lunedì 30 maggio 2022

THE SMILE (2022) A Light For Attracting Attention

 

Genere: Art-Rock, Avant-pop  

Simili: Radiohead, Arcade Fire, Alt-J, Sigur Ròs, Neu!, Talk Talk, Spiritualized, Wolf Parade, Mogwai

Voto Microby: 8.5

Preferite: Free In The Knowledge, Pana-Vision, Waving A White Flag

Perché questo disco non è a nome Radiohead? E’ infatti del tutto evidente che il suono è immediatamente identificabile con la band di Oxford, a differenza dei progetti solisti di Thom Yorke/Atoms For Peace e Jonny Greenwood, caratterizzati da soluzioni sonore che si discostavano nettamente dalla band-madre. The Smile non rappresenta quindi l’opportunità di comporre e incidere qualcosa di completamente diverso, né di pubblicare materiale rimasto negli archivi del gruppo, chè le canzoni sono tutte (eccetto la conclusiva Skrting On The Surface) di conio recente. Che sia un segno di rispetto nei confronti del pur eccellente batterista titolare, Phil Selway, qui sostituito da Tom Skinner, alle pelli nel combo neo-jazz Sons of Kemet? Di fatto, ancora una volta l’essenza dei Radiohead si conferma la coppia Yorke/Greenwood, che con A Light For Attracting Attention non traccia una linea di continuità con l’eccellente A Moon Shaped Pool (2016) né col più avventuroso ma poco riuscito The King of Limbs (2011). Piuttosto, similmente a quanto realizzato dagli Arcade Fire con l’ultimo WE (2022), siamo di fronte ad un album eterogeneo alla Hail To The Thief (2003), che non inventa nulla ma riesce sapientemente a compendiare i suoni esplorati dai Radiohead dagli esordi ad oggi. Quasi filologicamente, la prima parte del disco richiama l’adrenalina degli anni ’90 dei nostri, aperti dal debutto con Pablo Honey (1993), ancora in area britpop, e conclusi col capolavoro disperato, angolare e paranoico di OK Computer (1997). I brani più ossessivi e spigolosi del nuovo album (sebbene ascritto a The Smile) hanno più un sapore motorik/math-rock che britpop, ma la medesima oscurità, ansia, amarezza, esasperazione post-punk. La seconda parte del lavoro appartiene ai Radiohead (oops!) più liquidi e d’atmosfera, figli di Kid A (2000) e Amnesiac (2001), in cui chitarra, pianoforte ed elettronica delicata si intrecciano ad esprimere malinconia, disagio, tensione ed inquietudine come da manifesto dei Radiohead del nuovo millennio. La dimensione emotiva del falsetto ansiogeno di Thom Yorke viene amplificata dalle orchestrazioni di Jonny Greenwood, ormai maestro di colonne sonore alla corte di Paul Thomas Anderson (e non solo), e Tom Skinner alle pelli regala ritmiche ed armonie che mutano di brano in brano (scuola King Crimson avant-prog). E’ in questa seconda parte che si esprimono i capolavori, le ballate per pianoforte, elettronica inquieta, crescendo orchestrali ed ombreggiature ritmiche che richiamano i fasti di Pyramid Song, Fake Plastic Trees, Exit Music, 2+2=5, e molte altre gemme nel carniere degli oxfordiani. Alla fine, la domanda iniziale risulta pleonastica: Yorke e Greenwood ribadiscono di essere tra i musicisti più influenti del nuovo millennio, e noi siamo di fronte ad un grande album di una grande band. Che promette meraviglie nei cinque concerti italiani dal 14 al 20 luglio (Milano, Ferrara, Macerata, Roma, Taormina).

lunedì 23 maggio 2022

WEST FARGO (2022) W3ST FARGO


Genere: Classic rock/Hard rock ‘70

Simili: Deep Purple

Voto Microby: 7.7

Preferite: Written In My Soul, Feel The End, The Record Turns


Ho un debole per questi maturi ragazzacci bresciani: a partire dalla ragione sociale così cinematografica (Cohen Bros), per seguire con lo splendido
artwork delle copertine, ma soprattutto con la passione che trasuda dai loro lavori. Totalmente disinteressato ai suoni dei millennials, al terzo disco il combo camuno prosegue il percorso a ritroso  nella musica rock (iniziato citando, in italiano, gli anni ’90 di Timoria ma anche di Pearl Jam) per approdare con l’ultima fatica al classic rock/hard rock degli anni ’70, la golden age della musica rock, influenza già in parte esperita nell’album precedente. Per farlo i West Fargo hanno abbandonato con brillanti risultati la lingua di Dante per quella di Shakespeare, e inciso nove brani di appassionata qualità. Il profilo del lavoro non si adagia, come da archetipo del genere, solo sui vibranti riff e gli infuocati incisi della chitarra elettrica di Roberto Roncalli, ma si accende anche grazie alla batteria propulsiva di Matteo Zelaschi, al basso pulsante di Domenico Ducoli, alla grande estensione vocale di Davide Balzarini ed all’ordito delle tastiere di Pierluigi Capretti, che ha certamente ben assimilato la lezione di Jon Lord (Deep Purple) ma anche dei synth analogici alla Baba O’Riley (The Who). Così se il riferimento immediato di scrittura ed esecuzione è l’hard rock dei seventies (ben lontano dalle influenze hard blues dei Led Zeppelin e dal doom dei Black Sabbath, ed invece più simile ai Purple meno prog e più recenti), il risultato finale è assolutamente raccomandato agli appassionati del classic rock chitarristico dei ’70. Ad essere pignoli in un disco che non ha fillers, la tensione si abbassa nel paio di brani in cui la voce solista viene affidata all’ugola di Capretti, ben impostata ma priva dell’estensione e soprattutto del pathos del titolare Balzarini. Come da tradizione della band, l’album si completa con una bonus track musicalmente non adesa al contesto, se non che si tratta di un’alternate version acustica di un brano affidato in chiusura all’interpretazione di Silvia Ducoli, figlia del bassista Domenico. Buona fortuna anche a lei!

sabato 14 maggio 2022

ARCADE FIRE (2022) WE


Genere
: Indie-Rock, Art-Rock  

Simili: Broken Social Scene, Modest Mouse, Spiritualized, Radiohead, Woodkid, Wolf Parade, Mogwai

Voto Microby: 8.2

Preferite: End of The Empire I-IV, The Lightning I, Age of Anxiety I

La band canadese è universalmente riconosciuta tra le più influenti nell’evoluzione della musica rock (e addentellati vari) nel nuovo millennio. Personalmente la considero “la” più importante del primo decennio, vergato dal trittico di capolavori Funeral (2004), Neon Bible (2007) e The Suburbs (2010). Per non ripetere all’infinito una formula che aveva estratto l’indie pop-rock dalle produzioni casalinghe per offrirlo a quelle ipertrofiche del mainstream, facendosi tuttavia apprezzare per la riuscita fusione di generi musicali agli antipodi (rock e disco music, folk e punk, new wave e marce militari), la band di Montreal aveva sterzato nel decennio successivo con Reflektor (2013) verso un’electro-dance satura ed oscura, figlia dei New Order e solo parzialmente riuscita, e con Everything Now (2017) verso un pop variegato (con David Bowie a nume tutelare) che univa elettronica a pop, disco e musica orchestrale, con risultati solo a tratti piacevoli ma per lo più banalmente bombastici. Luca stesso si chiedeva sul nostro blog se li avessimo ormai persi. Timore concreto, visto che l’humus originario folk e rock dei canadesi difficilmente trova una collocazione tra rap, trap, hip hop ed elettropop imperanti, e che pur camaleontici non hanno dimostrato il genio del Duca bianco, loro mèntore e maestro nelle transizioni. Si è arrivati così al terzo decennio ed il nuovo album, WE, rinuncia chiaramente ad ulteriori evoluzioni stilistiche: gli Arcade Fire sanno di non rappresentare più il futuro del rock, e si affidano al proprio talento per concentrarsi sulla qualità. E lo fanno con un indie/art-rock che è un compendio dei suoni da loro esplorati finora, che ritorna alle melodie innodiche dei primi lavori ma non esclude momenti intimi, crescendo epici e corali, e ritmi ballabili. Pur non possedendo la potenza lirica dei primi tre album, WE si pasce delle medesime fascinazioni apocalittiche, declinate in una sorta di concept album coeso nella sua varietà, diviso in due parti che dipingono le contraddizioni del nostro tempo: “I”, ovvero la singolarità/egoismo e l’ansia da solitudine che ne deriva, e “We”, ovvero l’unione/altruismo e la speranza riposta nella condivisione. Il tema orwelliano non è nuovo per i nostri, e dichiaratamente WE si ispira all’omonimo romanzo distopico russo di Yevgeny Zamyatin, un secolo fa ispiratore del più famoso 1984 di George Orwell. Quaranta minuti per nove brani accoppiati due a due eccetto la title track, in cui lo spartiacque/cuore del disco è End of The Empire IV; la produzione è affidata alla coppia (anche nella vita) Will Butler e Régine Chassagne, coadiuvati da Nigel Godrich (la testa dietro la consolle dei Radiohead), la cui influenza si palesa, a differenza di alcune comparsate (Geoff Barrow, Peter Gabriel, Josh Tillman). Significativi anche gli arrangiamenti orchestrali di Owen Pallett, talvolta in area Lennon/Waters. WE cresce con gli ascolti e alla fine convince pienamente, facendoci dimenticare i due mezzi passi falsi precedenti. Evitando un ritorno musicale ai primi lavori, che suonerebbe tanto “comfort zone”, e invece frullando tutto quanto esplorato in carriera, gli Arcade Fire ci hanno consegnato un album di qualità e concretezza. Gianni Sibilia su Rock On Line suggerisce un interessante parallelismo tra U2 ed Arcade Fire: se Reflektor era il loro Achtung Baby ed Everything Now il loro Pop, WE rappresenta il loro All That You Can’t Leave Behind. Ascoltatelo senza pregiudizi e vi conquisterà.

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