domenica 27 giugno 2021

Måneskin - Teatro d'ira vol. 1

Teatro d'ira - Vol. I: Maneskin, Maneskin: Amazon.it: Musica Secondo album del gruppo più sorprendente e chiacchierato degli ultimi mesi, non solo in Italia ma anche nel resto del mondo, dove il singolo I wanna be your slave, pezzo di ispirazione RHCP, ha scalato tutte le classifiche, incluse quelle USA. In effetti il lavoro segna nettamente il passaggio della band dalla dimensione della rivelazione X-Factor con un grande successo a livello nazionale a quello di rock band cosmopolita che vuole dimostrare che il rock non è morto, ma anzi prospera proprio perché è diventato un patrimonio dell'umanità, sia di quella dei sobborghi di Liverpool che dei quartieri della media borghesia romana.

Il primo singolo, Zitti e buoni, un pezzo molto energico dal vago sapore glam, ha la sfortuna/fortuna di essere stato conosciuto per la vittoria al Festival di Sanremo e all'Eurovision song contest (molto più sorprendente la prima della seconda). Se ne parla quindi più per il clamore che ha destato che per il fatto che è una gran bella canzone che parla di conflitto generazionale.

Teatro d'ira vol. 1 mostra influenze abbastanza diverse rispetto al precedente Il ballo della vita. Si va dalla struggente, intimista e amara Coraline, alle atmosfere gotiche di La paura del buio (tributo ai mentori Afterhours?), passando per lo stoner de Il nome del padre e il rap di Lividi sui gomiti. Insomma, un lavoro rock'n'roll di una band di ventenni romani che non solo riescono a stare nell'Olimpo mondiale, ma che lo fanno con personalità e originalità derivativa! Scusate se è poco.

 

giovedì 24 giugno 2021

PIERS FACCINI (2021) Shapes of The Fall


Genere
: Folk mediterraneo, Singer-songwriter, musica etnica maghrebina

Simili: Ali Farka Toure, Nick Drake, Mauro Pagani/Fabrizio De Andrè, Pierre Bensusan

Voto Microby: 8

Preferite: Foghorn Calling, Dunya, Together Forever Everywhere

Tra la pletora di cantautori intimisti discendenti da Nick Drake, Piers Faccini si è sempre distinto per il suo approccio multietnico a composizioni nate nell’atmosfera umbratile anglo-francese. A ciò verosimilmente predisposto dalla propria apolidìa: il singer-songwriter, musicista, pittore e fotografo è infatti figlio di padre italiano e di madre inglese di origini russo-tedesche, ma vive con la famiglia dall’età di 5 anni in Francia. Al settimo album (esclusi live, EP, collaborazioni) l’artista “limita” il suo cantautorato acustico e gentile, di architettura albionica, ad influenze moresche, maghrebine e berbere, concedendo solo citazioni delle fasce sub-sahariana e mediorientale ed escludendo invece la tradizione balcanica che nel suo capolavoro My Wilderness (2011) lo avvicinava a tratti a Bregovic e Kusturica. Faccini valorizza in particolare la funzione cerimoniale, rituale ed ipnotica della musica tradizionale berbera Gnawa (etnia discendente dagli schiavi neri subsahariani), facendosi accompagnare tra gli altri dagli strumentisti algerini Malik e Karim Ziad e dal maestro di Gnawa marocchino Abdelkebir Merchane, ma anche da un versatile quartetto d’archi arrangiato dall’amico Luc Suarez, già suo sodale agli esordi come musicista nei Charley Marlowe. Ovviamente gli strumenti suonati sono acustici, con rilievo di kora, oud e tamburello, ed in prima persona di uno strumento a corde (un incrocio tra oud e fretless guitar) costruito appositamente per Faccini, eccellente chitarrista in sé. L’ombra e lo spirito, fino all’ispirazione del Nick Drake di Five Leaves Left aleggiano su tutto l’album, tanto da risultare un lavoro di composto ma versatile e colorato cantautorato folk che parte dall’Inghilterra per attraversare la Francia del sud, l’Andalusia, l’Italia delle isole e l’intero Maghreb. Mai noioso ed anzi ricco di suggestioni e sorprese, Shapes of The Fall non è certo raccomandato a chi ama il ritmo ed il fragore, mentre chi apprezza la fragilità dell’attuale melting pot culturale verrà conquistato dalla sua eterogenea e colta complessità, che riserverà stupore anche fra molti anni.

venerdì 11 giugno 2021

Recensione: Imelda May - 11 Past The Hour

 IMELDA MAY - 11 Past the Hour (2021)


Genere: Americana, Pop Folk, Country

Influenze: Chris Isaak, Dusty Springfield, Chrissie Hynde, Pretenders, Adele


La cantautrice irlandese Imelda May ha iniziato la carriera come cantante country/rockabilly ma da qualche anno, grazie all’influenza di T Bone Burnett che ne aveva prodotto il disco del 2017 Life Love Flesh Blood, ha iniziato a diversificarsi musicalmente spingendosi verso un genere più rivolto all’Americana ed al Pop-Folk . Con quest’ultimo lavoro (il suo sesto) l’esplorazione di nuovi generi è ancora più estesa e, anche se il viraggio è verso musicalità più convenzionali e l’abbandono dell’originario rockabilly è ormai chiaro, il risultato è decisamente interessante: intrigano soprattutto l’atmosfera vagamente noir alla Jacques Brel, la voce sommessa e le divagazioni new wave anni ‘80. Ad aiutarla ci sono Ron Wood, Noel Gallagher, Miles Kane, Tim Bran (produttore di Prima Scream e London Grammar) e Davide Rossi (arrangiatore dei Coldplay e dei Goldfrapp): l’intento è probabilmente quello di fornire referenze “stellate” e farsi apprezzare commercialmente anche al di fuori dei confini irlandesi ma quello che conta è che alla fine l’album funziona ed esprime talento. Da ascoltare: Solace, Don’t Let Me Stand On My Own, Diamonds.

Voto: 1/2




martedì 8 giugno 2021

NICK CAVE & WARREN ELLIS (2021) Carnage


Genere
: Dark-ambient, Singer-songwriter

Simili: Marianne Faithfull, Leonard Cohen, Tindersticks, Lambchop, Scott Walker

Voto Microby: 7.6

Preferite: Carnage, White Elephant, Balcony Man

Sembra abbia fine il lutto per la tragica scomparsa del figlio quindicenne nel 2015, dramma elaborato anche grazie alla plumbea ma bellissima coppia di album a lui dedicata. Ma non ha requie la personale tribolazione dell’artista australiano, che con quest’ultima fatica sembra voglia accollarsi la disperazione del mondo riguardo alla “carneficina” del titolo, veicolata dal COVID19. Come per Skeleton Tree (2016) e Ghosteen (2019), anche per Carnage si può parlare di un lungo sermone indirizzato a sé stesso prima ancora che all’ascoltatore: quella che era una sorta di musica ambient spettrale su cui declamare i testi è diventata ora meno angosciante sebbene resti profondamente triste, meno implosiva ma con possibili aperture di speranza, sebbene solo nell’aldilà (“there’s a kingdom in the sky, we’re all coming home”, recita in White Elephant). Dopo 25 anni di intensa collaborazione, con i Bad Seeds ma soprattutto in coppia nella composizione ed esecuzione di eccellenti colonne sonore, per la prima volta l’album è cointestato all’ormai imprescindibile amico-musicista Warren Ellis, che mutate mutandis svolge in Carnage un lavoro simile a quello pubblicato in coppia con Marianne Faithfull (per lei disporre un tappeto sonoro adeguato alla recitazione delle poesie romantiche inglesi contenute nel recente She Walks In Beauty; per Cave comporre ed eseguire soundscapes desolati ma anche solenni a supporto delle sue lunghe orazioni). Tra gospel bianchi, blues ieratici, litanie apocalittiche, melodie minimali il risultato finale è, manco a dirlo, di valore, sebbene lievemente inferiore ai tre lavori che l’hanno preceduto, a partire da Push The Sky Away (2013) che per la prima volta negli ultimi tre lustri abbandonava la furia dei Birthday Party ed il rock d’assalto dei Grinderman per riaffidarsi ai Bad Seeds più espressivi per sottrazione. Chi si approccia al Cave dell’ultimo decennio sa di rinunciare a ritmo e gioia, ma può trovare empatia nello spleen che da sempre appartiene al Re Inchiostro ma, in quest’ultimo lavoro, anche deboli sprazzi di luce che suggeriscono una pacificazione finale. Ma in ultima analisi Carnage rappresenta, citando Soriano, un riuscito quadro “triste, solitario y final”.

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