martedì 30 agosto 2016

Recensioni al volo: William Bell, Christy Moore, Lisa Hannigan

WILLIAM BELL - This is where I live (2016)
Settantasettenne esponente del Memphis sound, torna ad incidere per la Stax, storica etichetta soul degli anni ‘60, un po' scaduta verso la fine del secolo fino alla bancarotta e alla chiusura delle produzioni. Nell’ultimo paio d’anni la Stax ha ripreso a produrre azzeccando un pugno di buoni successi grazie a Ben Harper e Nataniel Ratelieff e la decisione di recuperare William Bell si rivela decisamente oculata. In realtà WB ha sempre avuto poco in comune con i più aggressivi compagni di etichetta Otis Redding o Rufus Thomas, preferendo un profilo più soft, vicino ad un soul classico modello Curtis Mayfield o Booker T Jones. La sua espressione caratteristica è un vintage soul musicalmente impeccabile e senza tempo: del resto in un periodo di sempre maggior recupero del soul da parte di artisti più giovani, lui che fa questa musica da più di 50 anni non può che essere geneticamente ispirato. Da ascoltare: Born under a Bad Sign (scritto nel 1967 insieme a Booker T Jones e portato al successo prima da Albert King e poi dai Cream), Poison in the Well (la migliore del disco, al modo di BB King), Mississippi-Arkansas Bridge. Voto: ☆☆☆☆



CHRISTY MOORE - Lily (2016)
In Irlanda CM è una specie di leggenda vivente, anche se discusso per il suo passato: il suo appoggio all’IRA, in seguito rinnegato, il suo impegno sociale e politico, il suo essere sempre disinteressato al business ne hanno sottolineato il carattere poco propenso ai compromessi. Erano cinque anni che non usciva un suo lavoro ed anche qui il suo stile cantautorale con ballate ricche di chitarre e mandolini legano lo stile profondamente irish a melodie profonde ed evocative di impronta pop-folk. Senza dubbio uno dei dischi folk da ricordare nelle classifiche di fine anno. Da ascoltare; Oblivious, The Ballad of Patrick Murphy. Voto: ☆☆☆1/2

LISA HANNIGAN - At Swim (2016)

L’avevamo apprezzata già nei dischi di Damien Rice, del quale è musicalmente e sentimentalmente legata, e nei suoi due lavori precedenti, Sea Sew del 2008 e Passenger del 2011 (senza dimenticare la partecipazione alla colonna sonora del film premio oscar Gravity del 2013). Se Passenger era stato prodotto da Joe Henry, questo nuovo lavoro vede invece protagonista Aaron Dessner dei National che contribuisce a modulare atmosfere complesse e raffinate, lievemente elettroniche, esaltate dalla splendida voce di Lisa. I rimandi sono Kate Bush, Tori Amos, Bjork e Fiona Apple.  Un disco non semplice, lontano dalle ballate musicali abituali, ma pieno di luce e di colore e sempre più ricco di particolari ascolto dopo ascolto. Da segnalare: Snow, Undertow. Voto: ☆☆☆1/2.

domenica 28 agosto 2016

Maria Laura Baccarini & R*gis Huby - Gaber, io e le cose (2016)



Non avessi letto l’articolo “Voglia di anni ‘70”, comparso sul numero di Musica Jazz di Agosto, non avrei probabilmente saputo nulla di questo “Gaber, io e le cose”. Disco sublime, lo dico senza mezzi termini e con la diffidenza che in genere nutro nei confronti degli album-tributo (sebbene Per Gaber... Io Ci Sono - al quale parteciparono Celentano, Baglioni, Cristiano De André, Daniele Silvestri, Jannacci, Finardi, Battiato, Gianna Nannini, Morandi, Fossati, Jovanotti, Ligabue, Dalla e persino Patti Smith – non fosse affatto male…), troppo spesso forme di sciacallaggio per rastrellare quattrini sulle ceneri ancora calde di qualche grande artista passato a miglior vita (si fa per dire).
Per l’occasione, il duo Maria Laura Baccarini / Régis Huby attinge soprattutto al repertorio del cantautore meneghino del periodo ’70-’80, indubbiamente il migliore. E se il polistrumentista fa valere il coraggio di arrangiamenti che stanno sul crinale tra jazz e avanguardia (siamo tra Christian Fennesz e Derek Bailey), con generosi dosaggi di violino, la cantante romana fa valere il suo notevolissimo talento reinventando alcuni brani di Gaber con un passo a cavaliere tra il recitar-cantando e umori cabarettistici. Sicché se canzoni come Il dilemma o L’illogica allegria, già di per loro di incommensurabile valore, scorrono nel solco di una rilettura aggiornata ma non azzardata, in brani come Mi fa male il mondo e L’uomo muore assistiamo a un’autentica esplosione creativa, nella quale gli arrangiamenti ricchissimi e spiazzanti di Huby (qualcuno lo ricorderà nel progetto Charmediterraneen accanto ad Anouar Brahem, Gianluigi Trovesi, Paolo Damiani e l’Orchestre National de Jazz) tessono finiture mai banali a servizio della vocalità esplosiva della Baccarini. La quale passa per l’imitazione di Berlusconi, dà enfasi ai passaggi più pungenti dei testi, libera le briglie di un canto vorticoso, dal quale traspare tutta la sua formazione teatrale. I due, insieme, licenziano un disco prezioso, innovativo, una rilettura del repertorio gaberiano spavalda e riuscitissima. Un disco da incorniciare.

giovedì 18 agosto 2016

EAST OF VENUS, MUDCRUTCH, JAMES BLAKE


EAST OF VENUS (2016) Memory Box




Sfortunati i Feelies. Nel 1977 infiammavano il palco del CBGB’s a New York insieme a Television, Talking Heads, Patti Smith, ma ottenevano contratto e pubblicazione del primo album solo nel 1980. In tempo per essere citati dai R.E.M. come la fonte di ispirazione primaria nel loro frullare vari modelli musicali (folk-rock, punk, country-rock, garage, new wave, psichedelia) per farne qualcosa di nuovo (non unico perché da allora avrebbero fatto scuola, benché il gruppo di Michael Stipe sia citato mille volte più di loro anche per via di un talento indubbiamente superiore). Di successo commerciale manco a parlarne. Gli East of Venus rappresentano la metà dei Feelies (il chitarrista e vocalist Glenn Mercer ed il batterista Stanley Demeski) 40 anni dopo, un supergruppo completato da membri di Winter Hours, Luna e The Bongos; ma l’album (postumo per il band-leader Michael Carlucci, deceduto alla fine delle registrazioni) sembra un lavoro dei R.E.M. riesumato dai cassetti degli anni ’80, col suo jangly-guitar pop acidulo, malinconico ed essenziale a sua volta influenzato da Velvet Underground, The Byrds, Patti Smith, Faces, Rolling Stones, ma anche da suoni che richiamano il Paisley Underground.  Imperdibile per chi volesse assaporare insieme le radici e l’eredità dei R.E.M.
Voto Microby: 7.7
Preferite: Let’s Find A Way, In The Sun, Jane September



MUDCRUTCH (2016) Mudcrutch 2


Secondo capitolo della reunion del gruppo che in illo tempore (1970-1975) aveva preceduto la fondazione di Tom Petty & The Heartbreakers, e che si era sciolto non avendo ottenuto contratto discografico. La storia è nota: Tom Petty con i suoi spezzacuori è da quasi 40 anni un’icona del rock a stelle e strisce, ed il gioco di richiamare i membri del gruppo originario (tra i quali il chitarrista Mike Campbell ed il tastierista Benmont Tench poi con lui negli spezzacuori) aveva portato ad un omonimo esordio come Mudcrutch nel 2008, con la pura intenzione di divertirsi. Ma da musicisti di così spiccato talento sia l’omonimo che l’attuale “2” risultano prove di indubbio valore. Per “2” potremmo dire, come una volta, di un lato A all’altezza di un album degli Heartbreakers, e di un lato B che invece funge da puro divertissement, con un garage-rock seventies (matrice dei Mudcrutch) ingentilito dall’età dei protagonisti. Da 8 la prima parte, da 6.5 la seconda. Totale 7.3 e la speranza che non appendano gli strumenti al chiodo.
Voto Microby: 7.3
Preferite: Dreams of Flying, Beautiful Blue, Beautiful World




JAMES BLAKE (2016) The Colour In Anything


Per il cantautore inglese maestro dei nuovi “Nick Drake elettronici” un album in cui un’elettronica essenziale, quasi ambient, e ritmiche trip-hop sono al servizio di una scrittura dalle nuances tra il malinconico e il disperato. Lontano dalla glacialità minimale dell’esordio nel 2011, e dalle melodie lievemente meno ispirate rispetto al migliore Overgrown del 2013. L’eccessiva lunghezza (78’) nuoce alla concentrazione, col rischio di un ascolto di sottofondo, ma un pugno di canzoni sono di classe sopraffina.
Voto Microby: 7.3
Preferite: Radio Silence, Love Me In Whatever Way, I Need A Forest Fire









sabato 13 agosto 2016

Recensioni: Royal Southern Brotherhood, John Illsley, Felice Brothers

ROYAL SOUTHERN BROTHERHOOD - The Royal Gospel (2016)
Quarto album della band sudista, rispetto al precedente perdiamo Charlie Wooton e Duane Allman ma ci sono sempre Cyrill Neville (uno dei fratelli) e Tyrone Vaughan (nipote del grande Stevie Ray) e inoltre c’è l’aggiunta del tastierista Norman Caesar che con il suo hammond aggiunge un’impronta gospel soul al suono della band. L’inizio del disco è fulminante con il rock energico di “Where there’s smoke there’s fire” ma soprattutto con la stupenda “Blood is thicker than water” con soul, R&B, funky ma soprattutto blues-rock di grande spessore.
Un bel disco, con uno spirito funky che permea il suono delle sempre poderose ed energiche chitarre southern-rock.  Voto: ☆☆☆☆

JOHN ILLSLEY - Lond Shadows (2016)

Illsley è stato il bassista dei Dire Straits e l’unico membro della band ad essere presente in tutti i loro dischi (insieme a Mark Knopfler, ovviamente). Sicuramente si deve a questo il suo essere per sempre testimone del sound del suo gruppo originario. Già nel precedente “Streets of Heaven” del 2010 la sonorità knopfleriana del disco, unita alla voce sussurrata decisamente simile a quella del maestro (anche se in assoluto non avvicinabile a quella di Mark) avevano fatto pensare ad un recupero di qualche brano rimasto nella memoria del tempo, soprattutto del periodo da Private Investigations in poi. La base è un country-folk con virate verso un rock più acceso o a tratti verso atmosfere western-rock.  Un disco particolarmente gradito soprattutto per gli amanti dei Dire Straits. Da ascoltare: Long Shadows. Voto: ☆☆☆

FELICE BROTHERS - Life in the Dark (2016)


Band originaria dello stato di New York, comprende ormai solo due dei tre fratelli (Ian e  James) visto che Felice da tempo ha lasciato il gruppo per una carriera in parte solista, in parte con i The Duke and the King.  Sonorità Nashvilliane e Dylaniane del periodo dei Basement Tapes accanto a ballate country-bluegrass & western-folk, permeano l’intero disco, con atmosfere decisamente vintage. Il disco si rivela tuttavia noioso e decisamente anonimo, alla perenne ricerca della mitologia dylaniana e senza spunti di originalità. Voto: ☆

martedì 9 agosto 2016

FANTASTIC NEGRITO, BLACK MOUNTAIN, THE AVETT BROTHERS


FANTASTIC NEGRITO (2016) The Last Days of Oakland



In arte Fantastic Negrito, nella vita Xavier Dphrepaulezz, di padre somalo-caraibico e madre statunitense, ha goduto della sua prima esposizione italiana in qualità di sorprendente opener della recente tournèe di Chris Cornell. In realtà la sua discografia conta un esordio, acerbo e passato del tutto inosservato, nel 1995 sotto il nome Xavier. La maturità attuale stupisce perché, se la matrice del suo interesse resta prepotentemente blues, il lavoro per modernizzarlo lo affianca al più bravo (per ora) Gary Clark Jr., con un’importante ibridazione col soul, il R&B, l’hip-hop, il rock, il funky, perfino il folk e qualche spunto elettronico (anche il primo Prince tra le influenze). Ma con una fantasia trasversale alle canzoni, cambi di ritmo improvvisi, crasi tra musica bianca e nera, notevole perizia tecnica, pura gioia di suonare che rimandano spesso al genio scomparso più radiofonico, il Frank Zappa strictly-commercial.
Voto Microby: 7.8
Preferite: Scary Woman, About A Bird, Hump Thru The Winter


BLACK MOUNTAIN (2016) IV

Il collettivo canadese non ha mai proposto nulla di nuovo sul mercato musicale. Eppure piacciono trasversalmente a critici snob, vecchi fricchettoni e giovani hipsters. Perché è innegabile la capacità di Stephen McBean e sodali di interpretare meglio di chiunque altro un amalgama, sulla carta improponibile, di hard-rock, prog, stoner, kraut- e space-rock, psych-folk, blues acido e rock vintage. Senza mai andare in confusione e perdere il bandolo della matassa. McBean stesso ha dichiarato influenze che vanno dal prog alla new wave, dai Tangerine Dream a David Bowie (aggiungeremmo almeno Black Sabbath, Led Zeppelin e Jefferson Airplane). Una contaminazione che, a conti fatti, potremmo riassumere in “psichedelia”. Ma dopo dieci anni di attività discografica voglio confidare in una futura evoluzione stilistica, e al presente continuo a preferire il monolitico In The Future (2008) e il suo successore più accessibile Wilderness Heart (2010).
Voto Microby: 7.4
Preferite: Defector, You Can Dream, Space To Bakersfield



THE AVETT BROTHERS (2016) True Sadness


Non ho mai condiviso l'entusiasmo di molta critica (soprattutto italiana) nei confronti dei fratelli del North Carolina. Anche a proposito dell'ultima fatica, non basta presentarsi con una copertina che richiama palesemente i Clash di Give 'em Enough Rope, introdurre l'album con una batteria che scimmiotta i Queen di We Will Rock You, buttare qua e là spunti di elettronica e di drum machine per essere considerati dei rivoluzionari della musica tradizionale americana bianca. Che invece a mio parere non va oltre un folk-rock di maniera, con qualche trovata più furba che geniale ma anche, riconosciamolo, una non comune facilità nello scrivere belle melodie. Ma, alla fine, non (mi) convincono.
Voto Microby: 6.8
Preferite: Mama I Don't Believe, Smithsonian, Satan Pulls The Strings











 
 

lunedì 1 agosto 2016

THE TRASH CAN SINATRAS, THE CORAL, JAKE BUGG


THE TRASH CAN SINATRAS (2016) Wild Pendulum




Soli sei album in 26 anni testimoniano la debole attrattiva che il mercato esercita sul quintetto scozzese, ma opterei piuttosto per la propensione del leader ed autore delle canzoni Frank Reader a pubblicare del nuovo materiale solo quando ritenuto all’altezza. Questo perché ovunque si peschi nella discografia dei TCS si coglie un gioiellino. Figli della grande scuola scottish pop degli anni ’80 (Aztec Camera ed Orange Juice su tutti), all’esordio con lo splendido Cake nel 1990 e fino ad oggi, non hanno cambiato rotta rispetto ai mèntori: un jangly guitar pop elettroacustico gentile, raffinato, fresco ed orecchiabile al punto da rappresentare uno stile evergreen. Sempre scarsa l’esposizione in Italia (io li scoprii per caso acquistando il loro secondo album in un mercatino di Londra verso fine millennio), hanno invece goduto di un discreto air play sia in Inghilterra che oltre oceano fino ai primi 2 dischi, poi spazzati via dal ciclone brit-pop in UK e grunge in USA. Non si faccia scappare quest’ultima delizia chi apprezza Aztec Camera, Lighting Seeds, Lilac Time, Crowded House, Beautiful South, Prefab Sprout, Teenage Fanclub. Se ne stia alla larga chi preferisce suoni più aggressivi, sporchi, elettrici, più figli del rock che del pop, dei Rolling Stones che dei Beatles.
Voto Microby: 7.8
Preferite: Best Days On Earth, Let Me Inside, Waves




THE CORAL (2016) Distance Inbetween


Con la dipartita del chitarrista e compositore Bill Ryder-Jones (che si è dedicato ad una interessante carriera solista, cantautorale e prevalentemente acustica) e l’ingresso in squadra di Paul Molloy, chitarrista della rock-band The Zutons, il quintetto di Liverpool anziché sbandare ha compattato non solo i ranghi ma anche il suono, il più solido (ma non il più brillante) finora pubblicato. Ora le canzoni sono costruite intorno a riff di chitarra elettrica ammorbiditi da tastiere vintage e dalle consuete armonie vocali in stile-Byrds, ed il pop-rock psichedelico che ne deriva rimanda al pre-britpop dei gruppi del Madchester movement (The Stone Roses, Inspiral Carpets, The Charlatans), figlio più dei Pink Floyd dei sixties che della west-coast ’60. Un abito nuovo per i Coral, ma non per il panorama musicale esistente; tuttavia i nostri lo sanno fare meglio di altri.
Voto Microby: 7.4
Preferite: Chasing The Tail of A Dream, Connector, Miss Fortune



JAKE BUGG (2016) On My One


Country, hillbilly, hip-hop, new wave, folk, R&B, easy listening, soul. Non si tratta delle influenze musicali del 22enne di Nottingham, ma del genere che caratterizza le single canzoni, in modo totalmente slegato l’una dall’altra. Eterogeneità al limite apprezzabile in una compilation, non al terzo album di un promettentissimo 18enne all’esordio nel 2012. Un anno tra il primo ed il secondo, tre dal secondo all’attuale, un tempo che sembra sprecato visto che il nostro non ha ancora chiare le idee sulla strada da imboccare. Già la sua voce ipernasale ed acidula risulta idiosincratica a molti ascoltatori, se ci aggiungiamo una scrittura non al livello dei precedenti lavori ed arrangiamenti spiazzanti, beh si fatica a parlare positivamente al presente di quella che ahimè continua a rimanere una giovane promessa.
Voto Microby: 6.5
Preferite: Bitter Salt, Gimme The Love, Livin’Up Country


 
 

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