MUMFORD
& SONS (2015) Wilder Mind
Dopo
i 2 eccellenti album-fotocopia del 2009 e 2012, in cui i londinesi
Marcus Mumford e sodali ci avevano deliziato con la loro
rivisitazione del folk-rock
inglese dei ’70
ibridato col country-rock californiano
ed il cantautorato folk-pop seventies,
era lecito attendersi un cambiamento per capire il reale spessore di
questa band, assorta a metro di paragone ed esempio per centinaia di
gruppi nel mondo. L’evoluzione più probabile sembrava essere una
spinta più decisa verso una nuova interpretazione del genere
“americana”, viste
le ottime prove fornite in questo contesto dal leader Marcus in molti
progetti collaterali. Invece la scelta cade su una deriva rock
ahimè per nulla originale, in cui la scrittura rimane invariata e
gli arrangiamenti per chitarra acustica e banjo sostituiti
dall’elettrica. Resta la tendenza ai suoni pieni ed al melodramma,
già caratterizzanti il loro suono in acustico, e di scuola Arcade
Fire, ed un’epica chitarristica alla U2;
inoltre l’opinabile scelta di una sezione ritmica metronomica e
stereotipata di marca anni ’80. I brani presi singolarmente sono
dozzinali (nel senso che dozzine di gruppi suonano così) ma
piacevoli, mentre nell’insieme il lavoro stanca perché si è
prediletto il suono alle canzoni. Un passo falso, che lascia il
sospetto che il gruppo londinese abbia già espresso il meglio di sé
con l’esordio. “Ora che tutti suonano come Mumford & Sons,
Mumford & Sons suonano come tutti” (All Music). Un 7.5 al
prodotto (ottimamente confezionato), un 6.5 ad ispirazione e
coraggio. La media fa 7; come si era sottolineato lo scorso anno a proposito degli ultimi sforzi di U2 e Pink Floyd: troppo poco per dei fuoriclasse.
Voto
Microby: 7
Preferite:
Believe,
The Wolf, Snake Eyes
ASAF
AVIDAN (2015) Gold Shadow
E’
sempre la voce l’elemento portante (e portentoso) della popstar
israeliana stabilitasi in Italia: ginoide e
drammatica, persa tra l’androginia di Brian
Molko, la rinolalia di Amy
Winehouse, la liricità di Antony
e la teatralità di Marianne Faithfull.
Peccato che la scrittura non valga quella delle ugole citate,
nonostante Avidan cerchi una maggior varietà rispetto al passato,
smarcandosi dall’ispirazione primaria (Leonard
Cohen) per toccare gli anni ’60 leggeri di
Melanie ed europei di
Edith Piaf. Un ascolto
piacevole, purtuttavia un leggero passo indietro (o forse manca
l’effetto sorpresa) rispetto al precedente Different
Pulses del 2012.
Voto
Microby: 7.3
Preferite:
Little Parcels of An
Endless Time, Fair Haired Traveller, My Tunnels Are Long And Dark
This Days
2 commenti:
Mumford & Sons. Lasciate da parte grancassa e banjo per la chitarra elettrica ed il synth: una specie di rivoluzione rock. A mio parere la classe è la stessa: "Tompkins Square Park" è una delizia, "Believe" ricorda i migliori Coldplay. Insomma il disco è gradevole anche se a volte discontinuo (ma lo erano anche i primi due dischi). Per me è da ☆☆☆1/2.
Asaf Avidan. Non mi ha mai molto convinto ed anche questa volta l'ho ascoltato a fatica. Perdibile. Voto: ☆☆
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