelano
sapientemente la naivetè
consolatoria della musica folk con la rabbia dell’approccio punk.
Il tutto condìto da arrangiamenti attenti all’airplay,
tanto da dare quel tocco pop caro al mainstream.
Per fare tutto questo occorre talento, e ben diverso da quello degli
Ed Sheeran di turno. Il successo che l’ha portato nel tempo ai
sold-out live
(strameritati: l’ho verificato personalmente pochi giorni fa alla
Festa di Radio Onda d’Urto a Brescia), e perfino a riempire la
Wembley Arena, è frutto di ispirata connessione cuore-cervello. Chi
continua a denigrarlo sono poche testate di rigida ed irriducibile
impostazione marxista-femminista, che non giustificano l’impegno
sociale a lui, nato in Bahrain da famiglia ricca inglese, educato ad
Eaton come il principe William ed iscritto poi alla prestigiosa
London School of Economics. Come se potessimo non riconoscere il
talento musicale di Miles Davis e Damon Albarn, tanto per citarne due
a caso, perché impegnati socialmente ma di estrazione borghese. Per
venire all’ultimo atto discografico del nostro, va detto subito che
è il più folk del suo carniere, perché prevalentemente acustico ma
soprattutto per le tematiche: la storia di 12 donne del mondo più
(Mata Hari) o meno (Jinny Bingham) note, che in qualche modo hanno
lasciato traccia nella storia; più un tredicesimo brano dedicato a
quella per Frank più importante, sua madre. Il tutto suonato con una
backing band totalmente al femminile (e diversa da quella al maschile
che lo asseconda su palco) e con una produttrice pop (Catherine
Marks, già al lavoro con The Killers e Foals). Colpisce la varietà
degli stili, dal folk irlandese al jazz tra le guerre, dal punk-pop
al cantautorato intimo, dal valzer all’heartland rock, scientemente
adattati al contesto geografico e sociale della donna di turno. Le
vicende raccontate sono spesso tragiche ed a sfondo dark, ovviamente
interpretate da un punto di vista maschile. Perciò al sottoscritto
(col limite della conoscenza della lingua inglese non sufficiente a
cogliere le sfumature delle liriche) pare pretestuoso bocciare il
disco perché le rivisitazioni delle storie paiono “incoerenti” o
“parodistiche” solo perché proposte da un uomo (Go
London si chiede
perfino “why he’s the best man to tell these women’s stories”…
e allora??). Da sempre la musica folk e quella punk sono pregne di
tessuto sociale, seppur affrontato con attitudini musicali diverse.
Frank Turner è tornato alle radici della tradizione folk, quella di
tramandare storie vere cantandole, ma arricchendo la saggezza
popolare con l’urgenza giovanile della musica punk. E con
arrangiamenti che sono un piacere per le orecchie. Consigliato.
Voto
Microby: 7.8
Preferite:
The
Lioness, Jinny Bingham’s Ghost, Rescue Annie
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