SUFJAN
STEVENS (2015) Carrie & Lowell
Dopo
i capolavori Michigan
(2003) e Illinois (2005),
e presumibilmente abbandonato l’ambizioso progetto di comporre un
disco dedicato ad ogni stato dell’unione, il geniale musicista
americano ha impiegato lo scorso decennio a comporre colonne sonore,
trastullarsi in canzoni natalizie, riscoprire (The
Age of Adz, 2010) la curiosità per la musica
elettronica che lo stimolava agli esordi. Il tutto con risultati
decisamente al di sotto delle sue (enormi) possibilità. Passata la
sbornia, con l’album attuale torna ad un eccellente livello di
scrittura, tuttavia servito da un’eccessiva sobrietà negli
arrangiamenti. Come se Simon &
Garfunkel (tra le fonti di ispirazione
primarie) dopo The Boxer
e The Only Living Boy In New York
fossero tornati alla poetica semplicità di April.
In Carrie & Lowell
la composizione è da 9, alcuni brani sarebbero da antologia,
tuttavia mancano i crescendo ed i pieni strumentali che
caratterizzavano i due masterpieces citati all’inizio. A favore (a
sfavore, a mio avviso, pur nell’apprezzabile scelta francescana) di
voce e cori sussurrati, a braccetto con lineari arpeggi di chitarra e
suadenti tocchi di piano elettrico; assente la sezione ritmica. Ma la
testa di Stevens ha smesso di trastullarsi ed è tornata a lavorare,
e la sua qualità è una spanna sopra gli altri.
Voto
Microby: 7.8Preferite: Should Have Known Better, All of Me Wants All of You, Fourth of July
PUNCH
BROTHERS (2015) The Phosphorescent Blues
Se
riuscite a concepire un progetto che riesca a shakerare Mumford
& Sons, Sufjan
Stevens, The Leisure Society e Penguin
Cafè (solo Cafè, non Orchestra) siete sulla
strada buona per capire quello dei Punch Brothers, non scoperti (sono
al 4° album) ma valorizzati dal solito T-Bone
Burnett in occasione di Inside
Llewyn Davis, come successo per Rhiannon
Giddens. Di formazione classica come Simon/Arthur Jeffes (PCO/PC),
facilità di contaminazione come Stevens, gusto pop ricercato alla
TLS, ed amore per le radici americane come l’inglese Marcus
Mumford: tutti elementi che emergono, a volte ben amalgamati, altre
meno (gli intermezzi strumentali da Debussy e Scriabin sono gustosi
in sé, ma un po’ forzati nel contesto), con strumentazione
acustica che miscela archi e banjo, batteria e cori, con tecnica
sopraffina ed un sapiente uso di vuoti e pieni tra classica,
folk, pop, bluegrass (non tragga in
inganno il “blues” del titolo: il quintetto originario di
Brooklyn interpreta musica totalmente bianca). Originali, pur nelle
ispirazioni còlte, e dagli sviluppi tutti da seguire.
Voto
Microby: 7.8Preferite: I Blew It Off, Familiarity, Julep
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