sabato 18 agosto 2018

In ricordo di Claudio Lolli

E così anche Claudio Lolli ci ha lasciati. Dopo i titani della canzone d’autore – da Battisti, fino a Pino Daniele, passando per De André, Gaber, Dalla, Jannacci (ma vorrei ricordare anche Gianmaria Testa) – anche lui, cantautore defilato, poco disposto a mettersi sotto i riflettori con la posa da maître à penser, mai sopra le righe, ha messo il suo sigillo su una stagione irripetibile per la canzone italiana. Lui che era meno noto, che ingaggiò estenuanti bracci di ferro con le case discografiche per poter ottenere il prezzo imposto sui suoi dischi, che non andava in televisione, che ha fatto della coerenza un abito a misura di esistenza, se ne va in punta di piedi, come ha vissuto nella sua Bologna. Se n’è andato ad Agosto, quando “si muore di caldo e di sudore. Si muore ancora di guerra non certo d'amore”, proprio nei giorni del dramma di Genova, in cui risuona ancora attualissima la frase “si muore di stragi più o meno di stato”, all’epoca riferita a quella dell’Italicus.
Ho avuto la fortuna di conoscerlo presto e di ascoltarlo, la prima di 10 volte, a Rimini, nel 1980, quando avevo 16 anni e ancora non avevo capito che Luigi Nono era un compositore (peraltro suocero di Nanni Moretti) e non si scriveva Luigi IX, come il re di Francia vissuto nel XIII secolo. Ci andai con Nonno e fu un’epifania fatta dei suoni jazzati di “Extranei” e delle riletture dei suoi brani più noti, dall’immancabile “Borghesia” agli “Zingari Felici”, passando per quel capolavoro inarrivabile che è “Disoccupate le strade dai sogni”, al quale Mario Bonanno ha recentemente dedicato un libro, “È vero che il giorno sapeva di sporco”. Per Lolli gli anni ’80 furono l’inizio dell’irriducibilità dei suoi testi esistenzialisti allo spirito del tempo, segnato da forme sempre più spinte di edonismo e disimpegno anche in campo musicale: un’interminabile stagione di riflusso che avrebbe portato ad abbandonare le piazze e a disoccupare le strade dai sogni. Se ne rese bene conto, Lolli, quando – come ha raccontato in diverse occasioni durante i suoi spettacoli dal vivo – in Puglia si trovò a suonare in un locale di infimo livello davanti a una decina di spettatori. Fu la molla per capire che in Italia la canzone d’autore stava andando da tutt’altra parte e che lui, immergente e inadatto a un panorama svogliato e involuto, avrebbe fatto meglio tornare a fare il professore al liceo di Bologna. Amatissimo dagli studenti, come testimoniano i ragazzi intervistati fuori dalla scuola dove insegnava nel pregnante e imperdibile documentario di Salvo Manzone, “Salvarsi la vita con la musica”. Non a caso, tra il primo concerto visto e il nuovo millennio potei seguirlo in poche occasioni e in luoghi che erano più una fucina per musicisti underground che non palcoscenici per autori di acclarata fama, dal Villaggio Globale a Borghetto Flaminio fino a quello nei giardini di Castel Sant’Angelo, dove gli spettatori erano talmente pochi che potevi starlo a sentire a un paio di metri dal microfono. Anche la produzione discografica si era ormai rarefatta: il disco del 1983 “Antipatici antipodi” (con copertina di Andrea Pazienza) non è mai stato ristampato su CD (come, del resto, il precedente “Extranei”) e per gli interi gli anni ’90 realizzò un solo disco di inediti (“Intermittenze del cuore”) più qualche tocco di vernissage a vecchi successi del passato, ma nulla di più. Le sue collaborazioni con i concittadini Lucio Dalla per “L’Eliogabalo” e Guccini per “Keaton” cominciavano a somigliare sempre più a vecchie foto ingiallite. Il suo modo di cantare, nonostante una voce bellissima, senza inflessioni, cristallina, posata e profonda, si era trasformato in un recitar cantando, i testi erano declamati senza sforzo mnemonico, attingendo alle lettura su quadernini e libriccini stropicciati. È in questa veste consolidata che si presentò anche nella libreria MelBookstore nel 2003, quando – a fianco dell’autore Jonathan Giustini – lo ascoltai in occasione del lancio del volume biografico “La terra, la luna e l'abbondanza”, supportato dal Parto delle Nuvole Pesanti, l’ensemble di ragazzi calabresi col quale propose una versione aggiornata di “Ho visto anche degli zingari felici”.
Sono sempre stato così innamorato della musica e delle parole di Lolli che nel 2006, a ridosso di un suo concerto all’Alpheus, organizzai una “serata Lolli” a casa mia, insieme al Nonno, Anna, Elisabetta, Achille, Stefania e Riccardo Rigato, tra memorabilia, reperti archeologici da vecchi giornali e riviste nonché la visione del dvd acquistato in occasione di quel concerto. Dalle foto scattate durante quella serata partì casualmente anche la mia collaborazione – durata meno di un paio d’anni – con le Brigate Lolli, il principale sito italiano dedicato al cantautorato, per il quale cominciai a scrivere recensioni di concerti.
Da lì a poco a Lolli sarebbe stata riconosciuta la statura che gli spettava: quella di un Maestro assoluto della canzone italiana, al punto che nel 2013 i suoi fan si diedero appuntamento – organizzato grazie alla macchina dei social – a Monterotondo, nella splendida cornice di Palazzo Orsini, in occasione del Raduno Nazionale Lolli (sic!). Nella circostanza lo accompagnarono sul palco, oltre al fido Paolo Capodacqua (uno che si diplomò in chitarra classica al conservatorio di Sulmona, presentando dei brani riarrangiati di Lolli e che per questa via entrò nella sua orbita), Danilo Tomasetta e Roberto Soldati: entrambi colonne portanti della band degli “Zingari felici”, il secondo diventato, nel frattempo, ordinario di fisica all’università di Bologna.
L’ultima volta che lo vidi fu quattro anni fa, all’Auditorium, dove presentò un’antologia delle sue canzoni d’amore (tempo prima aveva pubblicato “Lovesongs”). Fu l’unica volta in cui lo ascoltai da solo.
Infine, quando il mercato discografico era ormai al collasso, partecipai con fierezza al crowdfounding per realizzare il suo ultimo disco, quel “Grande freddo” che, a chi aveva versato qualche soldino in più, al momento della pubblicazione giunse accompagnato da un concerto registrato a Bologna nel 2014, altrimenti irreperibile. Il disco vinse poi anche il premio Tenco come miglior album dell’anno.
Mi mancheranno moltissimo le parole di Claudio, anche quelle in prosa di libri vibranti e cariche d’amore come in “Lettere matrimoniali”. Così come mi mancherà la sua ironia, quella che durante i concerti bilanciava ampiamente la malinconia che trapelava da canzoni e album di cui basterebbe ricordare qualche titolo: “Un uomo in crisi (canzoni di morte, canzoni di vita)”, “Canzoni di rabbia”, “Quando la morte avrà”, “Angoscia metropolitana”, “La morte della mosca”. Ciao Claudio. Grazie per tutto ciò che mi hai regalato negli ultimi 40 anni. E per esserti sempre seduto dalla parte del torto.

2 commenti:

microby ha detto...

Grazie Stefano per il commovente ricordo di un artista insieme acuto e dolce, intelligente e discreto, potente in punta di penna, consapevolmente grande ma umile. Ci mancherà la sua sottile e calda ironia. Forse non ha tollerato che il vicepremier non concepisca la possibilità che gli zingari possano essere felici... :-)

lucaf ha detto...

Grazie Stefano per le tue bellissime parole in ricordo di uno dei capisaldi del cantautorato italiano.

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