martedì 28 dicembre 2021

CURTIS HARDING (2021) If Words Were flowers

 


Genere: Soul/R&B

Simili: Michael Kiwanuka, Curtis Mayfield, Bill Withers, Marvin Gaye, Leon Bridges

Voto Microby: 7.8

Preferite: Hopeful, I Won’t Let You Down, Can’t Hide It, Forever More

In occasione della recensione del precedente Face Your Fear (2017) sul nostro blog scrivevamo: “Curtis Harding ha meno coraggio ma più tiro radiofonico di Michael Kiwanuka”. Le coordinate musicali e le considerazioni critiche non mutano in questo terzo sforzo del soulman del Michigan, anch’esso pienamente riuscito: se da una parte le radici risultano vigorosamente piantate nell’humus del soul/R&B Stax-Motown anni ’70 (e gli eroi rispondono ai nomi di Curtis Mayfield, Marvin Gaye, Bill Withers, Wilson Pickett), rami e foglie toccano Michael Kiwanuka (ma non ancora il genio dell’artista londinese di origine ugandese) passando per Stevie Wonder, Gil Scott-Heron e Prince. Così archi soul, fiati errenbi e cori gospel si amalgamano con naturalezza a chitarre psichedeliche e ritmiche urbane (il nostro è chitarrista e batterista) così come a liriche hip hop. Ciliegina sulla torta una splendida voce, versatile e ugualmente calda sia nel baritono che nel falsetto. Harding cita Nina Simone, secondo la quale un artista deve riflettere il proprio tempo: in tal senso il compito è stato svolto egregiamente, dal momento che il suo retro-soul è decisamente proiettato nel presente.   

domenica 19 dicembre 2021

ROBERT PLANT & ALISON KRAUSS (2021) Raise The Roof

 


Genere: Americana, Country-rock, Folk-rock

Simili: Mark Knopfler, Notting Hillbillies, Robbie Robertson, Joe Henry

Voto Microby: 7.4

Preferite: High and Lonesome, Quattro (World Drifts In), Searching For My Love

Che l’amore di Robert Plant per le radici musicali americane non si limitasse all’hard rock-blues di cui è stato alfiere con i Led Zeppelin, è stato abbondantemente palesato dal corpus solistico successivo allo scioglimento della monumentale band inglese: le sue scorribande, sempre di pregevole fattura, nel mondo del rockabilly, del folk-rock, del soul, del blues, della world music, e infine del country nelle sue varie declinazioni lo avevano portato ad ampi riconoscimenti di critica e pubblico, fino a quel Raising Sand che nel 2007 gli aveva garantito un Grammy in coppia con la star bluegrass Alison Krauss. Sono trascorsi stranamente ben 14 anni prima che la coppia, come allora prodotta dalle sapienti meningi di T-Bone Burnett, desse un seguito a quel riuscito album di covers. La produzione di Raise The Roof è perfino più certosina e brillante, spingendosi più dalle parti di una pacata vena Real World/Peter Gabriel nei brani con protagonista Robert Plant, e di una professionale (anche troppo) musica country/americana quando le redini le tiene Alison Krauss. Lontani mille miglia sia l’ardore zeppeliniano (ma anche ogni sfumatura rock) sia il country nashvilliano e il bluegrass. Il parterre di musicisti è costituito solo da primi della classe (basta citare i chitarristi: Bill Frisell, Marc Ribot, David Hidalgo, Buddy Miller, David Pahl) e le reinterpretazioni pescano dall’archivio di Everly Brothers, Allen Toussaint, Merle Haggard, Calexico, Bobby Moore fino a un ideale ponte col folk anglo-scozzese riproponendo Bert Jansch e Anne Briggs. Il tutto risulta a mio parere uno splendido prodotto di impronta curatoriale (sebbene non calligrafica), tuttavia un po’ troppo levigato per riuscire davvero a scaldare il cuore: si fa ammirare, ma non riesce mai veramente a conquistare l’anima. Buono senza eccellere.

lunedì 13 dicembre 2021

JASON ISBELL & The 400 Unit (2021) Georgia Blue

 


Genere: Roots-rock, Soul, Blues, Folk

Simili: Album-tributo

Voto Microby: 8.3

Preferite: Honeysuckle Blue, It’s A Man’s Man’s Man’s World, Cross Bones Style

Jason Isbell aveva promesso che, in caso di vittoria in Georgia dei democratici di Joe Biden (decisiva per le sorti delle ultime presidenziali statunitensi), avrebbe celebrato l’evento con un tribute-album ad autori della Georgia, i cui proventi andranno in beneficienza. Isbell è originario dell’Alabama ma ha adottato come patria musicale la Georgia fin dai tempi della sua militanza nei Drive-By Truckers (dei quali tuttavia non interpreta alcuna canzone). Il risultato musicale è probabilmente superiore a quello politico, a giudicare dai primi passi dell’amministrazione-Biden (anche se “Sleepy Joe” non è certo stato fortunato nell’eredità socio-politica sia americana che internazionale), perché Georgia Blue ha l’unico limite della disomogeneità tipica dei tribute-album (enfatizzata dalla presenza di numerosi ospiti con ruolo da protagonisti, e dall’interpretazione di brani che vanno dagli anni ’60 ai ’90). Per contro, sia nei brani iconici (It’s A Man’s Man’s Man’s World, I’ve Been Loving You Too Long, In Memory of Elizabeth Reed, Nightswimming) che in quelli meno popolari Jason Isbell e la sua band non sbagliano un colpo, né di misura, né di pathos, né di originalità con rispetto della fonte, né tantomeno di tecnica strumentale, che sia al servizio di uno spartito acustico o elettrico (perfino nei classici 12 minuti della cavalcata elettrica della leggendaria canzone degli Allman Brothers). Canzoni di R.E.M., James Brown, Gladys Knight, ABB, Vic Chesnutt, Black Crowes, Drivin’n’Cryin’, Cat Power, Otis Redding, Indigo Girls interpretate con partecipazione e tecnica sopraffina (e con la regia gasperiniana di Isbell) dai 400 Unit all’unisono con il banjo di Béla Fleck, le sei corde elettriche di Sadler Vaden, la voce spettacolare della finora sconosciuta Brittney Spencer, lo straziante violino di Amanda Shires, la ritmica di Steve Gorman (primo batterista dei corvi neri), le tastiere di Peter Levin (Blind Boys of Alabama), l’anima folk-rock di John Paul White (The Civil Wars) e quella folk-blues di Adia Victoria, il contributo vocale delle indie-stars Brandi Carlile e Julien Baker: Georgia Blue non interesserà i millennials e potrà non accontentare tutti gli ascoltatori cresciuti a pane e musica rock (e dintorni) degli anni di riferimento, ma solo per via della frammentazione dei generi, pegno pagato dai tribute-album. Ma, in sé e per sé, rappresenta una raccolta di gioielli che costituisce non solo il mio album preferito di Jason Isbell, ma anche uno dei migliori dischi pubblicati nel 2021.

mercoledì 8 dicembre 2021

Recensione: The Killers - Pressure Machine (2021)

 THE KILLERS - Pressure Machine (2021)


Genere: Acustica

Influenze: Bruce Springsteen, Johnny Cash


Ho sempre considerato i Killers con diffidenza: esponenti di un indie-rock barocco e tronfio, con quelle sferzate synth-pop e le schitarrate da stadio non hanno mai convinto fino in fondo, barcamenandosi tra atmosfere esplosive post-punk ed una sfarzosa new-wave. Va invece dato atto a Brandon Flowers di essersi liberata dal proprio cliché pubblico ed avere condotto i suoi Killers ad una progressiva evoluzione qualitativa nel corso degli anni, spostando sempre più il loro sound verso una musica che sa di deserto e di frontiera, per raccontare non l’America della loro originaria Las Vegas, città dell’effimero e dell’inganno, ma quella più rurale ed ancestrale dall’umanità Faulkneriana. Questo disco in particolare sempre essere quanto Nebraska è stato per Springsteen (anche la copertina lo ricorda): un disco di anima e cuore, polveroso e rurale (ma non palloso, come si potrebbe pensare). In effetti, per fare un paragone, questo disco dovrebbe chiamarsi “Utah” essendo una sorta di concept in bianco e nero sullo stato in cui Brandon Flower ha passato la sua giovinezza. Quando la pandemia di Covid-19 ha interrotto la promozione e il tour mondiale per l’album del 2020 Imploding The Mirage, “tutto si è fermato”, dice Brandon Flowers. “Ed è stata la prima volta dopo tanto tempo che mi sono trovato di fronte al silenzio.  E da quel silenzio questo disco ha cominciato a fiorire”. 

In quest’anno di quarantene sicuramente il disco uscitone meglio.

Da ascoltare: Cody, Sleepwalker, In Another Life.

Voto: 1/2




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