Genere: Folk mediterraneo, Singer-songwriter, musica etnica maghrebina
Simili: Ali Farka Toure, Nick Drake, Mauro Pagani/Fabrizio De Andrè, Pierre Bensusan
Voto Microby: 8
Preferite: Foghorn Calling, Dunya, Together Forever Everywhere
Tra la pletora di cantautori intimisti discendenti da Nick Drake, Piers Faccini si è sempre distinto per il suo approccio multietnico a composizioni nate nell’atmosfera umbratile anglo-francese. A ciò verosimilmente predisposto dalla propria apolidìa: il singer-songwriter, musicista, pittore e fotografo è infatti figlio di padre italiano e di madre inglese di origini russo-tedesche, ma vive con la famiglia dall’età di 5 anni in Francia. Al settimo album (esclusi live, EP, collaborazioni) l’artista “limita” il suo cantautorato acustico e gentile, di architettura albionica, ad influenze moresche, maghrebine e berbere, concedendo solo citazioni delle fasce sub-sahariana e mediorientale ed escludendo invece la tradizione balcanica che nel suo capolavoro My Wilderness (2011) lo avvicinava a tratti a Bregovic e Kusturica. Faccini valorizza in particolare la funzione cerimoniale, rituale ed ipnotica della musica tradizionale berbera Gnawa (etnia discendente dagli schiavi neri subsahariani), facendosi accompagnare tra gli altri dagli strumentisti algerini Malik e Karim Ziad e dal maestro di Gnawa marocchino Abdelkebir Merchane, ma anche da un versatile quartetto d’archi arrangiato dall’amico Luc Suarez, già suo sodale agli esordi come musicista nei Charley Marlowe. Ovviamente gli strumenti suonati sono acustici, con rilievo di kora, oud e tamburello, ed in prima persona di uno strumento a corde (un incrocio tra oud e fretless guitar) costruito appositamente per Faccini, eccellente chitarrista in sé. L’ombra e lo spirito, fino all’ispirazione del Nick Drake di Five Leaves Left aleggiano su tutto l’album, tanto da risultare un lavoro di composto ma versatile e colorato cantautorato folk che parte dall’Inghilterra per attraversare la Francia del sud, l’Andalusia, l’Italia delle isole e l’intero Maghreb. Mai noioso ed anzi ricco di suggestioni e sorprese, Shapes of The Fall non è certo raccomandato a chi ama il ritmo ed il fragore, mentre chi apprezza la fragilità dell’attuale melting pot culturale verrà conquistato dalla sua eterogenea e colta complessità, che riserverà stupore anche fra molti anni.
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