sabato 2 settembre 2017

ALGIERS, STEVEN WILSON


ALGIERS (2017) The Underside of Power



Già sorprendende al debutto due anni orsono, il trio (ora quartetto) di polistrumentisti di passaporto misto UK/USA colpisce ulteriormente per la maturità raggiunta solo al sophomore album. La rabbia organizzata dei Clash di London Calling e le linee melodiche e ritmiche di quelli di Sandinista shakerate con l'elettronica del nuovo millennio e l'appeal radiofonico dei primi Bloc Party. L'evoluzione che questi ultimi e la Mark Lanegan Band non sono mai riusciti (finora) a completare: se ammettiamo, dolenti, che il rock inteso comunemente ha chiuso i battenti (passando a "genere" classico, non più contemporaneo) a fine anni '90, gli Algiers propongono quello che potrebbe essere considerato il rock dei tempi attuali, con liriche di allerta sociale supportate dal groove del rock'n'roll, l'urgenza del punk, la danzabilità black, l'attenzione ai beat elettronici e agli hooks radiofonici, senza perdere un grammo di aggressività (controllata). Un ascolto non facile ma che sorprende per potenza ed intelligenza. Da seguire attentamente (e possibilmente gustare in concerto, che si suppone infuocato).
Voto Microby: 8
Preferite: Cry of The Martyrs, M.me Rieux, Walk Like A Panther


STEVEN WILSON (2017) To The Bone

Un incipit alla "Time" di pinkfloydiana memoria (la titletrack) inganna il fan che si attende l'ennesima eccellente prova in stile prog, da parte dell'artista certamente guida assoluta nella riattualizzazione del genere progressive che tanto contrassegnò gli anni '70. In realtà, nonostante la dichiarazione dell'artista di aver voluto con il presente album omaggiare le sue influenze più pop anni '80 (Tears For Fears, Peter Gabriel, Kate Bush tra le altre), il risultato finale è un ibrido tra prog e pop-rock, pur pendendo verso quest'ultima sponda. Tolti un paio di episodi fuori contesto (il fuorviante singolo "Permanating", che ha fatto storcere il naso a molti fans storici, ed il poppettino di "Song of I" con Sophie Hunger ospite alla voce) l'album si fa comunque apprezzare per la consueta grande capacità di allestimento dei suoni e degli arrangiamenti, pur essendo meno ispirato del solito nella scrittura. Non una svolta (Wilson è da sempre camaleontico nella sua curiosità musicale) nè uno dei suoi lavori migliori (come sostenuto soprattutto dalla stampa americana), ma un disco di buone canzoni vestite con abiti meno eleganti e più aggressivi del solito, da parte di un fuoriclasse nella gestione dei suoni.
Voto Microby: 7.5
Preferite: Nowhere Now, To The Bone, The Same Asylum As Before


1 commento:

lucaf ha detto...

Steven Wilson: un disco più "Blackfield" che "Porcupine Tree" ma, come sempre, di grande qualità. Voto: ☆☆☆☆

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