domenica 30 ottobre 2011

Tom Waits - Bad as me (2011)

Disco numero 17, sette anni dopo l'ultimo in studio ("Real Gone"). In realtà non è la sola volta in cui Tom lascia passare un bel pò di tempo tra un disco e l'altro: era già successo tra "Franks Wild Years" (1987) e "Bone Machine" (1982) e pure tra "The Black Rider" (1993) e "Mule Variations" (1999): considerando l'altissimo livello dell'ispirazione alla fine di questi lunghi periodi non c'è comunque motivo di lagnarsi. La spinta di Kathleen Brennan (moglie, musa ispiratrice e coautrice dei testi) emerge anche in questo lavoro, sicuramente tra i più compatti e solidi, anche se ricco di varietà ed a tratti irresistibile.
La bellissima Chicago, blues rumorista in apertura del disco, sembra il più diretto punto di congiunzione con il precedente album, mentre Pay Me ricorda le atmosfere da cabaret teutonico tipiche di "Franks Wild Years"; le più belle sono però, a mio giudizio,la romantica Kiss Me, che sarebbe stata benissimo in Blue Valentine (in assoluto il mio disco favorito di Waits ed uno degli album preferiti in sempre) anche se è comunque modulata sempre con le atmosfere lo-fi del suo secondo periodo compositivo (dal 1983 - anno di Swordfishtrombones- in poi), la voce in falsetto jazz anni'50 di Talking at the same time con quel testo ("Someone makes money when there’s blood in the street") direi di assoluta attualità al tempo d'oggi....
Bellissime anche New Year's Eve con la melodica chitarra di David Hidalgo (Los Lobos) che sfuma nella canzone natalizia per eccellenza "Auld Lang Syne" così come nel 1976 "Tom Traubert's Blues" sfumava in "Waltzing Mathilda", l'urlato blues rumorista Raised Right Men e Satisfied accompagnata dalla chitarra di Keith Richards (così come in altri tre pezzi dell'album) in omaggio proprio agli Stones.
Lo so che sono di parte perchè io, Tom Waits, lo amo alla follia, ma anche questo disco ha lasciato il segno. Lui è il migliore, lui è il Jackson Pollock della musica (definizione datagli da Elton John). Questo disco non raggiunge la sublime bellezza di alcuni suoi passati capolavori, ma si tratta sempre di un disco magico, poetico e malinconico, come solo lui sa farne.

Voto: ★★★★ (viscerale)

mercoledì 12 ottobre 2011

MINIRECENSIONI : Wilco, John Hiatt, Dave Alvin, TV On The Radio, Thurston Moore

WILCO (2011) The Whole Love (Il loro disco più beatlesiano, nel solco del precedente Wilco (The Album), tuttavia meno ispirato rispetto alla stravagante coesione di Summerteeth/Yankee Hotel Foxtrot ed all’equilibrio melodico di Sky Blue Sky) 7.5/10


TV ON THE RADIO (2011) Nine Types of Light (Uguali a nessun altro gruppo, sono pop ed art-rock, funk e melodici, usano voci baritonali e falsetto, elettronica e fiati, sono black e white, afro ma metropolitani. Di New York) 7.5/10


THURSTON MOORE (2011) Demolished Thoughts (La sorpresa del rumoroso chitarrista dei Sonic Youth arriva con un bell’album che si ispira al Nick Drake di Five Leaves Left, con accordi/arpeggi di chitarre acustiche ed arrangiamenti per archi, arpa e tastiere) 7.7/10


JOHN HIATT (2011) Dirty Jeans And Mudslide Hymns (Un ispirato, classico Hiatt, più elettrico che acustico, tra rock sanguigni, ballads struggenti, testi intensi e la solita voce nasale ricca di pathos) 7.7/10


DAVE ALVIN (2011) Eleven Eleven (Voce baritonale da crooner al servizio del solito eccellente mix di rock/tex-mex/country, brillante soprattutto nei corposi brani elettrici) 7.7/10

lunedì 10 ottobre 2011

JONATHAN WILSON (2011) Gentle Spirit

Veramente inusuale arrivare al debutto discografico all’età di 36 anni, quando da almeno la metà si gode della stima incondizionata dell’ambiente musicale e si vantano centinaia di collaborazioni illustri dal folk al rock, dal southern alla new age, dal soul al pop, abbondantemente ricambiate in Gentle Spirit da un parterre di musicisti di serie A. Solo ospiti, dal momento che il californiano (di adozione) è un polistrumentista che esprime però l’eccellenza con la poliedricità dei suoni ricavati dalla sua chitarra. Che risulta personale nonostante –non è un controsenso- richiami ed influenze evidentissime: e allora ecco riecheggiare lo stile di David Gilmour pre-Dark Side, solo meno elettrico, ma anche di Jerry Garcia, solo meno liquido (Natural Rhapsody), di John Cipollina, solo meno blues (Woe Is Me), di Robert Fripp, solo meno nevrotico (Rolling Universe), dei Crazy Horse di Zuma, solo meno amplificati (The Way I Feel, la lunga Valley of The Silver Moon), e persino di Mc Donald & Giles proto-prog e pre-King Crimson (l’iniziale Gentle Spirit). E ovunque aleggia lo spirito del grande ispiratore, Neil Young, e del suo tempo, la controcultura bohemienne di Laurel Canyon. Un disco quindi profondamente collocato nel tempo, l’inizio dei ’70, ma che riesce ad essere originale ed attuale per la fusione omogenea delle due culture hippie, west coast ed albionica, più di quanto non abbia potuto (o voluto) Devendra Banhart, l’alfiere del neo-hippie.
Quasi 80 minuti di brani dilatati, certo poco radiofonici ma intensi, più onirici che selvaggi, ciascuno a modo suo personale e coinvolgente, in cui risentire echi di Neil Young, Pink Floyd, Grateful Dead, Quicksilver Messenger Service, interpretati da un fuoriclasse di lunga esperienza ma che l’anagrafe certifica non ancora nato al tempo dei suoi eroi.

Preferite: Desert Raven, Valley of The Silver Moon, Natural Rhapsody

Voto Microby: 8/10

venerdì 7 ottobre 2011

Minirecensioni: SuperHeavy, Clara Luzia, Beth Hart & Joe Bonamassa, Jayhawks, dEUS


L'idea delle minirecensioni mi è piaciuta. Eco un contributo da parte mia.

SuperHeavy - SuperHeavy (2011). Supergruppo con Mick Jagger, Joss Stone, Dave Stewart, Damian Marley (figlio di), AR Rahman (compositore di Bollywood). Jagger e Stone sono decisamente al di sopra di tutto. Peccato che il risultato sia a dir poco sconfortante. Un disco di cui avremmo tranquillamente fatto a meno. Voto: ★★
Clara Luzia - Falling into Place (2011). Cantautrice viennese ma sembra che venga dal Nebraska. Toni malinconici ed aggraziati con violoncello e chitarra acustica in primo piano alternati ad accellerazioni elettriche, ma senza esagerare. Un lavoro che ricorda l'ultima Regina Spektor. Una rivelazione. Voto: ★★★★
Beth Hart + Joe Bonamassa - Don't Explain (2011). Bonamassa l'aveva voluta accanto in un brano del suo ultimo album ed evidentemente ne è rimasto impressionato tanto da fare un album insieme. In effetti ha una voce molto black, che ben si amalgama con i riff del grande Joe e con i brani, tutti tendenzialmente soul-blues, quasi gospel. Bel disco. Voto: ★★★
Jayhawks - Mockingbird time (2011). Un bellissimo ritorno alle atmosfere dei primi album. L'estro di Louris e l'armonia melodica di Olson in perfetta simbiosi. Un disco che ricorda gli ultimi Byrds: folk misto ad accenti psichedelici. Voto: ★★★★
dEUS - Keep you close (2011). In Belgio non sanno fare bene solo birra e cioccolato, ma anche la musica. Non sarà il migliore album in assoluto (quello lo era senza dubbio "A Bar, Under the Sea") ma ha il pregio di essere un lavoro molto piacevole. Un album pop-rock di spessore. Voto: ★★★1/2

giovedì 6 ottobre 2011

Steve Jobs R.I.P:

Sto leggendo la notizia della sua morte sul 18° computer Apple che ho comperato.
Ha cambiato l'informatica, ma anche la musica, trasformando la tecnologia in arte.
La sua intelligenza, la sua visionarietà e le sua innovazioni mancheranno a tutti.

martedì 4 ottobre 2011

THE WAR ON DRUGS (2011) Slave Ambient


Sembrava già allo sbando dopo il notevole esordio datato 2008 (Wagonwheel Blues, finito dritto nella mia top ten dell’anno) il gruppo di Philadelphia fondato nel 2003 da due fans di Bob Dylan, i chitarristi e vocalists Adam Granduciel e Kurt Vile. Invece, persi 2 anni fa 3/5 del gruppo (tra cui Vile, autore quest’anno di un buon esordio di cantautorato urbano tra Lou Reed e Johnny Thunders), Granduciel e i nuovi sodali hanno partorito una seconda prova che certifica che l’unione Vile-Granduciel faceva la forza.
Le belle composizioni dell’esordio, che tentavano un improbabile ma riuscito connubio tra Dylan (complici le voci dei 2, simili a quella del menestrello di Duluth) e lo shoegaze dei ‘90, vengono nel nuovo lavoro ribadite senza però un sicuro orientamento stilistico, ed oltretutto soffrendo una globale arcadefireizzazione del suono che dimostra (oltre alla sempre maggiore influenza degli Arcade Fire sul panorama rock attuale) una preoccupante carenza di personalità. Così le sonorità si presentano sature, il feedback chitarristico è predominante, le atmosfere risultano intense e drammatiche, prendendo respiro solo quando il Dylan di Time Out Of Mind flirta con il Paisley Underground (I Was There che rimanda ai Green On Red, o Brothers che ricorda lo Steve Wynn acustico).
Non mancano riferimenti ai Velvet Underground e alla psichedelia elettrica, ma quando i due brani migliori sembrano inediti di U2 (Come To The City) o di una collaborazione tra Arcade Fire ed il Boss di Darkness (Baby Missiles), ci si rende conto che ciò che manca veramente a Slave Ambient è una messa a fuoco.
Peccato, aspettavo il capolavoro ed invece Vile e Granduciel finiscono in parità: 7 – 7, dopo 2 buone partite in cui le squadre si sono impegnate ma non hanno offerto spunti esaltanti.

Preferite: Come To The City, Baby Missiles, Brothers

Voto Microby: 7/10

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