domenica 29 marzo 2015

Recensioni: Joshua Radin, Laura Marling, Van Morrison

JOSHUA RADIN - Onward and Sideways (2015)
Scritto per far innamorare un’aspirante fidanzata svedese, l’album ricalca gli arrangiamenti più sommessi e ariosi della sua produzione, giunta al sesto lavoro dal primo We Were Here del 2006. Arrangiamenti che peraltro gli hanno portato fortuna commerciale visto che gli sono valsi l’inclusione di molti suoi brani in colonne sonore di film e di serie televisive (Grey’s Anatomy e compagnia bella). Il problema, a mio avviso, è che si rischia di cadere nel ripetitivo, nel già sentito: per amor del cielo, continuare a scrivere canzoni romantiche sussurrate, anche se piacevoli e piaciose, può essere creativamente poco stimolante ma per lo meno le può vendere a Hollywood. Nota assai stonata è inoltre la sua abitudine di riproporre in album successivi pezzi già inseriti in lavori precedenti: qui è il turno di “Beautiful day”, in cui peraltro Sheryl Crow non ci azzecca per niente vista l’incompatibilità di carattere (musicale) tra i due. Da rivedere. Voto: ☆☆1/2

LAURA MARLING - Short movie (2015)
Al quinto album in cinque anni di carriera, rappresenta uno dei pochi casi in cui la qualità musicale va di pari passo al successo commerciale ed in cui la prolificità compositiva non va a discapito della coerenza artistica. Inglese di Londra ha, in questo caso, fatto un album “americano” sicuramente per effetto della sua lunga permanenza a Los Angeles: lo stile è il suo abituale folk a forte impronta cantautorale  ma impreziosito da accenti rock. I nomi che vengono in mente sono quelli dei grandi del genere, sia contemporanei che classici: ci sentiamo Noah & the Whale accanto a Joni Mitchell, Mumford and Sons ma anche Fiona Apple, Linda Thompson o PJ Harvey. Il risultato è un album intensamente personale e decisamente affascinante. Le migliori canzoni: I Feel Your Love, Gurdjieff's Daughter, Warrior.  Voto: ☆☆☆☆

VAN MORRISON - Duets (2015)

In attesa di poterlo rivedere dal vivo in Italia (a giugno, a Brescia) VM festeggia i suoi prossimi 70 anni con un bel disco di duetti, senza però passare dai brani più noti ma andando a recuperare episodi minori o comunque meno conosciuti. La sua voce potente ed aggressiva in effetti fa spesso sfigurare i suoi ospiti (uniche eccezioni Mavis Staples e Joss Stone), il che è un bene e denota come il suo apporto musicale sia ancora assolutamente valido ed attuale. Molto interessante l’intreccio vocale con il jazz di Gregory Porter, una delle stelle contemporanee del genere, così come pure con la voce soul di Mick Hucknall e nonostante le premesse non invitianti anche con il crooner Michael Bublè. Buon disco. Voto: ☆☆☆

martedì 24 marzo 2015

SUFJAN STEVENS, PUNCH BROTHERS


SUFJAN STEVENS (2015) Carrie & Lowell

Dopo i capolavori Michigan (2003) e Illinois (2005), e presumibilmente abbandonato l’ambizioso progetto di comporre un disco dedicato ad ogni stato dell’unione, il geniale musicista americano ha impiegato lo scorso decennio a comporre colonne sonore, trastullarsi in canzoni natalizie, riscoprire (The Age of Adz, 2010) la curiosità per la musica elettronica che lo stimolava agli esordi. Il tutto con risultati decisamente al di sotto delle sue (enormi) possibilità. Passata la sbornia, con l’album attuale torna ad un eccellente livello di scrittura, tuttavia servito da un’eccessiva sobrietà negli arrangiamenti. Come se Simon & Garfunkel (tra le fonti di ispirazione primarie) dopo The Boxer e The Only Living Boy In New York fossero tornati alla poetica semplicità di April. In Carrie & Lowell la composizione è da 9, alcuni brani sarebbero da antologia, tuttavia mancano i crescendo ed i pieni strumentali che caratterizzavano i due masterpieces citati all’inizio. A favore (a sfavore, a mio avviso, pur nell’apprezzabile scelta francescana) di voce e cori sussurrati, a braccetto con lineari arpeggi di chitarra e suadenti tocchi di piano elettrico; assente la sezione ritmica. Ma la testa di Stevens ha smesso di trastullarsi ed è tornata a lavorare, e la sua qualità è una spanna sopra gli altri.
Voto Microby: 7.8
Preferite: Should Have Known Better, All of Me Wants All of You, Fourth of July



PUNCH BROTHERS (2015) The Phosphorescent Blues

Se riuscite a concepire un progetto che riesca a shakerare Mumford & Sons, Sufjan Stevens, The Leisure Society e Penguin Cafè (solo Cafè, non Orchestra) siete sulla strada buona per capire quello dei Punch Brothers, non scoperti (sono al 4° album) ma valorizzati dal solito T-Bone Burnett in occasione di Inside Llewyn Davis, come successo per Rhiannon Giddens. Di formazione classica come Simon/Arthur Jeffes (PCO/PC), facilità di contaminazione come Stevens, gusto pop ricercato alla TLS, ed amore per le radici americane come l’inglese Marcus Mumford: tutti elementi che emergono, a volte ben amalgamati, altre meno (gli intermezzi strumentali da Debussy e Scriabin sono gustosi in sé, ma un po’ forzati nel contesto), con strumentazione acustica che miscela archi e banjo, batteria e cori, con tecnica sopraffina ed un sapiente uso di vuoti e pieni tra classica, folk, pop, bluegrass (non tragga in inganno il “blues” del titolo: il quintetto originario di Brooklyn interpreta musica totalmente bianca). Originali, pur nelle ispirazioni còlte, e dagli sviluppi tutti da seguire.
Voto Microby: 7.8
Preferite: I Blew It Off, Familiarity, Julep

giovedì 19 marzo 2015

Kevin Gilbert - Thud - 20th Anniversary Deluxe Edition (1995-2015)

A molti il suo nome non dirà nulla. Americano di Sacramento, inizia come musicista progressive fondando due band, i Giraffe ed i Toy Matinee. Eddie Money che lo vuole ad aprire i suoi concerti ne parla con entusiasmo ed il suo nome viene via via conosciuto negli ambienti musicali pop tanto da iniziare a collaborare con Keith Emerson (il quale gli dedicherà il brano For Kevin nel suo Emerson Plays Emerson), Michael Jackson, Madonna, Linda Perry. Si fidanza con Sheryl Crow dando impulso decisivo alla sua carriera lavorando con dedizione alla realizzazione di Tuesday Night Music Club (e scrivendole anche All I Wanna Do, che le fece vincere il Grammy nel 1995) ma non dimentica mai la sua passione per il progressive, producendo gli Spock’s Beard e reinterpretando l’intero The Lamb Lies Down on Broadway al Progfest del 1994. Una registrazione del concerto viene spedita a Toni Banks e Michael Rutherford,  che in quel momento erano alla ricerca del sostituto di Phil Collins. Subito dopo essersi lasciato con la Crow (che signorilmente si era presa tutto il merito del disco best-seller liberandosi di Gilbert e di tutti quello che avevano collaborato alla sua stesura), esce il suo unico album, Thud, in assoluto uno dei più geniali dischi pop degli ultimi vent’anni. 
Gilbert muore a 29 anni di una morte idiota (asfissia autoerotica) proprio qualche giorno prima che il suo agente ricevesse la telefonata di Toni Banks che lo invitava ad entrare nei Genesis (allora prendono Ray Wilson e sappiamo tutti come è andata a finire). Negli anni successivi escono numerosi album postumi con inediti di ogni tipo; in particolare l’album The Shaming of the True (del 2000), bello anche più di Thud, andrà a rinverdirne il mito: (anche grazie a Nick D’Virgilio (Spock’s Beard) che spesso ne interpreta i brani migliori). Difficile parlare di lui senza commuoversi: è a buon diritto tra gli artisti cult della musica pop-rock.  Voto:  ☆☆☆☆1/2


mercoledì 11 marzo 2015

BETTYE LaVETTE, BLACKBERRY SMOKE, GUSTER


BETTYE LaVETTE (2015) Worthy
 
A 69 anni, di cui oltre 50 di carriera musicale, l’interprete del Michigan sforna uno dei suoi dischi migliori di sempre (per il sottoscritto, secondo solo a Scenes of The Crime del 2007). Da sempre considerata una figura di riferimento per il northern soul, in Worthy si fa produrre da Joe Henry (al solito, raffinato ed essenziale) ed accompagnare da fior di musicisti (tra i quali spicca la calda e brillante tecnica chitarristica di Doyle Bramhall II), per interpretare Bob Dylan, Rolling Stones, Beatles, Mary Gauthier tra gli altri. Il risultato è più blues che soul/R&B, più meditativo che scoppiettante, più Van Morrison che Aretha Franklin, più Ndidi O che Sharon Jones. Ma la qualità dell’interpretazione e l’amalgama tra roca vocalist e (grande) band sono tali da strappare applausi ad ogni cover. Covers, appunto: unica pecca è che la nostra si porta appresso il peccato originale di non essere autrice.
Voto Microby: 8.2
Preferite: Unbelievable, When I Was A Young Girl, Where A Life Goes
 
 
BLACKBERRY SMOKE (2015) Holding All The Roses
Se tutto il disco ripetesse la qualità dei primi due brani, saremmo in presenza di un nuovo classico del southern rock. In giro da una dozzina di anni e fresco di un live esplosivo lo scorso anno (Leave A Scar; i nostri hanno un’attività live alla vecchia maniera: 250 concerti l’anno!), il quintetto della Georgia licenzia ora l’album della possibile consacrazione. Prodotto da Brendan O’Brien (Aerosmith, Black Crowes, Pearl Jam, Bruce Springsteen), il lavoro rispetto ai classici sudisti è meno blues-oriented dell’ Allman Brothers Band, suona piuttosto rock come i Lynyrd Skynyrd più mainstream, ibridato col country-rock alla Marshall Tucker Band, Charlie Daniels Band e The Outlaws. Look (ovviamente capelli e barbe lunghe), attitudine, testi, voci, perizia strumentale in pura tradizione southern rock, ma della migliore.
Voto Microby: 7.7
Preferite: Holding All The Roses, Let Me Help You, No Way Back To Eden
 

GUSTER (2015) Evermotion
La pop-band di amici dell’Università del Massachussetts festeggia il 20° anniversario dall’esordio discografico con il 7° album. Gruppo di successo negli USA, ed invece di modesto riscontro in Italia, ha sempre eseguito un pop raffinato, intelligente, sulle orme dei (ben più dotati) neozelandesi Crowded House. L’ultimo sforzo si apre con un brano dal profumo (solo quello) degli Alt-J, ma purtroppo resta una proposta isolata: il resto del disco prosegue piuttosto sulla scia dei Fool’s Garden (il gruppo tedesco dell’hit estivo Lemon Tree). Leggero, così leggero che scivola via senza lasciare traccia. Peccato, perché hanno sempre dimostrato doti superiori (recuperare Keep It Together del 2003 per sincerarsene).
Voto Microby: 6.2
Preferite: Long Night, Gangway, Never Coming Down


sabato 7 marzo 2015

James McMurtry, Drew Holcombe and The Neighbors, JJ Grey & The Mofro

JAMES McMURTRY - Complicated Game (2015)
Sette anni dall’ultimo lavoro in studio (Just Us Kids) non ne fanno un esempio di prolificità musicale; praticamente una vita visto che in un periodo così lungo ne possono succedere di tutte. Poi ascolti queste dodici canzoni e dimentichi di averlo aspettato così a lungo e apri un nuovo capitolo nel romanzo infinito della tradizione acustica americana. Per renderci più delizioso il suo ascolto, il texano JM si è fatto accompagnare da Benmont Tench, Derek Trucks, Sam Broussard, Ivan Neville ed altri grandi esperti del country più colto e di spessore. Un disco che oscilla continuamente tra il folk (anche con qualche accento irish) al country, dal roots-americana al songwriting più classico. Un album brillante ed affascinante. Le migliori: You Got to Me, Carlisle's Haul, Deaver's Crossing. Voto: ☆☆☆☆

DREW HOLCOMBE and THE NEIGHBORS - Medicine (2015)
Al suo nono disco, registrato a Nashville con il produttore di Ben Folds e Josh Rouse, DH appartiene alla nutrita schiera di rocker poco conosciuti: il suo genere è un country-folk acustico tipicamente americano. Le sue musiche possono essere avvicinate alle inclinazioni folk di Ray LaMontagne o Jack Johnson ma anche alle ballate più tradizionalmente country alla Avett Brothers o rock’n’roll alla Tom Petty. La musica è una medicina, sembra dirci con questo album, divertente e dall’ascolto assai gradevole. Da downloadare: Last Thing We Do, Avalanche, Here We Go. Voto: ☆☆☆1/2.

JJ GREY & MOFRO - Ol’ Glory (2015)
Al settimo album, la band si conferma una specie di cocktail shakerato di roots, soul, R&B e rock-blues sudista. JJ Grey con la sua voce “black” ha la capacità di colpirti subito allo stomaco mentre i Mofro, per l’occasione supportati anche dalla slide di Derek Trucks e dalla dobro di Luther Dickinson, spingono il ritmo ed arricchiscono con i loro fiati ed armonie le evoluzioni vocali del leader. Una serie di ballate con groove dall’impronta funky-rock, a cavallo tra Sly & The Family Stone e Jerry Reed, tra Otis Redding ed Al Green per una sorta di incontro tra la roots americana ed il Memphis sound. Anche se non raggiunge l’eccelsa qualità di “Georgia Warhorse” del 2010, sempre un buon disco. La migliore: Everything Is a Song. Voto: ☆☆☆

domenica 1 marzo 2015

PUBLIC SERVICE BROADCASTING, FATHER JOHN MISTY


PUBLIC SERVICE BROADCASTING (2015) The Race For Space

I due nerds londinesi conosciuti coi nomi fittizi di J. Willgoose, Esq. (polistrumentista e mente del progetto) e Wrigglesworth (batterista di impronta jazz) si ripetono dopo l’interessante esordio del 2013. Non che inventino nulla, dal momento che scomodare per loro, come ha fatto certa critica nostrana, l’appartenenza al post-rock o all’indie-rock futurista significa ignorare quanto inciso dai Pink Floyd e dallo space-rock teutonico nei ’70, e da Alan Parsons Project e Jean-Michel Jarre tra i ’70 e gli ’80. Perché l’humus strumentale è un orecchiabile pop elettronico che al cantato preferisce voci tratte da trasmissioni radiofoniche e televisive della BBC di 50 anni fa, con un effetto tra lo spoken ed il rap molto godibile e ben amalgamato con i crescendo strumentali. Stavolta il concept è la corsa allo spazio degli anni ’60, ed il risultato è assai piacevole, sembrando perfino originale nel panorama attuale. Piacerà certamente ai fans dei gruppi di cui sopra.
Voto Microby: 7.5
Preferite: Go!, E.V.A., The Other Side



FATHER JOHN MISTY (2015) I Love You, Honeybear
Coraggiosa la proposta musicale di Josh Tillman, batterista dei Fleet Foxes, così lontana dal folk-pop colto della band madre. Stimolante la scelta di Jonathan Wilson in qualità di produttore, che tuttavia non si traduce in un’adesione alle atmosfere da Laurel Canyon anni ’70. Stiamo sì nei seventies, ma dalle parti del primo Elton John e del pop alla George Harrison. Si esce da quel periodo solo per abbracciare il pop contemporaneo alla Rufus Wainwright, ridondante ma mitigato da testi ironici ed originali. Arrangiamenti pertanto ricchi, talvolta stucchevoli, ma sorretti da una buona scrittura, per canzoni che si apprezzano con più ascolti.
Voto Microby: 7.5
Preferite: Bored In The U.S.A., Holy Shit, The Night Josh Tillman Came To Our Apartment



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