mercoledì 13 maggio 2015

MUMFORD & SONS, ASAF AVIDAN


MUMFORD & SONS (2015) Wilder Mind
 
Dopo i 2 eccellenti album-fotocopia del 2009 e 2012, in cui i londinesi Marcus Mumford e sodali ci avevano deliziato con la loro rivisitazione del folk-rock inglese dei ’70 ibridato col country-rock californiano ed il cantautorato folk-pop seventies, era lecito attendersi un cambiamento per capire il reale spessore di questa band, assorta a metro di paragone ed esempio per centinaia di gruppi nel mondo. L’evoluzione più probabile sembrava essere una spinta più decisa verso una nuova interpretazione del genere “americana”, viste le ottime prove fornite in questo contesto dal leader Marcus in molti progetti collaterali. Invece la scelta cade su una deriva rock ahimè per nulla originale, in cui la scrittura rimane invariata e gli arrangiamenti per chitarra acustica e banjo sostituiti dall’elettrica. Resta la tendenza ai suoni pieni ed al melodramma, già caratterizzanti il loro suono in acustico, e di scuola Arcade Fire, ed un’epica chitarristica alla U2; inoltre l’opinabile scelta di una sezione ritmica metronomica e stereotipata di marca anni ’80. I brani presi singolarmente sono dozzinali (nel senso che dozzine di gruppi suonano così) ma piacevoli, mentre nell’insieme il lavoro stanca perché si è prediletto il suono alle canzoni. Un passo falso, che lascia il sospetto che il gruppo londinese abbia già espresso il meglio di sé con l’esordio. “Ora che tutti suonano come Mumford & Sons, Mumford & Sons suonano come tutti” (All Music). Un 7.5 al prodotto (ottimamente confezionato), un 6.5 ad ispirazione e coraggio. La media fa 7; come si era sottolineato lo scorso anno a proposito degli ultimi sforzi di U2 e Pink Floyd: troppo poco per dei fuoriclasse.
Voto Microby: 7
Preferite: Believe, The Wolf, Snake Eyes
 
 

ASAF AVIDAN (2015) Gold Shadow



E’ sempre la voce l’elemento portante (e portentoso) della popstar israeliana stabilitasi in Italia: ginoide e drammatica, persa tra l’androginia di Brian Molko, la rinolalia di Amy Winehouse, la liricità di Antony e la teatralità di Marianne Faithfull. Peccato che la scrittura non valga quella delle ugole citate, nonostante Avidan cerchi una maggior varietà rispetto al passato, smarcandosi dall’ispirazione primaria (Leonard Cohen) per toccare gli anni ’60 leggeri di Melanie ed europei di Edith Piaf. Un ascolto piacevole, purtuttavia un leggero passo indietro (o forse manca l’effetto sorpresa) rispetto al precedente Different Pulses del 2012.
Voto Microby: 7.3
Preferite: Little Parcels of An Endless Time, Fair Haired Traveller, My Tunnels Are Long And Dark This Days



 

2 commenti:

lucaf ha detto...

Mumford & Sons. Lasciate da parte grancassa e banjo per la chitarra elettrica ed il synth: una specie di rivoluzione rock. A mio parere la classe è la stessa: "Tompkins Square Park" è una delizia, "Believe" ricorda i migliori Coldplay. Insomma il disco è gradevole anche se a volte discontinuo (ma lo erano anche i primi due dischi). Per me è da ☆☆☆1/2.

lucaf ha detto...

Asaf Avidan. Non mi ha mai molto convinto ed anche questa volta l'ho ascoltato a fatica. Perdibile. Voto: ☆☆

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