martedì 24 marzo 2015

SUFJAN STEVENS, PUNCH BROTHERS


SUFJAN STEVENS (2015) Carrie & Lowell

Dopo i capolavori Michigan (2003) e Illinois (2005), e presumibilmente abbandonato l’ambizioso progetto di comporre un disco dedicato ad ogni stato dell’unione, il geniale musicista americano ha impiegato lo scorso decennio a comporre colonne sonore, trastullarsi in canzoni natalizie, riscoprire (The Age of Adz, 2010) la curiosità per la musica elettronica che lo stimolava agli esordi. Il tutto con risultati decisamente al di sotto delle sue (enormi) possibilità. Passata la sbornia, con l’album attuale torna ad un eccellente livello di scrittura, tuttavia servito da un’eccessiva sobrietà negli arrangiamenti. Come se Simon & Garfunkel (tra le fonti di ispirazione primarie) dopo The Boxer e The Only Living Boy In New York fossero tornati alla poetica semplicità di April. In Carrie & Lowell la composizione è da 9, alcuni brani sarebbero da antologia, tuttavia mancano i crescendo ed i pieni strumentali che caratterizzavano i due masterpieces citati all’inizio. A favore (a sfavore, a mio avviso, pur nell’apprezzabile scelta francescana) di voce e cori sussurrati, a braccetto con lineari arpeggi di chitarra e suadenti tocchi di piano elettrico; assente la sezione ritmica. Ma la testa di Stevens ha smesso di trastullarsi ed è tornata a lavorare, e la sua qualità è una spanna sopra gli altri.
Voto Microby: 7.8
Preferite: Should Have Known Better, All of Me Wants All of You, Fourth of July



PUNCH BROTHERS (2015) The Phosphorescent Blues

Se riuscite a concepire un progetto che riesca a shakerare Mumford & Sons, Sufjan Stevens, The Leisure Society e Penguin Cafè (solo Cafè, non Orchestra) siete sulla strada buona per capire quello dei Punch Brothers, non scoperti (sono al 4° album) ma valorizzati dal solito T-Bone Burnett in occasione di Inside Llewyn Davis, come successo per Rhiannon Giddens. Di formazione classica come Simon/Arthur Jeffes (PCO/PC), facilità di contaminazione come Stevens, gusto pop ricercato alla TLS, ed amore per le radici americane come l’inglese Marcus Mumford: tutti elementi che emergono, a volte ben amalgamati, altre meno (gli intermezzi strumentali da Debussy e Scriabin sono gustosi in sé, ma un po’ forzati nel contesto), con strumentazione acustica che miscela archi e banjo, batteria e cori, con tecnica sopraffina ed un sapiente uso di vuoti e pieni tra classica, folk, pop, bluegrass (non tragga in inganno il “blues” del titolo: il quintetto originario di Brooklyn interpreta musica totalmente bianca). Originali, pur nelle ispirazioni còlte, e dagli sviluppi tutti da seguire.
Voto Microby: 7.8
Preferite: I Blew It Off, Familiarity, Julep

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