giovedì 31 ottobre 2019

THE SLOW SHOW


THE SLOW SHOW (2019) Lust And Learn



Ho conosciuto il quartetto di Manchester solo grazie ad una recensione del blog italiano “Come un killer sotto il sole”, dal momento che The Slow Show sono pressochè sconosciuti in Italia (ancora per poco?), mentre raccolgono giudizi entusiastici sui blogs francesi, olandesi, svizzeri e tedeschi, paese quest’ultimo che li ha adottati musicalmente. Forse a causa dello spleen misto a romanticismo (Maximilian Hecker docet?) connaturato alle loro partiture musicali, con esecuzioni eteree ed insieme passionali, trame minimali di pianoforte che si aprono a cori volutamente ieratici, tuttavia solo lontani parenti dello sturm und drang di artisti quali San Fermin e Woodkid (sebbene a quest’ultimo debbano più che un’ispirazione, realizzata però in modo più rarefatto e lineare). Ma l’elemento caratterizzante la proposta degli inglesi è la voce profondamente baritonale da crooner del leader Rob Goodwin, che ricorda tantissimo quella di Stuart Staples dei Tindersticks: il chamber pop di questi ultimi risulta alla fine il confronto più immediato per la band mancuniana, sia nell’approccio strumentale (essenziali tessiture di pianoforte/tastiere ad opera del co-leader Frederick’t Kindt, e sezione ritmica-archi-plettri-fiati con prevalente funzione di sostegno, col pathos cui viene dato risalto soprattutto grazie ai cori), sia nelle liriche intime e malinconiche. Tutto è studiato nei minimi dettagli, ed ai primi ascolti si ha la sensazione di mancanza di spontaneità, di una band new age allestita ad arte per incontrare la musica dark via-Nick Cave, ma con gli ascolti quello che sembra semplice si dimostra anche profondo e potente. E certamente il genere proposto dai The Slow Show ha pochi esempi simili attualmente, quelli prima citati. Non penso vi siano vie di mezzo: li si ama o li si odia.
Voto Microby: 8
Preferite: Eye to Eye, Low, Hard to Hide

martedì 15 ottobre 2019

NICK CAVE AND THE BAD SEEDS


NICK CAVE AND THE BAD SEEDS (2019) Ghosteen

L’ultimo lavoro di Nick Cave è salutato dalla critica mondiale non solo come uno degli apici della variegata carriera dell’australiano, ma come un capolavoro assoluto: Metacritic assegna una straordinaria valutazione di 99/100 sulla scorta di 19 recensioni. Atto finale di una trilogia iniziata splendidamente nel 2013 con Push The Sky Away, il primo album con i Bad Seeds in cui Cave aveva lavorato per sottrazione, sulla scia del secondo e ancora più rarefatto Skeleton Tree (2016) l’attuale “Ragazzo fantasma” è fortemente influenzato nel mood e nelle tematiche dalla drammatica perdita del figlio quindicenne Arthur nel 2015. Ascoltare Ghosteen senza considerare quest’ottica significa mutilarlo nella comprensione. E tuttavia non tutti sono disposti a farlo (comprensibili in tal senso le rare stroncature di alcuni ascoltatori contemporanei, avvezzi al mordi-e-fuggi e ad un consumo che sia immediatamente fruibile: per costoro Ghosteen rappresenta inevitabilmente una noia mortale). Unica e mandatoria possibilità di ascolto dell’album è infatti l’immersione totale, al massimo con testi a fronte (da sempre fondamentali e poetici per il Re Inchiostro). Dimenticatevi di fare altro durante l’ascolto. A proposito di Skeleton Tree scrivevamo sul blog “ambient spettrale su cui declamare i testi”, definizione adattissima anche all’epilogo della trilogia: musica che avrebbe potuto scrivere ed eseguire Brian Eno 40 anni fa, e che potrebbe titolarsi “Music for Limbo”, interpretata da un artista sospeso tra la terra ed il cielo da quando è rimasto orfano del figlio (la stessa copertina, splendida od orribile a seconda dell’osservatore, richiama un paradiso terrestre tra Rousseau e i preraffaelliti). Il lavoro di Warren Ellis, vero timoniere dei Bad Seeds da almeno un lustro e splendido compositore (con Cave) di colonne sonore, è evidente nella rarefazione dei suoni e nell’impalpabilità delle melodie, appena accennate, e nell’assetto cinematico dell’opera. Visto in altra ottica, è consentito anche sostenere che ogni brano assomiglia all’altro e che lo sforzo compositivo e di arrangiamenti è ridotto al minimo, mentre solo l’anacusia o l’asistolia non permettono di percepire il pathos, assolutamente sincero, così come fa sorridere la critica di autoreferenzialità: chi non lo è, e meno che meno Nick Cave, da sempre diabolicamente o celestialmente autobiografico? L’album è diviso dall’artista in due sezioni, “the children” costituita dal primo disco di 8 brani, e “the parents”, 3 brani nel secondo (di cui 2 eccessivamente lunghi, 12 e 14 minuti). Bello sarebbe poter valutare un album come Ghosteen se fosse stato pubblicato da un artista al debutto, liberi da pre-giudizi; invece la solida eredità di stima di un grande della nostra musica e le sue drammatiche vicende di vita (ha attentato alla propria vita in ogni modo e gli è toccato in sorte di sopravvivere al proprio figlio) impediscono l’imparzialità. Lavoro che sarà ripudiato da chi ama il ritmo ed il clangore delle chitarre elettriche (entrambi totalmente assenti in Ghosteen), ed apprezzato dagli estimatori delle tastiere soffici ed eteree della musica ambient, mentre presumo lascerà indifferenti gli appassionati di avantgarde (non vi è alcuna ricerca musicale in Ghosteen). Emersi dall’inevitabile spleen indotto dal non facile ascolto di Ghosteen, e cercando di riappropriarci della nostra vita quotidiana per esprimere un giudizio il più obiettivo possibile, possiamo trovare dei limiti giusto nell’assenza di novità musicale (banalizzando, siamo di fronte ad un lungo sermone di autoanalisi su un tappeto di musica ambient seventies) ed in qualche ridondanza e lungaggine di troppo: certamente funzionale all’elaborazione del lutto da parte di Cave, ma obiettivamente tetra e noiosa per chi ha tutt’altro mood. Sospeso tra la tensione umana dell’ultimo Scott Walker e la pacificazione trascendentale, Cave ha scelto la rarefazione musicale e la solidità delle parole: l’epilogo di Hollywood recita “Everybody’s losing someone/It’s a long way to find peace of mind, peace of mind/And I’m just waiting now, for my time to come/And I’m just waiting now, for peace to come, for peace to come”. Resta in ogni caso un unicum di forte impatto emotivo, nel bene e nel male. Solo il tempo ci dirà se chiamarlo o no “masterpiece”.
Voto Microby: 7.7
Preferite: Bright Horses, Sun Forest, Galleon Ship



giovedì 10 ottobre 2019

BETH HART


BETH HART (2019) War In My Mind

Dall’esordio nel 1996 in veste di blues-rocker ma da subito dimostratasi eccellente anche nei panni di singer-songwriter, non si può dire che la losangelena classe 1972 sia stata pigra: sia nella vita, nella quale in un periodo di dipendenza da droghe ed alcool si è giocata la carriera commerciale, sia musicalmente, dal momento che la sua versatilità l’ha portata ad affrontare il blues col filtro di numerose prospettive (rock, soul, R&B, pop, jazz), eccellendo peraltro in tutte, soprattutto grazie ad una voce che considero personalmente la più bella nel genere tra le white ladies, ed alla collaborazione nell’ultimo decennio con Joe Bonamassa, il chitarrista che le ha spalancato le porte della notorietà e della contaminazione tra generi. Se Leave The Light On (2003) può rappresentare l’apice del suo primo periodo di creatività, con l’ultimo Fire On The Floor (2016) la Hart sembrava aver completato il capolavoro di una trasformazione che la vedeva eccellere anche nel ruolo di cantautrice soul-oriented che nel paniere metteva anche le lezioni di Elton John ed Adèle, già esplicate nell’ottimo Better Than Home (2015). A mio avviso ora la metamorfosi si poteva considerare conclusa, e noi ascoltatori goderne i frutti. Invece Beth Hart spinge l’acceleratore del singing-songwriting verso l’easy listening, sebbene di classe, alla Adèle, enfatizzando quello che è sempre stato il suo tallone di Achille, la tendenza al melodramma, e dimenticando quasi completamente le radici: in War In My Mind (titolo esplicativo di una certa confusione, peraltro ben illustrato dalla splendida copertina) non c’è pressochè traccia di blues né di rock, ed il soul è annacquato in arrangiamenti ridondanti, adatti alla musica easy-pop di classe ma che nelle mani di Adèle o Anastacia danno risultati più brillanti. Non a caso i brani migliori, in un album di ballads melodiche piuttosto che di impostazione ritmica, sono quelli piano-e-voce, in cui gli arrangiamenti (produce Rob Cavallo, già dietro la consolle di Green Day ma anche Avril Lavigne, Paris Hilton, Fleetwood Mac, Kid Rock, e questo dice molto) non riescono a tradire una scrittura comunque di valore. Ascolti ripetuti attenuano la delusione per quanto atteso dal background dell’artista, e fanno apprezzare un ottimo lavoro di easy listening: approcciato in quest’ottica, anche il brano più valido del lotto, Rub Me For Luck, rimanda immediato l’eco della Skyfall di adeliana memoria. Ma personalmente confido in un futuro ritorno sui passi della musica black vera, genere nel quale la Hart è prima inter pares, mentre nella musica leggera per adulti rischia di essere una fra tante, cioè anonima.
Voto Microby: 7.6
Preferite: Rub Me For Luck, Sister Dear, Let It Grow

sabato 5 ottobre 2019

Recensione: Raphael Saadiq - Jimmy Lee (2019)

RAPHAEL SAADIQ - Jimmy Lee (2019)

Per completare l’ultima, stimolante, overview di Microby sulla black music attuale non poteva mancare l’ultimo lavoro di RS, già allievo e collaboratore di Prince nel periodo del suo “Parade”, di cui avevamo già parlato nel 2011 in occasione del suo precedente “Stone Rollin” probabilmente migliore album nel suo genere in quell’anno. Nonostante siano passati 8 anni, Charles Ray Wiggins da Oakland California, in arte Raphael Saadiq non è rimasto fermo: ha scritto per Erykah Badu e Angie Stone, ha prodotto John Legend ed ha anche avuto una nomination per l’oscar nel 2018 con Mary J. Blige per Mighty River (dal film “Mudbound”).
Questo lavoro, pubblicato a ricordo del fratello Jimmy Lee, morto per AIDS ed overdose negli anni ’90, ci fa riassaporare l’influenza di Stevie Wonder, Curtis Mayfield e Michael Jackson (So Ready), del suo mentore Prince (Something Keeps Calling) e dei Trammps (This World is Drunk). Ma il gioiello è senz’altro Rikers Island, strepitosa invocazione soul in grado di fondere la tradizione con la modernità, fondendo sonorità contemporanee con il soul degli anni ’70 e la canzone di protesta antirazziale.

Un disco sorprendente per la diversità di generi richiamati: dal soul tradizionale al funk, al gospel: sicuramente tra dei migliori dischi black di quest’annata. Da ascoltare: Rikers Island, This World is Drunk, Belongs to God. Voto:


martedì 1 ottobre 2019

LE NUOVE LEVE DEL RETRO-SOUL


Non sarebbe corretto sostenere che è in atto un revival del soul anni ’60, dal momento che da tempo il genere è passato allo status di evergreen e che i suoi estimatori hanno sempre rappresentato una popolazione piuttosto che una nicchia. E’ però da almeno un lustro che sembra in atto un ricambio generazionale, forse favorito dalla dipartita in campo femminile dapprima del totem-soul Aretha Franklin, quindi della nuova regina Sharon Jones; la terza grazia, Mavis Staples, è ormai ottuagenaria, e le leve di mezzo hanno conquistato popolarità (Tina Turner) e stima (Bettye LaVette), tuttavia mai il carisma delle precedenti. La globalizzazione musicale ha inoltre diffuso il vangelo (“gospel”) soul nei cinque continenti, permettendone la contaminazione (in alcuni casi assolutamente preziosa) ma salvaguardandone le caratteristiche essenziali di musica nata dalla fusione del jazz/early R&B col gospel ed il pop dell’epoca. Chi tuttora ne protegge con convinzione gli stilemi è dedicato al cosiddetto retro-soul. Che di positivo ha la purezza del rispetto, di negativo il fatto che si tratta di musica derivativa, priva di uno sguardo proiettato al futuro. Musica pertanto nostalgica ma tuttora assai vitale, proposta da artisti di grande spessore (per equità, citiamo al passato maschile almeno i furono Otis Redding, James Brown, Sam Cooke, Wilson Pickett, Curtis Mayfield, Ray Charles, Marvin Gaye); tra gli epigoni attuali del genere occorre ricordare almeno Lee Fields e lo straordinario Charles Bradley, passato nel 2017 a miglior vita dopo un beffardo successo in tarda età. Dicevamo delle nuove leve e su queste pagine già abbiamo parlato dei vari Curtis Harding, Black Joe Lewis, Anderson East, Nathaniel Rateliff, Ben l’oncle soul, Ndidi O. Negli scorsi mesi sono stati pubblicati alcuni lavori di retro-soul, per motivi diversi meritevoli di segnalazione. Per dispetto parliamo prima degli unici all-white del lotto:



THE TESKEY BROTHERS sono un quartetto di Melbourne più contaminato rispetto ad un puro retro-soul: guidato dai fratelli Josh (voce) e Sam Teskey (chitarre), il primo dotato di un’abrasiva voce che ricorda di volta in volta il giovane Joe Cocker soul, il Rod Stewart young-blues ed ovunque il più recente Anderson East, ed il secondo autore di un suono chitarristico che miscela l’arpeggio limpido soul sixties con riff sporchi figli del garage-sound (la lezione di Eddie Hinton è palpabile), gli australiani al secondo album Run Home Slow propongono un soul di matrice Stax in cui tuttavia convergono influenze southern ed “americana”, così come il jazz tra le guerre ed il gospel (varietà di stili in parte da ascrivere al produttore Paul Butler). Completano il quartetto una sezione ritmica ordinata, così come non manca una colorata partecipazione dei fiati ed il sostegno di tastiere sixties. Sono i più “bianchi” e “rock” tra le proposte, ma le potenti radici traggono linfa da Otis Redding ed Eddie Hinton.
Voto Microby: 7.8
Preferite: Paint My Heart, Rain, Carry You



Per chi invece ama i suoni morbidi, eleganti, carezzevoli del soul di marca Sam Cooke, Al Green, Donny Hathaway e Marvin Gaye, il disco di riferimento è BLACK PUMAS, esordio della band omonima texana, ufficialmente costituita dal duo Eric Burton (nero dalla voce vellutata) ed Adrian Quesada (bianco polistrumentista), integrati da validi turnisti alla sezione ritmica, fiati, tastiere ed archi. Il rischio di risultare melliflui e leziosi, dietro l’angolo per il genere musicale, è efficacemente sebbene non sempre superato grazie ad eccellenti doti di scrittura ed a parti musicali in cui nulla è lasciato al caso (per molti ascoltatori tuttavia ciò potrebbe costituire un difetto). Almeno un paio di gioiellini meriterebbero un airplay massiccio, con possibile straniante effetto di sixties-soul da “ritorno al futuro”. La classe del duo è comunque indiscutibile.
Voto Microby: 7.7
Preferite: Touch The Sky, Colors, Confines



Ma il pezzo da novanta tra le nuove proposte “black” è rappresentato dai SOUTHERN AVENUE (la strada che delimita il quartiere di Memphis sede della Stax Records), quintetto del Tennessee coagulatosi intorno al chitarrista israeliano Ori Naftaly, di formazione blues ma convertitosi al soul-errenbi grazie all’incontro con la straordinaria vocalist di colore Tierinii Jackson ed il fratello batterista Tikyra. Keep On è il loro secondo lavoro, dopo una gavetta di 300 concerti in 2 anni che li ha portati a vincere numerosi premi e ad aprire per Buddy Guy, Los Lobos e North Mississippi Allstars. Qui il retro-soul si apre a tutti i sottogeneri, dal rhythm ‘n’ blues al funky, dal gospel al blues in una fusione di classe e viscere che ha rimandi chiari (non solo nella spettacolare voce di Tierinii) ad Aretha Franklin, in versione più popolare che religiosa. Gli ingredienti classici ci sono tutti, dalla ritmica pulsante agli ottoni a sostegno, dalla chitarra elettrica funky negli accordi e bluesy negli assoli, dalla vocalist carismatica ad ineccepibili contrappunti gospel: nessun accenno, nonostante la giovane età dei componenti, ai suoni moderni ma glaciali del nu-soul o dell’alt-R’n’B. Piuttosto un rimando col pensiero a due bands iberiche sottotraccia nelle vendite ma musicalmente esplosive, e già segnalate sul nostro blog: la madrilena Lisa and The Lips (frontwoman l’hawaiana Lisa Kekaula, anche leader degli americani Bellrays) e la controparte catalana The Excitements (trascinata dalla spettacolare voce della mozambicana Koko-Jean Davis). I Southern Avenue rappresentano una scarica vitale di classe musicale black da sparare ad alto volume in auto o in cuffia (a casa i vicini alzerebbero il volume di Alessandra Amoroso per par condicio).
Voto Microby: 8
Preferite: Whiskey Love, Keep On, Lucky


Per chi ama la musica black, tre gruppi assolutamente raccomandati. 



 
 

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