mercoledì 28 giugno 2017

FEIST


FEIST (2017) Pleasure




Sferragliare di chitarre elettriche su un tappeto di accordi grezzi di acustica e di tastiere minacciose, sostenute da una sezione ritmica di pancia più che di testa, e guidate da una voce che segue più l’emozione che lo spartito. Se state pensando a P.J. Harvey avete indovinato il genere ma non la protagonista che, sorprendentemente, è invece la canadese Leslie Feist, finora la più seria candidata con Laura Marling all’eredità di Joni Mitchell. Che ne è del raffinatissimo, variopinto e catchy chamber folk-pop con il quale ci aveva deliziato finora? Il gol in contropiede arriva subito, con l’incipit della title-track che fa supporre uno scambio di CD, e richiama immediatamente la Harvey prodotta da John Parish. Ma i gol arrivano a raffica, ed occorrono parecchi ascolti per ammettere che l’album pubblicato dall’ex Broken Social Scene coraggiosamente fuori dal suo seminato (l’airplay mediatico e la casa discografica non saranno così felici di rinunciare al successo commerciale raggiunto precedentemente dalla nostra) è un bel lavoro, tra il folk ruvido, l’indie-rock ed il blues maliano. Ma, alla fine, la domanda continua a martellare: perché una fuoriclasse come Feist pubblica ora un disco come Polly Jean sfornava 20 anni fa e dal cui genere quest’ultima ha scientemente (e splendidamente) voluto evolversi? L’esecuzione è eccellente, con una voce che è migliore di quella della Harvey e composizioni che potrebbero appartenere a quest’ultima, ma suona comunque derivativa. Io continuo a preferire l’orecchiabilità elegante di Mushaboom o 1 2 3 4, ed in toto il precedente album “Metals” del 2011 o il vecchio Let It Die del 2004.
Voto Microby: 7.6
Preferite: I’m Not Running Away, Century, Pleasure

lunedì 26 giugno 2017

ALT-J


ALT-J (2017) Relaxer




Veniamo subito alla conclusione: il terzo album dei genietti nerds inglesi è una delusione. Parte bene con 3WW, un brano rarefatto e disritmico degno del secondo lavoro, seguìto da In Cold Blood, un pop orecchiabile nello stile originale che aveva imposto gli Alt-J all’attenzione generale. Il problema è che le cartucce sono già finite con due canzoni che non figurerebbero in un loro “best of”. Si prosegue infatti con una versione straniata, distopica e soporifera del classico House of The Rising Sun, e da lì a zig-zag tra canzoni e sonorità che, a detta dei nostri, cercano soluzioni originali osando dove altri non sono arrivati. Ma il “famolo strano” non è stavolta sinonimo di qualità, perché in definitiva non si percepiscono né valide melodie, né idee, né sostanza né, soprattutto, una direzione (non vi è traccia nemmeno del prog 2.0 che avevano proposto nel precedente album). E quel che resta ad un ascolto anche attento è, nella seconda parte del lavoro, pura noia, sostantivo finora inaccostabile al trio di Leeds. Più che Relaxing, l’album risulta Boring. Che dire altro di una band partita con un capolavoro di intelligenza pop, e che ha perso una stella di valutazione ad ogni disco successivo? Forse solo che è tristemente in bella compagnia di altre recenti grandi promesse che hanno, chi più chi meno, deluso le aspettative alla fatidica prova del terzo album, quello della maturità: Mumford & Sons, San Fermin, Jake Bugg, perfino Fleet Foxes. Aspettiamo fiduciosi il ritorno di un’ispirata creatività.
Voto Microby: 6
Preferite: In Cold Blood, 3WW, Deadcrush

giovedì 8 giugno 2017

JULIA HOLTER


JULIA HOLTER (2017) In The Same Room




Mentre era in tour per la promozione del precedente “Have You In My Wilderness” (2015), la Holter ha accettato la proposta della Domino Records di inaugurare una nuova serie di pubblicazioni (Serie Documents) che catturassero l’immediatezza delle esibizioni live senza rinunciare alla perfezione delle incisioni in studio. Così in due giorni Devin Hoff (contrabbasso), Dina Maccabee (viola) e Corey Fogel (batteria) hanno reinterpretato con Julia Holter (piano e voce) “in the same room” (Live at RAK, Londra) un repertorio scelto dell’ artista losangelena, con predilezione per la penultima fatica (fresca di tour in teatri o chamber music rooms). Come sottolineavamo in occasione della recensione di HYIMW, la cifra stilistica è sempre un chamber-pop colto che deve qualcosa a Kate Bush, Laura Nyro, Nico, Agnes Obel con molti riferimenti avantgarde, senza tuttavia riuscire anche in presa diretta ad amalgamare le differenti tendenze, ma suscitando ammirazione per la perizia degli arrangiamenti ed il calore delle composizioni (non apprezzato nelle precedenti versioni in studio). Assente per scelta la componente elettronica, personalmente mi trovo ad apprezzare maggiormente i brani più pop, ed a convincermi ulteriormente che Julia Holter ha in sé i semi del capolavoro. Che lo faccia sbocciare!

Voto Microby: 7.8

Preferite: She Calls Me Home, Feel You, Lucette Stranded On The Island

KAREN ELSON


KAREN ELSON (2017) Double Roses




Supermodella per Armani, Dolce & Gabbana, Dior, Gucci, Versace, copertine per Vogue, Elle, W, due volte vincitrice del titolo di modella dell’anno, ma con la musica nel DNA (genitori musicisti) ed acquisita (moglie di Jack White, conosciuto nel 2005 durante un video dei White Stripes di cui era protagonista; i due si separeranno nel 2011 dopo aver avuto due figli), l’inglesina di Oldham aveva già dimostrato al debutto da cantautrice nel 2010 (il prezioso The Ghost Who Walks) di avere un futuro nel campo, una volta chiusa l’attività da fashion model. Le murder ballads restano il perno anche del secondo lavoro, un chamber-pop meno eclettico dell’esordio (che gli era di poco superiore) ma ben equilibrato, con arrangiamenti raffinati e strumenti talvolta desueti (quasi snob, tipo flauto e clavicembalo), comunque funzionali a canzoni ben scritte e supportate prevalentemente da chitarre acustiche, piano, archi ed una morbida sezione ritmica. Piacerà a chi apprezza Agnes Obel, Clara Luzia, Sophie Zelmani, Anna Luca, Lisa Hannigan.
Voto Microby: 7.8
Preferite: Raven, Wonder Blind, Call Your Name









lunedì 5 giugno 2017

MARK LANEGAN BAND


MARK LANEGAN BAND (2017) Gargoyle




Diciamola subito tutta: tra le numerose metamorfosi musicali che lo hanno visto protagonista, da quella di leader degli Screaming Trees, una delle band-guida dell’epopea grunge nei ’90, a quella da solista con numerosi capolavori acustici a scavare nelle radici cantautorali americane, e perfino quella collaborativa in numerosi e variegati progetti collaterali, quella con la Mark Lanegan Band è qualitativamente la meno significativa. Dei quattro album della formazione (più un collettivo di collaboratori che un complesso stabile) non uno ha raggiunto l’eccellenza, distinguendosi dal resto del mercato affine solo per la straordinaria, iconica voce di Lanegan. Quantomeno nel tempo lo stile musicale, agli inizi pasticciato tra attrazione per l’elettronica, blues rurale e mai domo retaggio chitarristico ed elettrico, ha trovato una sua collocazione: Gargoyle è certamente più coeso dei precedenti sforzi, e nonostante la MLB sia ormai da considerare un outfit elettronico, la ribadita presenza (anche in fase di scrittura) del chitarrista elettrico Rob Marshall (degli Exit Calm) affianca potenza rock ad un mood che resta dark (anche in acustico Lanegan proponeva un fantastico ibrido folk-blues-dark, intenso e tenebroso). Ma la scrittura resta quel che è, l’ispirazione persa negli anni ’90, cui non riesce a sopperire la sincera curiosità del nostro per suoni diversi e/o attuali. In summa, senza la voce di Lanegan (la mia preferita nel rock), Gargoyle suonerebbe come un qualunque album derivativo del dark-rock anni ’80. Riascoltare “Whiskey For The Holy Ghost” del 1994 o “I’ll Take Care of You” del 1999 (20 anni fa!!) per palpare la differenza tra arte e prodotto, tra poesia e compitino. Ricordando comunque che, per chi volesse ascoltare un simbolo della musica dei ’90, la Mark Lanegan Band suonerà al Vittoriale di Gardone Riviera il 10 luglio 2017.
Voto Microby: 7
Preferite: Emperor, Goodbye To Beauty, Death’s Head Tattoo

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