giovedì 10 ottobre 2019

BETH HART


BETH HART (2019) War In My Mind

Dall’esordio nel 1996 in veste di blues-rocker ma da subito dimostratasi eccellente anche nei panni di singer-songwriter, non si può dire che la losangelena classe 1972 sia stata pigra: sia nella vita, nella quale in un periodo di dipendenza da droghe ed alcool si è giocata la carriera commerciale, sia musicalmente, dal momento che la sua versatilità l’ha portata ad affrontare il blues col filtro di numerose prospettive (rock, soul, R&B, pop, jazz), eccellendo peraltro in tutte, soprattutto grazie ad una voce che considero personalmente la più bella nel genere tra le white ladies, ed alla collaborazione nell’ultimo decennio con Joe Bonamassa, il chitarrista che le ha spalancato le porte della notorietà e della contaminazione tra generi. Se Leave The Light On (2003) può rappresentare l’apice del suo primo periodo di creatività, con l’ultimo Fire On The Floor (2016) la Hart sembrava aver completato il capolavoro di una trasformazione che la vedeva eccellere anche nel ruolo di cantautrice soul-oriented che nel paniere metteva anche le lezioni di Elton John ed Adèle, già esplicate nell’ottimo Better Than Home (2015). A mio avviso ora la metamorfosi si poteva considerare conclusa, e noi ascoltatori goderne i frutti. Invece Beth Hart spinge l’acceleratore del singing-songwriting verso l’easy listening, sebbene di classe, alla Adèle, enfatizzando quello che è sempre stato il suo tallone di Achille, la tendenza al melodramma, e dimenticando quasi completamente le radici: in War In My Mind (titolo esplicativo di una certa confusione, peraltro ben illustrato dalla splendida copertina) non c’è pressochè traccia di blues né di rock, ed il soul è annacquato in arrangiamenti ridondanti, adatti alla musica easy-pop di classe ma che nelle mani di Adèle o Anastacia danno risultati più brillanti. Non a caso i brani migliori, in un album di ballads melodiche piuttosto che di impostazione ritmica, sono quelli piano-e-voce, in cui gli arrangiamenti (produce Rob Cavallo, già dietro la consolle di Green Day ma anche Avril Lavigne, Paris Hilton, Fleetwood Mac, Kid Rock, e questo dice molto) non riescono a tradire una scrittura comunque di valore. Ascolti ripetuti attenuano la delusione per quanto atteso dal background dell’artista, e fanno apprezzare un ottimo lavoro di easy listening: approcciato in quest’ottica, anche il brano più valido del lotto, Rub Me For Luck, rimanda immediato l’eco della Skyfall di adeliana memoria. Ma personalmente confido in un futuro ritorno sui passi della musica black vera, genere nel quale la Hart è prima inter pares, mentre nella musica leggera per adulti rischia di essere una fra tante, cioè anonima.
Voto Microby: 7.6
Preferite: Rub Me For Luck, Sister Dear, Let It Grow

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