BETH
HART (2019) War In My Mind
Dall’esordio
nel 1996 in veste di blues-rocker
ma da subito dimostratasi eccellente anche nei panni di
singer-songwriter,
non si può dire che la losangelena classe 1972 sia stata pigra: sia
nella vita, nella quale in un periodo di dipendenza da droghe ed
alcool si è giocata la carriera commerciale, sia musicalmente, dal
momento che la sua versatilità l’ha portata ad affrontare il blues
col filtro di numerose prospettive (rock, soul, R&B, pop, jazz),
eccellendo peraltro in tutte, soprattutto grazie ad una voce che
considero personalmente la più bella nel genere tra le white
ladies, ed alla
collaborazione nell’ultimo decennio con Joe Bonamassa, il
chitarrista che le ha spalancato le porte della notorietà e della
contaminazione tra generi. Se Leave
The Light On (2003)
può rappresentare l’apice del suo primo periodo di creatività,
con l’ultimo Fire
On The Floor (2016)
la Hart sembrava aver completato il capolavoro di una trasformazione
che la vedeva eccellere anche nel ruolo di cantautrice
soul-oriented
che nel paniere metteva anche le lezioni di Elton John ed Adèle, già
esplicate nell’ottimo Better
Than Home (2015). A
mio avviso ora la metamorfosi si poteva considerare conclusa, e noi
ascoltatori goderne i frutti. Invece Beth Hart spinge l’acceleratore
del singing-songwriting
verso l’easy
listening,
sebbene di classe, alla Adèle, enfatizzando quello che è sempre
stato il suo tallone di Achille, la tendenza al melodramma, e
dimenticando quasi completamente le radici: in War
In My Mind (titolo
esplicativo di una certa confusione, peraltro ben illustrato dalla
splendida copertina) non c’è pressochè traccia di blues né di
rock, ed il soul è annacquato in arrangiamenti ridondanti, adatti
alla musica easy-pop
di classe ma che nelle mani di Adèle
o Anastacia
danno risultati più brillanti. Non a caso i brani migliori, in un
album di ballads
melodiche piuttosto che di impostazione ritmica, sono quelli
piano-e-voce, in cui gli arrangiamenti (produce Rob Cavallo, già
dietro la consolle di Green Day ma anche Avril Lavigne, Paris Hilton,
Fleetwood Mac, Kid Rock, e questo dice molto) non riescono a tradire
una scrittura comunque di valore. Ascolti ripetuti attenuano la
delusione per quanto atteso dal background dell’artista, e fanno
apprezzare un ottimo
lavoro di easy listening:
approcciato in quest’ottica, anche il brano più valido del lotto,
Rub Me For Luck,
rimanda immediato l’eco della Skyfall
di adeliana memoria. Ma personalmente confido in un futuro ritorno
sui passi della musica black vera, genere nel quale la Hart è prima
inter pares, mentre
nella musica leggera per adulti rischia di essere una fra tante, cioè
anonima.
Voto
Microby: 7.6Preferite: Rub Me For Luck, Sister Dear, Let It Grow
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