domenica 22 novembre 2020

JOE BONAMASSA

 


JOE BONAMASSA (2020) Royal Tea

Insopportabile Bonamassa. In venti anni lo straordinario (da qualunque parte la si voglia vedere) chitarrista americano ha pubblicato ufficialmente 16 album in studio, 16 live (+ 16 video), 5 dischi come membro degli hard-rockers Black Country Communion, 4 con la fusion-band Rock Candy Funk Party, 4 di impronta soul-blues in coppia con Beth Hart, e uno con The Sleep Eazys, outfit jazz-blues delle radici; per non elencare le innumerevoli collaborazioni studio/live con altri artisti. Insopportabile per i negozianti di dischi nel gioco del “file under”, nel quale pertanto è sempre sbrigativamente catalogato “blues” o “rock-blues”. Se siamo qui a recensirlo, è perché per l’ennesima volta il suo lavoro è insopportabilmente di buona qualità, sebbene ancora una volta difficilmente decifrabile vista la pletora di generi musicali affrontati. Reduce dall’album British Blues Explosion che nel 2018 lo aveva portato a Londra per un tributo rock-blues impresso su disco ai suoi tre principali guitar heroes (Eric Clapton, Jeff Beck e Jimmy Page), in quella occasione aveva assorbito l’atmosfera della Londra a cavallo tra i ’60 e i ’70, che musicalmente partiva dai Bluesbreakers di John Mayall, dai Cream e dal Jeff Beck Group per allargarsi all’emergente scena hard-rock e progressive. Ecco, in questi tre generi (hard-rock, blues, prog in ordine di peso) si riassume l’ultima fatica di Joe Bonamassa. Inciso nei mitici Abbey Road Studios con la solita/solida band (Anton Fig alla batteria, Michael Rhodes al basso, Reese Wynans alle tastiere) ed il fondamentale contributo alla composizione di Bernie Marsden (UFO/Whitesnake) e Pete Brown (paroliere dei Cream), Royal Tea sciorina sì i soliti torrenziali ed ipertecnici assoli chitarristici (che spesso da soli giustificano il disco), ma inseriti ad hoc in canzoni dalla scrittura forse non memorabile ma certamente di buona qualità. Nella maggior parte dei casi si tratta di hard-rock, hard-blues, hard-prog, hard-shuffle, hard-R’n’R (fino alla chiusura con un brano country-rock), nei quali emergono prepotenti le influenze british, compositive e chitarristiche (i citati Clapton, Beck, Page, ma anche Rory Gallagher, Paul Kossoff, Gary Moore), piuttosto che americane (gli amati Stevie Ray Vaughan e B.B. King), con sparse, chiare citazioni di Led Zeppelin e Deep Purple. Il risultato finale è quello di un classic hard-rock seventies, in cui si apprezzano gli equilibrismi tecnici (come al solito) ma anche la grande versatilità del nostro, insieme alla sua voce che negli anni è diventata davvero eccellente. Insopportabile ma, al solito, decisamente energetico.

Voto Microby: 7.7    

Preferite: Beyond The Silence, Why Does It Take So Long To Say Goodbye, A Conversation with Alice

1 commento:

Unknown ha detto...

Non gli si può neanche dire di fermarsi perché ogni lavoro è maledettamente buono!

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